di Sergio ROSSI
Questo in Botswana è stato un Safari immerso nella natura più autentica e incontaminata, che non avrebbe potuto essere più emozionante: è stato come trovarsi da protagonisti in un documentario della National Geographic.
Ma prima di addentrarmi nella descrizione del viaggio voglio subito raccontare l’episodio in assoluto più coinvolgente cui abbiamo assistito a metà del nostro soggiorno e che può ben essere emblematico delle esperienze che abbiamo vissuto.
Eravamo appena risaliti sul nostro 4×4 dopo una sosta in riva ad uno specchio d’acqua dove si erano rinfrescati e abbeverati a turno ippopotami, facoceri ed elefanti in gran numero, quando abbiamo visto un’elefantessa col suo piccolo da sola nella boscaglia in cerca di cibo fresco (1);
ed ecco che subito i due animali sono stati circondati da quattro leonesse, prima quasi sornione e indifferenti, poi sempre più aggressive, determinate e implacabili nell’avvicinarsi al docile cucciolone stretto al riparo della sua mamma, che intanto agitava le orecchie e la proboscide, si dimenava furiosamente e lanciava altissimi barriti.
Eravamo ormai quasi rassegnati ad assistere in diretta all’uccisione del piccolo, per la cui salvezza naturalmente tutti noi tifavamo, quando ecco che, come in una carica della cavalleria dei film western dei vecchi tempi, finalmente sono arrivati “i nostri” non al suono delle trombe ma di furiosi barriti e che, stretti a testuggine e ad una velocità sorprendente per dei pachiderma, hanno messo in fuga in pochi secondi le incaute leonesse e salvato mamma e piccolo da una morte certa. Lezione esemplare della solidarietà di specie che molti animali ancora conservano e noi umani abbiamo perso ormai chissà da quanto tempo. Meno drammatico ma molto più tenero anche se comunque coinvolgente è quanto abbiamo visto sul fare del tramonto un paio di giorni dopo, ancora con protagoniste un’elefantessa e il suo piccolo. La mamma, accortasi che la nostra macchina si era involontariamente frapposta tra lei e il suo elefantino, è tornata subito indietro e si è piazzata fra noi e lui quasi come a proteggerlo, osservandoci con assoluta calma ma anche con determinazione come a dire: “non ho niente in contrario che voi giriate in 4×4 nella mia foresta di acacie se ve ne state per conto vostro, ma se solo provate a infastidire mio figlio allora per voi saranno guai molto seri”. Ed a questo proposito devo dire quanto ci hanno subito raccomandato i nostri bravissimi Ranger: l’importante, quando ci si avvicina ai big five e non solo, è rimanere assolutamente fermi e in silenzio e non fare movimenti improvvisi, perché gli animali percepiscono la macchina come un’entità neutra cui sono ormai abituati, ma se invece intuiscono che al suo interno ci sono esseri umani che si muovono e si agitano allora questi ultimi diventano immediatamente delle prede da assalire o dei pericoli da eliminare.
E mantenendo sempre questo atteggiamento prudente abbiamo potuto veramente osservare elefanti, leoni (2) e financo leopardi quasi a pochi centimetri di distanza, a differenza di quanto ci era capitato l’anno scorso in Namibia dove gli animali li abbiamo sempre dovuti ammirare a dovuta distanza.
Comunque abbiamo appreso che i più pericolosi per l’uomo non sono i leoni, i leopardi e neppure gli ippopotami, bensì i bufali, in assoluto i più aggressivi e pronti a caricare sempre e comunque, e che inoltre si muovono di solito in grandi mandrie, che infatti abbiamo sempre ammirato da lontano.
Nel complesso abbiamo trascorso otto giorni molto intensi in campi tendati mobili preallestiti, tutti dotati di bush toilet e doccia e montati e rimontati ogni quarantotto ore in modo da consentirci una visione il più possibile ampia del territorio attraversato. Per le escursioni in 4×4 si partiva al mattino intorno alle cinque e trenta, con una temperatura poco superiore allo zero e che invece intorno a mezzogiorno sfiorava i trenta gradi per poi tornare rigida al tramonto, per cui ci siamo sempre dovuti vestire nel famoso metodo “a cipolla” che consente di adattarsi alle forti escursioni termiche, imbacuccati al mattino presto, quasi solo in camicia a mezzogiorno, di nuovo con cappotto e berretto di lana alla sera.
I pasti (salvo qualche picnic per esigenze logistiche) e soprattutto le cene erano sempre preparate sul momento dal bravo cuoco che ci ha seguito per tutto il tour e sono sempre state ottime e abbondanti. Si iniziava regolarmente con una zuppa, si proseguiva poi con un piatto di pasta, riso o cuscus e un secondo di carne varia, dal pollo al kudu e si terminava con il dessert, il tutto condito da buon vino sudafricano. E prima di cena ci si poteva sedere tutti insieme attorno al fuoco all’aperto a bere un gin tonic o un analcolico. Tra le 9,30 e le 10 di sera si doveva rientrare nelle proprie tende muniti di indispensabili torce, perché i generatori venivano spenti e si trascorreva realmente la notte al suono di ippopotami, iene, leoni, elefanti.
Il viaggio ha attraversato dei paesaggi molto differenti tra loro. Siamo partiti dal Delta dell’Okavango, che è il secondo più grande delta fluviale interno del mondo (dopo quello del Niger) e che nasce in Angola e muore nel deserto del Kalahari creando per oltre 1500 km uno straordinario intrico di terra e acque e caratterizzato da canali, paludi, lagune, isole e zone completamente aride che si alternano e mescolano tra loro (3).
Nei primi due giorni hanno dominato gli arbusti di acacie e i giganteschi termitai che assumevano le forme più fantasiose, enormi castelli di sabbia o copie della Sagrada Familia in miniatura, a volte isolate nella sabbia altre avvinghiate a tronchi d’albero rinsecchiti, con effetti surreali che nemmeno Escher o Dalì avrebbero saputo immaginare (4).
Inizialmente considerate solo dannose si è ormai scoperto che le termiti aiutano a stabilizzare l’ecosistema e combattono gli effetti del cambiamento climatico, perché con la distruzione del legno, delle altre parti vegetali e degli altri residui organici, assicurano la liberazione di nutrienti nel terreno che, in tal modo, diviene fertile.
Poi ecco farsi avanti i cosiddetti “alberi delle salsicce” (Kigelia africana) per la forma dei loro frutti di cui sono particolarmente ghiotti elefanti, giraffe (5) e ippopotami, ma soprattutto gli alberi di mopane, dalle caratteristiche foglie a farfalla e dalle dimensioni che vanno da quelle di semplici arbusti a quelle di alberi veri e propri capaci di acquisire una straordinaria varietà di colori, dal giallo pallido al verde chiaro all’oro intenso, tanto che a un certo punto, in un bosco di mopane particolarmente fitto e già nella zona di Moremi, mi è parso di attraversare il Giardino delle esperidi con i suoi alberi dalle mele dorate. Poi, nella zona di Savuti, di nuovo deserto interrotto di tanto in tanto da enormi baobab che, privi di foglie per l’inverno, sembravano propendere verso il nulla i loro rami rinsecchiti come nel celebre “Seminatore” di Van Gogh (6).
E infine, lungo il fiume Chobe, ecco dipanarsi un sinuoso specchio d’acqua di un azzurro intenso, come se un giocoliere si divertisse a srotolare dei lunghissimi nastri color turchese donando loro traiettorie del tutto impreviste.
Quanto alla fauna, in un mio articolo sulla Namibia proprio su questa stessa rivista scrivevo:
«In pochi altri Paesi puoi vedere una varietà così impressionante di animali di ogni forma, stazza e grandezza: la nobile e supponente giraffa che guarda tutto e tutti dall’alto in giù ma che per bere deve piegare le gambe a compasso e assumere un’aria sgraziata che poco le si addice; la zebra di pianura, dalle strisce alternate di nero e marrone che nemmeno un pittore saprebbe disegnare con tanta precisione (7);
il minuscolo dyk-dyk dalle orecchie a ventaglio, il saltellante e agilissimo springbok, il poco più grande impala, tutte varietà di antilopi capaci di sopravvivere nelle situazioni più estreme. E ancora i kudu dalle corna ritorte come il berniniano baldacchino di San Pietro o gli orici che hanno invece corna a scimitarra alte anche un metro e si muovono lenti e sospettosi come un agente segreto sotto copertura. E aumentando le dimensioni ecco gli gnu, i bisonti africani e infine gli elefanti, padroni incontrastati di queste terre…».
Ebbene, gli animali visti allora sono quasi una piccola cosa rispetto a quelli ammirati in quest’ultimo viaggio.
Al mattino ecco il volo panoramico a bassa quota che ci ha permesso di osservare dall’alto lo straordinario intrico di terre e acque del delta dell’Okavango e atterrare nella regione di Moremi dove ci attendevano i nostri ranger per portarci a destinazione nel campo mobile appena allestito. E subito ecco un impatto ravvicinato con una elefantessa incinta e il suo piccolo, ecco giraffe, antilopi d’acqua, cercopitechi verdi e uccelli dalle forme più fantasiose. La tenda dove avremmo alloggiato, con comodi letti, due ampie finestre con zanzariere, bush toilet e doccia a richiesta ci è subito apparsa molto meglio del previsto (8): abbiamo scaricato i bagagli, pranzato, fatto una siesta in poltrona davanti al nostro alloggio e siamo partiti per il nostro primo Safari.
I vari ranger, in contatto radio tra loro oltre che abilissimi a cogliere i minimi segnali di orme o rumori, ci hanno subito fatto assistere ad uno spettacolo straordinario: due mamme leonesse e i loro otto cuccioli sdraiate ad allattare a turno al riparo di una radura con un’altra leonessa come di guardia a controllare che non ci fossero pericoli, mentre seminascosto un leone maschio riposava poco più avanti. I piccoli giocavano, si azzuffavano, prendevano il latte a turno o addirittura tutti insieme dalle loro mamme in un idilliaco quadretto familiare di sorprendente dolcezza (9). Come è noto i leoni formano gruppi parentali molto complessi, con più maschi adulti di cui uno dominante, diverse femmine di cui una dominante, altri esemplari più giovani, e vari cuccioli. Cacciano prevalentemente di notte ma ci è capitato di assistere anche ad assalti alla luce del sole e effettuati soprattutto in gruppo e più raramente in solitaria. Le sue prede possono andare dai vari tipi di antilopi (tranne i velocissimi impala che infatti sono il pasto preferito dai leopardi) fino agli gnu ed ai bufali, ma anche i cuccioli di elefanti, come ho raccontato all’inizio.
Al mattino seguente il nostro primo impatto è stato con una zebra ferita ad una zampa che zoppicava vistosamente e per la quale non era difficile prevedere una fine da facile preda. Ma per sua fortuna il leone dalla superba criniera e dall’incedere regale che abbiamo incontrato subito dopo (probabilmente lo stesso che avevamo solo intravisto la sera prima) non aveva nessuna intenzione di andare a caccia, almeno per il momento e si era invece attardato presso una pozza d’acqua a bere senza sosta (10), presto raggiunto da un leone più giovane, anch’esso zoppicante per qualche spina o ramo che si era infilato nella zampa anteriore destra.
E le sorprese non erano finite qui perché poco dopo e poco distante ecco un altro leone con le zanne sporche di sangue davanti ad una carogna di bufalo semi spolpata ma evidentemente dalla carne ancora fresca e appetibile, a dimostrazione di come anche le prede più grosse possano cadere vittime degli assalti ben orchestrati dei re della foresta.
Intorno a mezzogiorno siamo tornati al campo per il pranzo e la sosta d’obbligo nelle ore più calde della giornata e appena ripreso il nostro cammino abbiamo subito ritrovato le tre leonesse con i loro otto cuccioli in un quadretto idilliaco di serenità familiare che si contrapponeva alle scene cruente del mattino, ma il meglio doveva ancora arrivare. Verso l’imbrunire, e quando sembrava che ormai dovessimo rientrare al campo, abbiamo visto i nostri ranger agitarsi richiamati via radio dai loro colleghi, sterzare improvvisamente e mostrarci poi felici come bambini l’autentico scoop della giornata. Un branco di licaoni chiaramente a caccia di cibo. Si tratta di un animale difficile da avvistare e considerato in via di estinzione ma di cui nella zona di Moremi esistono evidentemente ancora numerosi esemplari (11).
Ha le sembianze di un cane ma è infinitamente più brutto, con sproporzionate orecchie tonde, con un mantello spelacchiato a macchie bianche e nere ed una faccia di rara ferocia, come io mi immagino che dovesse diventare il dottor Jekyll quando si trasformava in mister Hyde. Ha la percentuale più alta di riuscita nella sua caccia alle prede, superiore addirittura a quella dei leoni, perché insegue (sempre in gruppo) le sue vittime fino allo sfinimento e noi ne abbiamo subito avuta la conferma perché dopo averli momentaneamente persi di vista abbiamo presto rivisto i licaoni sbranare una malcapitata piccola antilope, forse un raficero, cui non avevano dato scampo (12). Dopo i pasti torna nelle tane dove si rifugia la notte e rigurgita parte del cibo per sfamare i suoi piccoli e così dovevano aver fatto anche questa volta.
Infatti, al mattino seguente, il solito tamtam dei ranger aveva avvertito che erano stati avvistati dei leoni nei luoghi dove i licaoni avevano scavato i propri rifugi, più che per sbranarli, perché non costituiscono certo dei pasti attraenti, per eliminare dei pericolosi concorrenti e si era subito adunata una piccola folla di vetture piene di turisti in cerca di emozioni. I licaoni erano infatti fuggiti in tempo, le tane completamente vuote e anche dei leoni nessuna traccia. Nel frattempo il campo tendato era stato smontato per il primo trasferimento, questa volta nella riserva di Moremi, situata sulle sponde orientali del delta dell’Okavango e che alterna zone semidesertiche, foreste di acacie e mopane a numerose pozze d’acqua dove abbiamo potuto finalmente scorgere i primi branchi di ippopotami completamente immersi nell’acqua (13).
E sulla via del ritorno, tranquillamente appollaiato su un albero, uno splendido esemplare di leopardo maschio (14),
oltre che naturalmente ai soliti branchi di impala (15),
zebre, antilopi d’acqua, kudu, gnu (16), elefanti, giraffe e chi più ne ha più ne metta, oltre ai simpatici e sgraziatissimi facoceri, una sorta di cinghialotti dalle strane zanne a manubrio che sembrano delle corna che spuntano dal naso: se ne stanno buoni buoni lungo le pozze d’acqua in attesa che prima si dissetino gli elefanti.
Senza seguire un rigido ordine cronologico, voglio raccontare ora di ben tre tentativi di caccia di leoni e leonesse tutti andati a vuoto, a conferma di come anche per questi animali la vita nella savana sia tutt’altro che semplice e richieda infinita pazienza. Il primo lo abbiamo colto al mattino presto e aveva l’aria gioiosa di una scampagnata. Una leonessa con una figlia più grande e un giovane maschio un po’ scapestrato aveva avvistato delle facile prede in campo aperto ma il leone aveva deciso di attaccare un po’ a sproposito facendo fuggire le sue ipotetiche prede. Eppure era tornato tutto giulivo da mammà che lo aveva subito perdonato, come si fa con un figlio che torna tardi la sera senza avvertirti, magari promettendoti di non farlo mai più.
Le altre scene, simili tra loro, si sono invece svolte in ore più calde della giornata e evidentemente hanno colto i felini non sufficientemente affamati per sferrare attacchi più determinati. Si è trattato di un gruppo di almeno 6/8 membri col solito maschio dominante più indietro di tutti, alcune leonesse e giovani leoni, secondo rigide gerarchie, mandati in avanscoperta a strisciare lentamente e con continue interruzioni nell’erba bassa (17), dopo aver visto in lontananza un branco di gnù una volta e di kudu un’altra. Ma in entrambi i casi le potenziali vittime erano fuggite prima di essere attaccate. Maggiore fortuna era toccata in un’altra occasione ad un branco di sciacalli e marabù (18) che abbiamo visto spolpare i resti di una carcassa di ippopotamo che evidentemente doveva aver costituito un ottimo cibo per molti animali della zona.
Nel frattempo, prima di trasferirci nella zona di Savuti per la terza tappa del nostro tour, abbiamo effettuato una molto pubblicizzata ma altrettanto inutile gita in mokoro, tipica imbarcazione locale che viene spinta stando in piedi e muovendosi con un palo, che nulla ha aggiunto alla nostra esperienza.
Quanto a Savuti, inizialmente si presenta più arida e dominata da giganteschi ancor che spogli alberi di baobab ma poi diventa man mano più ricca di vegetazione ed è caratterizzata da un autentico mistero naturale, il Savuti Channel, che nel corso degli ultimi cento anni ha smesso e ripreso a fluire più volte senza motivo apparente, con l’ultimo periodo di secca che iniziato nel 1982 è terminato nel 2008. Ed è proprio in questa zona, dopo un picnic a stretto contatto con un branco di ippopotami, che abbiamo assistito all’episodio dell’attacco delle leonesse al piccolo elefantino che ho descritto all’inizio del mio racconto. Ed è sempre qui, appena prima del tramonto, che abbiamo ammirato una splendida esemplare di leopardo col suo cucciolo che aveva trascinato su di un albero una carcassa di povero impala.
L’ultimo trasferimento, ancora più lungo del solito, ci ha però portato nella zona forse più bella dell’intero viaggio, quella lungo il fiume Chobe, che segna il confine con la striscia di Caprivi, in Namibia. Qui, oltre agli animali citati in precedenza, abbondano anche i coccodrilli, i babbuini ed enormi branchi di bufali, da noi ammirati sempre da lontano. Ma è soprattutto lo spettacolo delle giraffe e degli elefanti, che al tramonto si recano a dissetarsi lungo il fiume attraversando quella che viene definita appunto l’elephant way, e che dal fitto bush li conduce presso lo specchio d’acqua, a costituire un momento indimenticabile.
La sfera infuocata del sole si stempera velocemente dal rosso fuoco al rosa intenso al pervinca, mentre le sagome dei pachiderma diventano viola scuro, quasi nere, prima di confondersi del tutto con la notte incombente. E se devo definire cosa caratterizza per me più di ogni altra cosa il “mal d’Africa” non esito a dire le sue aurore e i suoi tramonti. Africa che mi è apparsa tenera e struggente, emozionante e crudele, insomma bella, come la vita.
Prima di rientrare a Roma mi sono fermato per una breve sosta a visitare uno dei più importanti musei d’arte d’Europa e confesso che di fronte ai Monet, ai Vlaminck, ai Degas, ai Kirkner, ai Van Gogh, agli Chagall, ai loro colori, alle loro immagini insieme poetiche e visionarie mi sono emozionato come davanti ai tramonti africani. Ed è per questo che trovo folle che dei giovani, forse con le migliori intenzioni ma sicuramente indottrinati da scellerati maestri, pensino di difendere la natura sporcando e oltraggiando capolavori vari sparsi per il mondo. Contrapporre arte e natura è semplicemente idiota: non si può difendere e rispettare l’una senza difendere e rispettare l’altra e viceversa, essendo entrambe la massima testimonianza delle nostra civiltà.
E, soprattutto, non possiamo rispettare l’arte e la natura se innanzi tutto non ci rispettiamo tra noi essere umani e non smettiamo di ritenerci superiori agli altri solo perché bianchi ed europei anziché neri e africani. Per quale motivo dovrei ritenere un deficiente bianco -che durante un Safari si sporge dai finestrini, getta cartacce nella savana etc.,- superiore al ranger di colore che quelle cartacce scende a raccogliere e che con la natura ha un dialogo intimo e profondo? Dobbiamo saper vivere per sottrazione. Liberarci da tutte le incrostazioni negative di una cultura eurocentrica ormai obsoleta e recuperarne invece i valori originari di libertà, uguaglianza e fraternità per confrontarci alla pari con un magnifico continente, quello africano, che può travolgerci o salvarci.
Sergio ROSSI Roma 1 Settembre