“Alla ricerca della pace perduta”, in un libro il dialogo tra due intellettuali per una riflessione contro la disperazione di un’epoca, per fermare guerre ed ingiustizie.

di Sergio ROSSI

Alla ricerca della pace perduta

E’ di recente uscito (2023) per la casa editrice Sensibili alle foglie un bellissimo libro, di Paolo Pagliai e Roberto Carlon dal titolo emblematico Alla ricerca della pace perduta. Sull’isola del tesoro, più che altro un dialogo epistolare sviluppatosi tra il maggio del 2021 e la primavera del 2022 tra due personalità diverse per formazione e ambientazione geografica ma unite da una medesima sensibilità sociopolitica e intellettuale.

Pagliai è un docente universitario che vive in Messico dove da più di venticinque anni insegna Diritti umani e Costruzione di Pace e da una decina d’anni dirige l’Alta Escuela para la Construcción de Paz. Carlon si definisce “ottico e artigiano [ma io direi designer e artista di levatura internazionale] autodidatta per scelta e dedito alla meditazione che ha inciso profondamente sulla sua vita e su quella delle persone che lo circondano”.

Paolo Pagliai                                                                             Roberto Carlon

Nella quarta di copertina il volume viene così presentato:

«Sull’isola del tesoro le insidie non mancano e i compagni di viaggio sono diversi da noi, pensano cose diverse e fanno sogni differenti. Non è facile camminare al loro fianco, a volte incutono persino paura. Eppure, per la nostra ricerca, tutti sono necessari, non c’è uno solo di loro che non sappia qualcosa che tutti gli altri non sanno perché di questo si tratta, del tesoro più grande, il più prezioso di tutti: la pace. Non un saggio tecnico e noioso, non un libro di filosofia immacolata che non vuole sporcarsi con il fango del mondo, e nemmeno un manuale per quelli che vogliono dedicarsi a mettere d’accordo le persone; sull’isola del tesoro c’è tutto il mondo con ogni grammo del proprio fango, c’è la realtà, ci sono i problemi quotidiani, le domande di sempre che non hanno mai ricevuto una risposta chiara. Questo è un carteggio, uno scambio di lettere spericolate sull’unico problema di cui vale la pena parlare: come si costruisce la pace? Che cos’è veramente? Siamo pronti a salpare».

Ma questo è anche un libro che poggia su base filosofiche e sociologiche solidissime e vastissime, da Spinoza a Max Weber, da Marx ed Engels a Schopenhauer e Nietzsche, da Erich Fromm a Simone Weil, per non parlare poi degli scrittori e poeti, Cervantes e Stevenson, Brecht e Pirandello, Tolstoj e Garcia Marquez, per citarne alcuni. Una lettura arricchente e stimolante dunque, sempre alla ricerca di quel filo di Arianna per ritrovare la pace, ahimè, perduta e speriamo non per sempre. Io naturalmente non credo alla favola che non esistano più destra e sinistra, anche se sono concetti ormai così sfilacciati che si stenta a riconoscerne netti i contorni, ma proprio perché mi considero di sinistra, mi addolora e mi indigna vedere come il partito politico che la sinistra dovrebbe rappresentare, il PD, in molti suoi esponenti di spicco italiani e soprattutto europei ha assunto posizioni guerrafondaie ed iper atlantiste veramente insopportabili. Ed anche su un problema semplice e concreto come quello di non consentire che le armi inviate in Ucraina possano essere usate al difuori dei suoi confini la sua dirigenza si è fatta scavalcare, nell’esplicitare un rifiuto netto e irreversibile, addirittura dall’attuale governo di destra-destra, come certa stampa radical chic più attenta ai nominalismi che alle azioni concrete ama definire quello oggi al potere in Italia.

E allora il vero discrimine oggi è tra chi ripudia la guerra ed ambisce alla pace senza se e senza ma, sempre e dovunque, e si rifiuta di considerare la morte di un solo essere umano, specie se bambino, come un “danno collaterale” da mettere comunque nel conto e chi invece pensa che ci siano paci cattive e guerre buone. Questo naturalmente non significa accettare soprusi ed invasioni o negare il diritto alla legittima difesa ad un popolo e non solo ad un singolo individuo, ma ad esempio nel caso specifico della guerra in Ucraina, l’autodifesa si è ormai trasformata in guerra permanente fomentata da chi del popolo ucraino e delle sue sofferenze se ne frega altamente ed è mosso da interessi economici e strategici non meno discutibili di quelli dell’invasore russo, che va in ogni caso condannato senza esitazioni, questo sia chiaro. Ed a maggior ragione questo ragionamento vale per la guerra medio orientale, dove ormai il diritto all’autodifesa di Israele si è trasformato in un massacro orribile di un intero popolo, con metodi anche di terrorismo spiccio e disgustoso, davanti ad un’opinione pubblica mondiale taciturna ed assente.

In effetti quando questo carteggio, nato durante l’epidemia del Covid, si interrompe, la guerra russo-ucraina, almeno nella sua fase più terribile, era appena iniziata e l’attacco terroristico di Hamas era di là da venire, ma questo non diminuisce certo l’attualità del libro, anzi ne accresce il valore profetico.

In una delle prime pagine Pagliai scrive:

«C’è un piccolo libro di Martin Buber, Il cammino dell’uomo, che ha segnato la mia vita in modo indelebile: “I nostri saggi dicono: Cerca la pace nel tuo luogo. Non si può cercare la pace in altro luogo che in se stessi finché qui non la si è trovata…Quando l’uomo ha trovato la pace in se stesso, può mettersi a cercarla nel mondo intero” E’ proprio così, la pace si costruisce partendo da noi stessi. C’è sempre qualcuno che, quando lo dico in pubblico, in una lezione all’università o in qualche conferenza, si mette a ridere, pensando che si tratti di un luogo comune, di una frase fatta, ma vedi, non c’è niente di più vero: se non siamo capaci di fare i conti con noi stessi, come possiamo pretendere di risolvere il mondo?».

E Carlon risponde:

«Sappiamo che il bene è pace e la pace è nella giustizia e nell’uguaglianza. La pace non si rappresenta attraverso le idee né può essere la rappresentazione di un trattato sottoscritto dalle firme dei contendenti, la pace la si vive “dentro” ognuno di noi. Bisogna scoprirla e coltivarla, e produrre le azioni che la affermano».

E poco più avanti, citando il Marx di Per una critica dell’economia politica: “Non è la coscienza degli uomini a determinare il loro essere, ma è al contrario il loro essere sociale a determinare la loro coscienza” osserva:

«Attenzione perché anche il sapere, se non c’è consapevolezza, è soggetto al processo di accumulazione e può diventare elemento narcisistico di separazione e mistificazione. La cultura borghese, infatti, promuove tutto questo attraverso l’educazione». Provocazione alla quale risponde Pagliai: «Che ti posso dire io dell’educazione? Io pedagogo, professore, preside, educatore, formatore, maestro? Forse che, sebbene la Scuola sia uno dei più grandi motori di violenza che gli esseri umani abbiano mai costruito nella loro Storia, proprio dall’educazione può partire il processo di liberazione della persona umana».

Affermazione che condivido in pieno. Certo, essendo io stato prima studente e poi giovane docente alla Sapienza di Roma negli anni cruciali che vanno dal ’68 ai primi anni ’80, quando si è brevemente passati dall’entusiasmo del Sessantotto e delle manifestazioni oceaniche contro gli americani e la guerra in Vietnam al pericolo anche fisico cui erano sottoposti gli insegnanti di sinistra come me da parte di terroristi o anche semplici simpatizzanti autodefinitisi (a vanvera) di estrema sinistra, non posso negare il ruolo nefasto assunto da troppi “cattivi maestri”, magari nascosti in Francia e protetti dalla cosiddetta “dottrina Mitterand”, mentre tanti giovani sprovveduti si immolavano in nome di false dottrine.

Ma, d’altro canto non è pure vero che proprio quell’ostilità contro la guerra di cui parlavo prima è nata nelle università e nei licei di tutto il mondo? E oggi la solidarietà verso il popolo palestinese orrendamente massacrato non ha nelle università uno dei luoghi più significativi? E dunque, proprio come sostiene Pagliai, la Scuola, intesa in senso lato, può essere motore di violenza o stimolo di liberazione. Sta a noi orientarla verso un senso o nell’altro e sarebbe molto bello se anche in Italia potesse nascere un’Alta Scuola per la Costruzione della Pace.

E a questo proposito giunge opportuno citare Lode dell’imparare, una bellissima poesia del 1933 del più grande poeta del Novecento, Bertolt Brecht (sì, proprio colui che secondo una delle migliori riserve intellettuali del nostro paese -ahimè come siamo caduti in basso!-, avrebbe scritto “molte oscene idiozie”):

«Impara quel che è più semplice! Per quelli/il cui tempo è venuto/non è mai troppo tardi! / Impara l’a b c; non basta ma /Imparalo! E che non ti venga a noia! /Comincia! Devi sapere tutto, tu! Tu devi prendere il potere/ Impara, uomo all’ospizio! / Impara, uomo in prigione! /Impara donna in cucina! / Impara sessantenne! /Frequenta la scuola senza tetto! / Acquista il sapere tu che hai freddo! / Affamato, afferra il libro: è un’arma /Tu devi prendere il potere».

Dunque l’educazione, la conquista del sapere, come strumento di liberazione, che è l’esatto opposto di oppressione. E la conoscenza dei fatti e della storia, prima nei singoli individui e poi in intere generazioni, come premessa indispensabile per la conquista della pace.

Anche per quanto riguarda il concetto di ideologia, altro tema oggetto di dibattito tra i due autori e sul quale tornerò a breve, non esiste l’Ideologia tout court, esistono ideologie cattive ed ideologie buone, come quella che costituisce il necessario supporto per un’autentica ricerca della pace, che però, come sottolinea Carlon, non può essere disgiunta dalla libertà e dalla giustizia sociale. E più avanti sottolinea:

«Il mio bisogno fondamentale è quello di sentirmi accolto benevolmente…E’ per questo e da questo che dobbiamo imparare ad accogliere: Se essere accolto è il mio bisogno fondamentale, come essere umano, se lo riconosco in me, avvicinandomi alla terra, all’humus che mi ha generato, questo è il bisogno fondamentale di tutta l’umanità. E’ questo il significato profondo dell’umiltà che non è sottomissione, ma riconoscimento. Abbiamo colto il senso del bene comune, di quanto abbiamo bisogno l’uno dell’altro, di quanto ci sia in comune tra noi, qualunque sia il colore della pelle, qualunque sia la provenienza, il grado di istruzione, lo status sociale, la professione… la Pace si realizza nella giusta azione, in quella che riconosce e restituisce dignità a tutti e a ognuno».

Carlon evidenzia poi come sempre più spesso ci troviamo a imbatterci in fenomeni di violenza, apparentemente inspiegabili, nella società civile, come quello, diventato ormai una vera e propria epidemia, dei cosiddetti “femminicidi”. E a questo proposito voglio riprodurre, senza cambiare una virgola, quanto avevo scritto d’impulso alla fine dell’anno scorso ma non avevo mai pubblicato:

Il 2023 si è concluso con alcuni drammatici fatti di cronaca etichettabili col bruttissimo termine di “femminicidi” e che a mio modo di vedere non hanno suscitato la dovuta indignazione e il dovuto scalpore, aldilà di generiche e spesso velleitarie discussioni troppo spesso degradate sui social a disgustose arene tra “odiatori”. E soprattutto ho trovato una scarsissima partecipazione al dibattito che comunque questi episodi hanno suscitato da parte dei cosiddetti intellettuali, ammesso che questo termine abbia ancora un senso. Mentre di questioni concrete su cui riflettere ne abbiamo avute fin troppe, a partire dal recentissimo “femminicidio” che ha coinvolto la giovanissima mamma Vanessa Ballan, episodio che mi ha profondamente colpito per molteplici ragioni. Innanzi tutto per quello che Maurizio De Giovanni, in un’intervista al Riformista del 25 dicembre del 2023 ha definito un “omicidio di stato”. «Lo stato è un’istituzione che ha l’obbligo di proteggere i cittadini -afferma lo scrittore- Vanessa e il marito avevano denunciato l’omicida e nel momento esatto della denuncia sarebbero dovuti partire i provvedimenti restrittivi nei suoi confronti, ma così non è stato. Si tratta di un’inerzia gravissima delle istituzioni preposte». E lo scrittore chiedeva a tutti di dare un senso a questa terribile morte con una reazione forte. Reazione che finora non vi è assolutamente stata e che dovrebbe riguardare anche un altro delicato aspetto di questa vicenda, aspetto questa volta stigmatizzato dalla ex deputata Simona Cecchinato che ha scritto come «tanto poca sembra sia stata l’attenzione prestata prima alla denuncia di questa giovane donna, tanto sembra oggi eccessiva la comunicazione sulle indagini in corso: con la motivazione di ricostruire a posteriori le minacce e violenze del suo assassino si sta vivisezionando la vita della vittima e per “chiarire” il movente si comunica al mondo che si procederà a verificare la paternità del feto! Ma davvero serve mettere in questo modo in piazza aspetti così delicati e intimi, senza alcun rispetto per la privacy di questa donna e del suo compagno e senza considerare gli effetti di tutto ciò sui sentimenti di chi l’amava e dei suoi genitori? Forse che questa non è una vera e propria vittimizzazione secondaria?».

Certo che lo è, anzi per me si tratta di una situazione dove si mescolano classismo (che importanza può avere ai fini delle indagini che la ragazza facesse la commessa, e se era dirigente d’azienda cosa cambiava?); razzismo (una veneta uccisa da un kossovaro, e se l’omicida era svedese forse era meno grave?) e infine più grave di tutto il sessismo, con la divulgazione di aspetti della vita privata della vittima assolutamente ininfluenti ai fini delle indagini e che mai e poi mai avrebbero dovuto essere resi pubblici, perché comunque lesivi della memoria di questa povera ragazza che si sarebbe al contrario dovuta tutelare e onorare per il coraggio avuto nel denunciare il suo stalker diventato poi il suo assassino. Viviamo in un paese in cui non solo non si riesce a proteggere in modo adeguato le donne da stalking, molestie, stupri che spesso poi sfociano in veri e propri femminicidi, ma addirittura si fa poi di tutto per infangare la memoria delle vittime, ora in modo subdolo ora in modo palese, perché la mentalità di troppi è che in fondo in fondo, sotto sotto, “se la sono andata a cercare”».]

Tornando al nostro libro, a Carlon così ha risposto Pagliai:

«Ci ho messo quasi cinquant’anni di vita per comprendere che, se vogliamo veramente costruire la pace, dobbiamo partire da chi non ha voce, dagli invisibili, da coloro che soffrono, gli umili, gli intoccabili della Terra. Dobbiamo iniziare dalla nostra incapacità di riconoscerli nell’umanità di cui facciamo parte, vincendo tutte le nostre resistenze culturali, ideologiche e psicologiche, i nostri limiti, i nostri egoismi, quelle paure, più o meno artificiali, che abbiamo quando incontriamo l’altro, colui che è differente, colei che suscita, quasi inevitabilmente, il nostro rifiuto. Il mio incontro con i poveri è durato quasi dieci lustri e ha coinciso con la mia formazione umana».

Quindi, a conclusione di una appassionata e appassionante ricostruzione delle principali tappe della sua vita Pagliai aggiunge:

«Nel 2016, cosciente dei limiti delle istituzioni, comprese quelle universitarie, ho deciso, comunque, di spiccare il volo più rischioso: sentivo che avevo raggiunto la maturità necessaria per creare un progetto totalmente mio: l’Alta Escuela para la Construcción de Paz. Qui oggi sviluppiamo molti progetti importanti. Ci occupiamo di inclusione educativa e lavorativa con persone con disabilità fisica e psichiatrica; di difesa delle persone in contesti caratterizzati dalla presenza di organizzazioni criminali di tipo mafioso; e di Teatro, come strumento per la costruzione permanente di una cultura di giustizia e nonviolenza, che stiamo seminando per il mondo per generare occasioni di riflessione e di crescita intorno ai temi essenziali della pace».

E Carlon, a conclusione di questo intenso e a volte poetico dialogo osserva:

«La strada da percorrere è quella della Pace, quella che, nel caos esistente, ha la capacità di creare la Pace stessa, quella che riesce a lastricare proprio quella strada di equanimità, superando la paura di essere…Ognuno, secondo le proprie capacità e non secondo la logica oppressiva merito/punizione. A ognuno secondo i suoi bisogni.  Bisogni reali, non immaginari e innaturali. Questo è il fondamento di un programma che, in sé, può essere un manifesto di Pace. Poche cose, giuste cose. Quelle cose che aboliscono lo stato presente. Cooperazione autentica: equanimità, retti mezzi di sussistenza per tutti». Certo si tratta di un programma per certi versi utopistico, ma senza utopia, nel terribile presente di oggi, non si va da nessuna parte, perché non possiamo comunque rinunciare alla speranza di un mondo migliore. E perché, come chiosa Pagliai «cosa c’è di più semplice della speranza, di quella specialissima fiducia che dobbiamo nutrire nell’altro? Lo so, non è per nulla facile, ma chi l’ha detto che le cose semplici non siano difficili? La pace, amico mio, è semplice. Siamo noi che la rendiamo maledettamente difficile».

Nel concludere, anche per ancorare questo mio scritto, con tre esempi concreti, alla storia dell’arte, intendo tornare al concetto di Ideologia. In alcune bellissime pagine della sua Sociologia dell’arte (ed. it. Einaudi 1977) Arnold Hauser analizza in modo esaustivo la differenza tra ideologia e propaganda. Quest’ultima la si ha quando un artista (scrittore, pittore, regista cinematografico) esalta il potere di turno, magari piegando, mistificandoli, concetti nobili e universali a realtà contingenti e occasionali. Nell’ideologia si compie esattamente il percorso inverso, perché l’artista, anche partendo dalla celebrazione contingente del potente di turno, sa conferire a quest’ultima un valore universale che travalica i confini geografici e a volta addirittura i secoli. Prendiamo la Scuola d’Atene di Raffaello, nei Palazzi Vaticani, databile al 1509/11 e che è sicuramente una delle più sublimi opere d’arte di tutti i tempi. Eppure la sua nascita contingente è legata alla celebrazione del committente, il Pontefice di turno Giulio II, che con quest’opera voleva innanzi tutto omaggiare se stesso.

Raffaello Sanzio, Scuola di Atene 1509-1511, Stanza della Segnatura, Musei Vaticani, Città del vaticano.

Ma se quest’affresco ha sfidato i secoli è perché i valori che racchiudeva, di conciliazione tra cultura pagana e cultura cristiana; pensiero aristotelico e pensiero neoplatonico; tra le varie discipline del sapere, dalla filosofia alla matematica, dall’architettura alla scultura ed alla pittura, rese attraverso personaggi emblematici, Euclide, Platone, Aristotele cui prestano i volti i maggiori artisti del suo tempo, Leonardo, Michelangelo, Bramante, Raffaello stesso, sono valori appunto universali e resi con una chiarezza e limpidezza, direi armonia, assolute. Eppure questo sogno irenico era assolutamente utopico (e qui torniamo al tema dell’Utopia), la Roma di Giulio II, celebrata come nuova età dell’oro, era entrata in una crisi irreversibile e la Chiesa di lì a pochi anni sarebbe stata travolta dalla rivolta luterana. Ma chi guarda oggi questo grande dipinto, specie se lo fa per la prima volta, non pensa certo ai travagli latenti che nasconde, ma ne ammira il senso di armonia universale che sa trasmettere. Ecco cosa succede quando la propaganda, anche attraverso l’Utopia, sa elevarsi a messaggio ideologico di pace e conciliazione degli opposti.

Facendo un salto di alcuni secoli mi occuperò ora di due opere dall’evidente messaggio politico e, come tale, propagandistico. La prima è la celeberrima Morte di Marat di Jacques Louis David (Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts), dove egli-come lucidamente osserva G. C. Argan (Da Hogarth a Picasso, Milano 1983):

«Non commenta il fatto, lo presenta; produce la testimonianza delle cose. Marat nella tinozza: la forza di volontà del tribuno, che vinceva la sofferenza fisica per servire il popolo. La cassa che fa da tavolino: la povertà, dunque l’integrità del tribuno. Le pagine scritte: gli atti dell’amore dell’eroe verso i concittadini e il tradimento dell’assassina: l’arma del rivoluzionario, la penna; l’arma della reazione, il coltello…E giungiamo così a quella che è la grande novità di David: non è storico il quadro, è storico il pittore che lo dipinge, l’osservatore che lo capisce. Non è dunque eccessivo affermare che la Morte di Marat, dipinto nel momento cruciale della rivoluzione francese, è il solo quadro che si possa chiamare veramente rivoluzionario, che abbia operato nella storia della pittura una rivoluzione simile a quella che si era compiuta o si stava compiendo nell’ordine sociale e politico».
J. L. David, Morte di Marat, Bruxelles Musée des Beaux Arts

Ora noi sappiamo che Marat è considerato oggi una figura storicamente assai controversa, anche se egli è stato ucciso alcuni mesi prima che il regime del Terrore propriamente detto producesse i suoi effetti più sanguinari e che il quadro di David ha indubbiamente un’origine apertamente propagandistica. Eppure i valori espressi dal dipinto, e resi attraverso uno stile di eccezionale efficacia e coinvolgimento emotivo nella loro scarna semplicità, superano l’occasione contingente per elevarsi a vero manifesto ideologico degli ideali primigeni della Rivoluzione francese: Liberté, Egalité, Fraternité.

Se poi si deve trovare un dipinto simile nel XX secolo, non dal punto di vista della forma e dello stile ma dal punto di vista del valore ideologico assoluto non si può non pensare a Guernica (1937) di Pablo Picasso, ora al Centro de Arte Reina Sofia di Madrid. Qui, seguendo un percorso inverso a quello di David, si può dire che la storia ridiventa cronaca, l’evento tragico della distruzione di un’intera cittadina è narrato in bianco e nero, come una qualsiasi pagina di un quotidiano o un qualsiasi flash di un’agenzia di stampa, tanto più atroce e terribile quanto più antiretorico è il modo in cui ci viene rappresentato.

Pablo Picasso, Guernica, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, Madrid

La sofferenza della popolazione civile è nella logica brutale di ogni guerra ma lo è ancor più nelle guerre contemporanee per cui il quadro di Picasso è di un’attualità assolutamente sconvolgente, potrebbe benissimo intitolarsi “Pyongyang” (completamente rasa al suolo dagli americani durante la guerra di Corea anche se non ne parla più) o “Beirut”, “Mosul, “Aleppo”, “Gaza” e nessuno potrebbe stupirsene. E inoltre il quadro di Picasso ci insegna che la ricerca della Pace non può prescindere dalla denuncia e dal ripudio degli orrori della Guerra, di ogni guerra. Perché ogni guerra fa schifo, punto.

Sergio ROSSI  Roma 29 Settembre 2024