Le alchimie artaudiane di “Coucou, Sèlavy!”. “L’Avanguardia correva solo per essere raggiunta”; intervista a Francesco Vigna Taglianti di Marco Fioramanti

di Marco FIORAMANTI

Poeta, attore e cantore – in chiave esclusivamente teatrale, in sinergia con l’attrice e cantante Silvia Pegah Scaglione (a breve il loro prossimo spettacolo “Amlèlia, il grido dei mari viventi”) – Francesco Vigna Taglianti racconta attraverso la sua filosofia di vita e d’arte, l’anelito alla vacuità.

Chi è “Coucou Sèlavy”? Come nasce e come si sviluppa?

R: In verità non è un “mio” nome o pseudonimo, ma una porta, un possibile, un fantasma che poco ha a che fare con le identità fisiche e nominali, con i loro confini. Difatti questa firma era nata insieme a una persona con cui condivisi anni di incisioni balorde e studio a suo modo matto e disperatissimo, a distanza. Si trattava di una tensione, più che altro, di una necessità e di un laboratorio. Esaurito quel lavoro, Coucou, Sèlavy! ha compreso e abitato anche Silvia, perché dal 2010 pratichiamo questo teatro immaginato, mentre parallelamente io ho continuato a occuparmi di dischi – interamente autoprodotti – e scrittura. Ma, ecco, non ho proprietà da rivendicare, mi sento un medium, chiaro che poi occorra nutrire enormemente il filtro, rimpinzarsi per poter fare piazza pulita e tornare al silenzio, percorrere e percorrere sentieri … mai inventati; io non credo nella creazione pura e in alcun assoluto: al limite nello sguardo, nel riuscire a scorgere qualcosa che già esiste, perché tutto è lì, da qualche parte, nei rintocchi astrali di certi viali alberati … Per questo è necessario tornare a vedere, e il lavoro è soprattutto quello di arrivare a – o meglio lasciarsi condurre verso – una vacuità. Senza appigli e ripari. L’espressione “Coucou Sèlavy!” venne fuori così, senza preavviso, ed era come se recasse, nel suo suono, nel tempo scandito dall’espressione stessa e dalla interpunzione, un mondo alieno a prose e paragrafi. Il richiamo alla nota forma di Duchamp fu casuale (ammesso che il caso esista).

-So che non ti piace raccontarti…

R: Nessuno è uguale a sé stesso, e il linguaggio contribuisce alla mortificazione dell’infinito. Sono refrattario a qualunque bara del dichiarato esistente. “Congedare la vita, scomporla e congelarla pur di lasciarla andare (a male, a mare che sia); venirne sfiorati e poi sfiorire per l’eternità nel tentativo, saputo vano, di ricordare quell’istante. Ecco che, all’improvviso, non c’è più nulla da raccontare e nessuno a cui raccontarlo. Un canto si leva, e coloro che cantano sono precisamente gli stessi che ascoltano”.

– Parlami del tuo concetto di Arte

R: Posso solamente tentare, con tutta la parzialità che comporta; direi un gioco di relazioni e linee che restituiscono l’uomo alla spazialità del cosmo. L’arte è quanto si compie per sfogliare come petali le scorie Esistenza e Pensiero, l’abbaglio Esperienza, per tornare a una tela bianca impossibile; ecco, è l’ostinazione di seguitare a sfogliare, interrogarsi come oracoli preservando un’intima assenza di conferme e di risposte, offrire vie verso l’ignoto, bruciare senza tempo, essere il fumo che si perde nell’abisso di certe catacombe capovolte.

– Che cos’è un’opera d’arte?

R: Un frutto toccato da qualcuno in un attimo qualunque, una preghiera senza dei e uno sputo, un colpo alla testa e un respiro che si apre, una mano ossuta, un mantello della misericordia eccetera; parafrasando Rimbaud,una cattedrale che scende e un lago che sale” o, come scriveva Kafka, “un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi”.

– E l’artista chi è, dunque, come dovrebbe comportarsi?

R: Credo che l’autentico incantesimo del mago, dello stregone, dello sciamano, insomma dell’artista, sia proprio quello della sottrazione (sparizione e materializzazione) di ciò che egli stesso presenta, si tratti di trucchetti, parole, opere eccetera, e rappresenta, per alludere quindi a tutto il resto; occupandosi dell’apparente, attraversandolo fino al parossismo, permette a ognuno di sperimentare il proprio mesmerismo. Perciò non ha alcun senso rapportarvisi con l’appiglio a qualsivoglia principio di realtà, col distacco critico, a meno che non si trasformino anch’essi in fuga musicale. Per me l’artista non dovrebbe nemmeno disquisire, visto che il disquisire è sempre diretto a una collocazione del suo operare, collocazione sociale anche quando apparentemente artistica. Occorre guardare altrove. L’avanguardia? Un termine assurdo, e poi l’avanguardia correva solo per essere raggiunta. Oggi più che mai, oggi che sembra estinta ogni tradizione e “retroguardia” (penso comunque al paradosso di Zenone, poiché sono scettico sui presupposti stessi di queste recinzioni manichee), è inconcepibile pensare di misurare la disperazione dell’epoca o erigere altri sistemi: si offre forse un buon terreno per farla finita con le categorie, con le etichette, le dialettiche polari e cominciare a combattere contro e con sé stessi, in quell’operare individuale cui alludeva Wilde, l’unico che non sia egoista e arrogante. Sia l’oggi, infine, senza guardie e avantindietro, un oggi per sempre.

– Parlami del tuo rapporto tra attore e testo.

R: Dire che l’attore sia a servizio di un testo o di un autore è come dire, banalmente che un pittore sia al servizio di un paesaggio che dipinge (il che già non reggerebbe nel caso di mimesi, se la figurazione non è l’oggetto, si pensi al giochino di Magritte in Ceci n’est pas une pipe) o che il poeta scriva a servizio di una ipotetica musa in carne ed ossa. Il testo per un attore non è che un pretesto, come ricordavo prima. Si è a servizio come corpi cavi, svuotati, di stelle, non certo di autori; altrimenti si darebbe per scontata, fra l’altro, l’esistenza di un messaggio – questione scardinata già da filosofi antichi e antichissimi in Occidente, per non allontanarci troppo – e di una verità insita nel testo, incollata ad esso… ma, come diceva Nietzsche, “i fatti non esistono, e3sistono solo interpretazioni”. Mi pare più onesto riconoscere che l’Attore stesso faccia testo, e sia l’unico testo possibile.

– Il tuo specifico resta comunque il Teatro, luogo dell’azione e galassia dei significati. Come riesci a unire tutti i percorsi disciplinari in uno?

R: Il lavoro cui alludevo prima è sempre lo stesso, cambiano le circostanze, le occasioni, gli strumenti specifici. Nel Teatro, soffermandosi solo al mero apparato visibile, vi sono molti altri tracciati e “testi”: armonie, melodie, timbri, ritmi, dinamiche, composizione, spazialità, illuminazione ecc. Tutti passano attraverso i corpi, un attore è in primo luogo teatro di qualcosa. Sostenere che la Commedia dell’Arte – di cui è impossibile parlare come di un fenomeno preciso e definibile, lo dicono quei pochissimi studiosi che hanno provato a sviscerare analiticamente questo luogo comune – dicevo, sostenere che la Commedia dell’Arte fosse “libera” dal testo rischia di diventare un abbaglio, perché in quel frangente, oltre agli scenari scritti, il vincolo fortissimo erano i ruoli, le tipizzazioni, la ricerca dell’espediente per conquistare il pubblico (e non mi soffermo sull’archetipo e retaggio interiorizzato dell’attore come venditore di sé stesso, ciarlatano in cerca di plauso e consenso per sopravvivere, il discorso sarebbe lungo e complesso). Insomma, si è sempre cercato di imbrigliare gli infiniti dell’Attore, il suo terribile spiritismo cosmico, e con la complicità dello stesso: raramente e gli ha potuto/voluto assumersi l’irresponsabile responsabilità della Poesia. Il grande attore ottocentesco italiano si beffava del testo, sì, ma da capocomico accentratore; si riparava così dall’urto spirituale affidandosi al personalismo mondano, pur con tanti – lo si può credere – barlumi, bagliori, lumicini, sublimi intemperanze, linee di faglia.

Successivamente ci fu il cosiddetto “teatro di regia”…

R: Per reazione nacque la regia, un fenomeno complesso, sfrangiato e molto confuso, che nonostante tutto non è crollato definitivamente. Seguita a decadere emanando un lezzo da basso impero, senza averne il fascino, ed effigiando uno stretto immaginario che ha del comico nella sua impostura. Non crolla esattamente come tanto altro, perché in fondo è il corollario e il sussidiario di un’idea di Uomo sempre più accessorio all’incedere vorticoso della moltiplicazione, burattino di sé stesso, prigioniero consenziente, mascherone delle sue meravigliose infanzie, primate truccato e nevroticamente smanioso di Padri e Padroni: un corollario e un sussidiario produttivamente e interiormente molto comodo e conciliante, che si fregia pubblicamente di termini già scritti (“nuova drammaturgia” e “sperimentazione” comprese, dove non di rado si equivoca la sinestesia col moltiplicare gli orpelli, inserendo ballerini, musicisti, disegni, luci mirabolanti e computer, e i registi diventano organizzatori di eventi, eventi asserviti a un tema sociale aprioristico), pensieri già pensati (l’arte che “fa riflettere”, e in realtà fornisce una risposta già pronta) e plauditi convertendoli all’odierno, all’attuale, che persino del caro dolore diagnostica solamente i dettagli, ma a ben vedere nel modo più indolore possibile, che non digrigna i denti, che non fa rabbrividire, fluttuare, respirare, che non offre l’occasione di una trasformazione alchemica, che non cerca altre risonanze, altre connessioni, che non varca orizzonti noti. Togliamo quanto non sembra necessario. Se alla fine non ci resterà nemmeno il cuore, vorrà dire che da qualche parte sarà pur finito. Quindi, ci ostiniamo a ripeterci, non per voi, non per me, ma per qualcos’altro … cosa sia, impossibile e forse poco importante saperlo, ma so, ne sono certo, che noi gli apparteniamo, voi e me, al di là di un’appartenenza filiale o gerarchica: è attraverso di noi, e noi attraverso di essa. Questa trasparenza che se ne va in fumo, offerta a tutti e a nessuno, in un ascendere nel vuoto al vuoto.

Marco FIORAMANTI  Roma 29 Settembre 2024