di Beatrice BUSCAROLI
A Maurizio Cattelan avevano “liberato” la banana dallo scotch e l’autore del “distacco” se l’era mangiata; ora, invece, alla vernice bolognese della mostra di Ai Weiwei, un già noto provocatore, sedicente artista sessantenne di origine ceca, Vaclav Pisvejc, ha distrutto una delle opere più ironiche e colte dell’artista: una citazione del minimalismo rivisitato alla luce della tradizione decorativa cinese. Con una differenza: la banana si può facilmente sostituire – con il placet dell’autore per niente turbato dal gesto “dadaista” – il Cubo di Weiwei si è dissolto e, almeno per un po’ di tempo, attende una ricostruzione.
Eppure la mostra di Bologna (Palazzo Fava, Ai Weiwei. Chi sono io?, fino al 4 maggio 2025, a cura di A. Galansino) dedicata a uno dei più influenti artisti contemporanei, ha avuto una premessa quanto mai curiosa: un dialogo nell’antica chiesa gesuitica di Santa Lucia, ora aula magna dell’Università, dove l’autore ha affrontato un tema decisivo che investe la cultura e la società contemporanee: l’intelligenza artificiale.
Fil rouge del dialogo è il progetto che Weiwei ha realizzato ispirandosi alle Domande al cielo del poeta Qu Yuan, che nel IV secolo a.C. erano state incise sulle pareti di un tempio. Domande del tipo: Gli esseri umani bramano la morte? E ancora, quali persone trarrebbero maggior beneficio da te in guerra? Domande che, per 81 giorni (quelli che Weiwei ha trascorso in carcere nel 2011 per la sua attività di “dissidente”) sono comparse sugli schermi di pubblici di tutto il mondo: da Milano ad Accra, da Berlino a Nairobi, da Londra a Seoul. Domande irrisolte, nonostante l’IA, oracolo e specchio dell’uomo contemporaneo.
Chi possiede chi nelle società “democratiche”?
Ma, soprattutto, chi è Ai Weiwei? O meglio, come recita il titolo della mostra. Chi sono io?
Nato a Pechino nel 1957, figlio del poeta Ai Qi, in principio Weiwei studia animazione. Nel 1981, negli Stati Uniti, aderisce all’ Art Students League of New York, descrive la vita cittadina con la fotografia e il ready made. Torna in Cina nel 2003 e apre lo studio FAKE Design. Utilizza i social media come strumento di documentazione e di denuncia, e in èparticolare sottolinea le contraddizioni e i pericoli del modello sociale e produttivo che si sta affermando nel suo Paese. Nel 2007 col progetto Fairytail porta 1001 cittadini cinesi a Kassel per Documenta 12 (una “scultura sociale”), dando alla loro presenza valore di denuncia e dichiarazione di esistenza, esponendo le sedie – ognuna differente dall’altra – come testimonianza di una cultura artigiana che si sta inesorabilmente dissolvendo.
La tradizione è vista anche come patrimonio di saperi antichi carichi di significato, come testimoniano installazioni costruite con oggetti storici o lavori realizzati con l’uso di tecniche secolari che recano forti connotazioni di metafora sociale, quali i 100 milioni di semi di girasole realizzati a mano in porcellana, simbolo del potere di un popolo unito contro l’oppressione.
Con lo studio degli architetti Erzog&De Meuron realizza lo stadio che ospita le Olimpiadi di Pechino – il “nido d’uccello” – nel 2008.
“Per me l’architettura – ha dichiarato – ha un forte valore estetico, e include un giudizio morale. Ci possono essere questioni filosofiche a suo riguardo, e in questo senso è connessa all’arte. Non le divido mai per davvero, sono solo due diverse espressioni, (architettura) è arte, applicata. Questo permette di potersi costantemente chiedere: ‘è utile?’ il giudizio è dunque su quanto e quanto bene coinvolgi attraverso l’architettura, su chi la userà”.
Dopo il periodo di detenzione, dovuto all’incessante lavorìo di denuncia contro le oppressioni e le sopraffazioni perpetrate nel suo paese d’origine, riottenuto il passaporto, Weiwei si trasferisce prima a Berlino – dove insegna per un breve periodo alla Kunstakademie – poi in Inghilterra.
Allora, “chi sono io”? :
«Ci sono vari tipi di artisti e ognuno può legittimamente auto-identificarsi come gli pare. Per me, un artista che incarna un senso di responsabilità nei confronti della cultura e della storia, e che ha un impatto su di me, deve essere capace di sfidare l’ordine culturale prevalente e al tempo stesso condannare le strutture di potere che lo sostengono». E ancora: «Senza gli artisti che osano affrontare e provocare questi sistemi, non solo con il loro atteggiamento ma anche attraverso una riflessione profonda e un linguaggio provocatorio che costituisce una vera e propria tecnica artistica, l’arte fallisce la sua stessa essenza. La missione di un artista consiste nello sfidare di continuo l’ordine esistente attraverso le sue creazioni e nell’essere una forza di dissenso con le sue opere».
Visionarietà e impegno politico, arte e vita, provocazione e leggerezza: basti pensare alla parete presente nella mostra di Bologna realizzata con i mattoncini Lego. Un gioco di plastica in grado di ricreare le armonie cromatiche della porcellana cinese (come quella del Cubo infranto). O il dragone volante, bianco e leggero, che accompagna nella visita. È la libertà dell’infanzia, una libertà senza vincoli, che il tempo assottiglia e che le dittature soffocano. Poiché «la censura è la compagna del potere, il meccanismo attraverso il quale il potere afferma la propria autorità. La trappola intrinseca del potere si trova nella sua legittimazione. Che sia in Europa, in Asia o altrove, la censura esiste universalmente, variando solo nella sua estensione e manifestazione».
Oltre 50 opere sono presenti a Palazzo Fava: installazioni, sculture, video e fotografie, a testimonianza della versatilità della ricerca dell’artista cinese che insiste da sempre sui temi della libertà e i diritti civili, i cambiamenti climatici e le migrazioni.
Lampante, in un luogo come l’antico edificio bolognese che reca sulle pareti cicli di affreschi cinque e seicenteschi (dai Carracci ai loro discendenti) il contrasto che le celebri opere dipinte su muro creano con le leggende della cultura cinese e gli animali fantastici, tratti da un vecchio bestiario, reinventati con bambù, carta di riso e seta.
Dropping a Han Dynasty Urn documenta l’artista intento a distruggere un vaso di duemila anni fa, che viene esposto insieme ai suoi resti (opera che sembra dare al gesto del vandalo una sorta di contrappasso, voluto o meno).
Altre installazioni più recenti, quali l’ordinato comporsi di biciclette dorate, paradossalmente decorativo, allude all’immenso cambiamento urbano e sociale dell’attuale società cinese, come la carta da parati Odissey che porta al dramma delle migrazioni nel Mediterraneo.
Beatrice BUSCAROLI Bologna 6 Ottobre 2024