di Claudio LISTANTI
Dopo il notevole successo di Macbeth nell’edizione francese che ha aperto il Festival Verdi 2024 la rassegna prevedeva in cartellone la rappresentazione di Un ballo in maschera presso il Teatro Giuseppe Verdi di Busseto ed interessante soprattutto per i contenuti ‘sperimentali’ della realizzazione.
Un ballo in Maschera è un’opera cardine nella produzione verdiana soprattutto perché giunse in palcoscenico in concomitanza con il termine di quel periodo che Verdi stesso denominò ‘Anni di galera’. Il musicista, infatti, scrivendo nel 1858 alla sua amica Contessa Maffei disse “Dal Nabucco in poi non ho avuto, si può dire, un’ora di quiete…”. Fu un passaggio molto impegnativo per Verdi che copre, quindi un periodo che inizia dal 1842 ed arriva al culmine con la cosiddetta ‘Trilogia Popolare’ e progressivamente spentasi fino al 17 febbraio 1859 quando al Teatro Apollo di Roma va in scena Un ballo in maschera. Un periodo che vide Verdi impegnato in una attività febbrile caratterizzata da numerosi e serrati impegni che lo videro sempre al centro dell’attenzione nel mondo del teatro d’opera.
Con il Ballo Verdi giunge ad una delle teppe fondamentali della sua produzione con un’opera dove scompaiono tutte le reminiscenze della giovinezza, vista l’ormai acclarata assenza degli stilemi del primo ottocento, come lo schema recitativo-aria-cabaletta che influiva sull’espressività e sul percorso drammatico. Qui abbiamo un discorso teatrale unitario e ben amalgamato del tutto rivolto alla rappresentazione teatrale che diventa fluida e avvolgente. La sua arte è ormai proiettata verso i grandi capolavori della maturità e Un ballo in maschera è certamente il punto di partenza di una nuova visione del teatro d’opera.
Un ballo in maschera possiede un’altra caratteristica quella di essere stato vittima delle assurdità della censura dell’epoca che costrinsero gli autori a cambiamenti, giravolte, aggiustamenti vari per rispettare le smanie dei censori. Verdi, notoriamente indispettito da questo male che affliggeva all’epoca l’opera lirica, tirò dritto nonostante le difficoltà che man mano si presentavano alla sua attenzione per giungere ad un prodotto finito che, nonostante le imposizioni, contiene quegli elementi di novità che il musicista volle apportare alle sue creazioni.
Tratto da un soggetto di Eugène Scribe, Gustave III, ou Le Bal masqué, libretto che nel 1833 scrisse per Daniel Auber, che rappresentava un fatto realmente accaduto, l’uccisione nel 1792 di Gustavo III, re di Svezia, ferito gravemente qualche giorno prima da un uomo di corte durante un ballo. Questo soggetto fu ripreso varie volte dagli operisti, tra i quali Saverio Mercadante (Il reggente) tentando anche Vincenzo Bellini che non riuscì nell’intento a causa della sua immatura scomparsa.
Il lavoro iniziò nell’ottobre del 1857 quando Antonio Somma e Verdi presero a modello il soggetto di Scribe/Auber per un’opera da rappresentare a Napoli con il titolo di Gustavo III. La censura borbonica pretese subito dei cambiamenti come la trasformazione del personaggio del Re prima in Duca e poi in un Signore parallelamente al cambio del titolo in Una vendetta in Domino. Pretese anche il cambiamento dell’ambientazione dalla Svezia ad una regione nordica e poi in Pomerania con l’azione spostata in epoca precristiana e poi nel mondo della stregoneria.
Successivamente, il 14 gennaio 1858, il rivoluzionario mazziniano Felice Orsini, attentò alla vita di Napoleone III lanciando una serie di bombe verso la carrozza del sovrano provocando una strage con morti e feriti tra la folla ma senza raggiungere lo scopo prefissato.
Da quel giorno la censura borbonica fu ancora più severa pretendendo il cambiamento del titolo che divenne Adelia degli Adimari spostando l’azione a Firenze nel medioevo di Guelfi e Ghibellini con il Signore divenuto qui capo della fazione guelfa. Verdi decise di abbandonare Napoli per presentare il suo ‘progetto’ a Roma dove, al Teatro Apollo c’era la direzione dell’impresario Vincenzo Jacovacci che, comunque, avvertì che la censura papalina, anch’essa isterica ed esigente, avrebbe preteso cambiamenti. Verdi comunque si intestardì, soprattutto per dimostrare a Napoli, città prossima a Roma, che il suo soggetto avrebbe trovato la possibilità di essere rappresentato. Le modifiche della censura romana furono accettate da Verdi, in quanto consentivano al suo dramma di essere rappresentato senza sconvolgerne il significato intrinseco. Il titolo fu Un ballo in maschera, il Duca diviene un Conte (Riccardo), l’epoca la fine del XVII secolo e l’ambientazione fuori dall’Europa (Boston nell’America del Nord). Tutto ciò garantiva l’essenza e il significato dell’azione e delle caratteristiche dei personaggi.
La rappresentazione del Festival Verdi.
Un ballo in Maschera, quindi, è molto impegnativo per la rappresentazione ma anche, per la linea vocale concepita dall’autore
Il Festival Verdi ha scelto la via della sperimentazione, molto difficile e ardua per un’opera come questa ma che, se condotta con professionalità come in questo caso, porta a risultati apprezzabili.
Innanzi tutto ardua è la scelta del luogo dell’esecuzione individuato nel Teatro Giuseppe Verdi di Busseto, sala molto piccola soprattutto per un’opera di questo tipo ma se utilizzata con criterio può avere anche buona riuscita come lo fu Aida nel 2001 grazie a Franco Zeffirelli che costruì uno spettacolo del tutto godibile nonostante alcuni fastidiosi tagli alla partitura.
Per il Ballo la regia è stata affidata Daniele Menghini che ha avuto la collaborazione di Davide Signorini per le scene, di Nika Campisi per i costumi e di Gianni Bertoli per le luci per creare uno spettacolo di carattere fantasioso molto ben contenuto nei limitati spazi del palcoscenico del teatro di Busseto. Una realizzazione di stampo surreale, senza ambientazione precisa, quasi un colorato teatro dell’assurdo, una sorta di nuovo Hellzapoppin che a forza si abbina con uno spettacolo lirico. Riccardo era raffigurato come persona lasciva, spesso in abiti femminili, dedito al gioco, al bere, alle feste e alle conquiste amorose.
Attorno a lui ruotano gli altri personaggi, Renato dall’aspetto serio e compassato, il paggio Oscar insinuante e malizioso con una Amelia forse un po’ remissiva che si fa coinvolgere dalle passioni e da quanto accade attorno a lei. Ulrica, forse, è stato l’unico personaggio in linea con la tradizione anche se abbigliata in maniera un tantino clownesca.
Forte il senso della morte durante tutta la realizzazione, elemento foriero dell’epilogo tragico dell’opera e che incombe sull’impianto scenico spesso con un cospicuo gruppo di teschi ma offrendo, però, un felice contrasto soprattutto con le parti più brillanti dell’opera. Menghini ci è sembrato che abbia fatto un buon lavoro con la recitazione dei singoli personaggi plasmando tutti i movimenti scenici all’impostazione generale giungendo ad una accettabile unitarietà d’insieme.
Per quanto riguarda la compagnia di canto sono stati utilizzati giovani interpreti alcuni provenienti dall’Accademia Verdiana del Teatro Regio di Parma. Nel complesso i cantanti si sono rivelati adeguati ai ruoli loro affidati mostrando però una certa immaturità vocale. La particolarità del Ballo in maschera è quello di avere una linea di canto molto impegnativa per cinque personaggi; le tre interpreti femminili (Amelia, Ulrica e Oscar) e i due maschili (Riccardo e Renato).
Dal gruppo delle tre donne sono giunti i segnali più confortanti. Caterina Marchesini è stata una Amelia del tutto credibile vocalmente e scenicamente soprattutto per la sua pronuncia e per la sua voce limpida ed espressiva alla quale manca un po’ di sicurezza negli acuti per divenire cantante verdiana di livello. La Ulrica del mezzosoprano Danbi Lee, proveniente dall’Accademia Verdiana, ha esibito una voce potente indispensabile per il ruolo anche se qualche miglioramento deve raggiugerlo in quelle note basse che caratterizzano il ruolo; per lei un successo personale di discrete proporzioni. Il soprano Licia Piermatteo, anch’essa proveniente dall’Accademia Verdiana, ci ha dato un Oscar elegante e stravagante, a suo agio con i virtuosismi della sua parte.
Qualche problema in più lo hanno mostrato le due parti principali maschili anche se qui, dobbiamo dire, che le anime dei personaggi sono uscite fuori. Il Riccardo di Giovanni Sala, tenore già in possesso di una discreta ed impegnativa carriera, ha cantato con sicurezza mostrando qualche difficoltà nel raggiungimento del registro acuto ed una poca propensione al registro più basso come dimostrato nella canzone del primo atto (Di tu se fedele). Un analogo discorso va fatto per il baritono Lodovico Filippo Ravizza ci ha dato un Renato dalla voce chiara, suadente e nobile, adatta al personaggio ma anche per lui qualche difficoltà nei registri estremi che lasciano desiderare qualche miglioramento anche se dobbiamo dire che ha centrato scenicamente il personaggio.
Per quanto riguarda i personaggi secondari bravo Giuseppe Todisco Silvano mentre Agostino Subacchi dell’Accademia Verdiana e Lorenzo Barbieri sono stati, rispettivamente, Samuel e Tom entrambi del tutto credibili nelle loro parti come Francesco Congiu, anch’egli dell’Accademia Verdiana, come Un giudice/Un servo di Amelia.
Per la parte corale buona è stata la prova del Coro del Teatro Regio di Parma ben diretto da Martino Faggiani e ben inserito nella direzione musicale curata da Fabio Biondi che, come di consueto, è risultata raffinata e del tutto orientata verso le caratteristiche acustiche della sala.
Il direttore palermitano, infatti, possiede una notevole esperienza riguardo allo studio e all’approfondimento dei linguaggi originali come dei luoghi dove si svolgono le esecuzioni. Il teatro di Busseto, come accennato, è particolare per le sue contenute dimensioni. Biondi, come egli stesso ha dichiarato sulle note di sala, ha provveduto al necessario ridimensionamento dei componenti dell’orchestra lasciando però inalterati tutti gli equilibri e riuscendo a bilanciare in modo funzionale le sonorità, rispettando anche il rapporto tra la parte strumentale e quella vocale ponendo una efficace cura del virtuosismi orchestrale e plasmare così tutte le componenti musicali, soprattutto quella strumentale guidando ad una convincente prova l’Orchestra Giovanile Italiana per rendere l’esecuzione godibile e partecipata da parte del pubblico.
La recita del 27 settembre si è svolta di fronte ad un pubblico numeroso che ha riempito al limite della capienza l’elegante sala del Teatro Giuseppe Verdi di Busseto e decretato un confortante successo per questa produzione applaudendo al termine tutti i protagonisti dello spettacolo.
Claudio LISTANTI Parma 6 ottobre 2024