Successo al teatro Marconi per “Il colore della forma” di Marco Schiavon, quando l’Arte è lucida follia.

di Marco FIORAMANTI*

Roma, Teatro Marconi

IL COLORE DELLA FORMA di Marco Schiavon

Regia Nicasio Anzelmo

Non si costruisce con il colore: si costruisce con la forma e un’arte dove il colore comanda è un’arte incompleta fin dalla base.

Gino Rossi

Testo vincitore del “Premio Cendic Segesta 2018”, Il Colore della Forma approda al Teatro Marconi e incanta il pubblico facendolo riflettere sul significato dell’arte e sulle possibili, forforali, sfumature dei cambi di passo, delle influenze reciproche tra gli artisti e soprattutto delle fragili, disperate, variabili della condizione umana.

Tutto comincia nel silenzio. In piedi, spalle al pubblico – soprabito in velluto marrone – un vecchio osserva la scena.

Le quinte, elaborate da Giovanni Nardi, sfalsate in prospettiva, ci presentano in trasparenza le mura del manicomio di Sant’Artemio a Treviso. Quando queste vengono retroilluminate, appaiono figure umane, presenze attive, vive nella memoria del paziente.

Parliamo di un artista importante nella storia del primo Novecento: Luigi “Gino” Rossi, pittore, classe 1884, veneziano di nascita e di formazione. Nel 1906 con Arturo Martini viaggia a Parigi dove scopre Gauguin e l’arte dei Fauves (“belve”), poi lentamente subisce il fascino della “forma” nell’opera di Cézanne.

Il personaggio, interpretato magnificamente da Mario Scaletta, libera i suoi pensieri e la sua teoria cromatico/espressiva nell’isolamento dello spazio carcerario del manicomio – tipico del ventennio fascista. Non a caso i ragionamenti del pittore vengono improvvisamente interrotti – grande momento di ilarità – da uno dei degenti (nei panni, fez e “saluto al Duce!”, dell’ottimo Marco Prosperini), entrato nella “personalità maschia” di un caposquadra della Milizia Volontaria, prontamente bloccato dalla sicurezza subito dopo il comizio.

La storia del pittore veneziano viene raccontata da Flavia Scotton e Nico Stringa nel libro “Gino Rossi, lettere e scritti dispersi”, e ci raccontano che l’artista:

” … ebbe un’adolescenza agiata, educato in uno dei primi collegi d’Italia dove si formò una solida cultura umanistica. Ma presto conobbe la povertà e negli ultimi tempi che visse al mondo, la miseria nera; per sfamarsi, ostinato com’era nella sua fierezza da principe a ricusare qualunque soccorso, preferiva di girare per le fiere dei paesi a vendere carta da lettera”.

La visita in manicomio di un giovane ammiratore – il pittore trevigiano Renato De Giorgis (il noto attore Roberto Turchetta) – fa da contraltare e stimolo al dialogo creativo con Gino Rossi il quale, una volta partito, si libera in monologhi creativi da artista lucido e sensibile, isolato dal mondo:

“ll colore mente… Sono forme… La forma è il segno inconfondibile, inoppugnabile dell’esistenza…  Le parole possono soltanto ricordare, non possono vivere!… Ad un cieco che non ha mai visto il giallo, come fa a descriverglielo?”

Nel proseguio della drammaturgia si consolida sempre più nel pubblico l’idea, sì di uno sconfinamento dell’artista oltre l’immaginario possibile, ma col grande dubbio, come dice l’autore, Marco Schiavon, in un’intervista:

“Se l’arte è l’unico modo per sopravvivere nell’ambiente opprimente del manicomio o è stata la causa della sua rovina?”

La guerra combattuta al fronte prima, la prigionia poi, e l’abbandono da parte della moglie crearono i lui i presupposti per una disperata malattia mentale. A proposito di follia, scrive Giorgio Agamben ne La follia di Hölderling (Einaudi, p. 21):

“Il problema non è di accertare se Hölderlin fosse o non fosse pazzo. E nemmeno se egli abbia o meno creduto di esserlo. Decisivo è, infatti, che ha voluto esserlo o, piuttosto, che la follia gli sia apparsa a un certo punto come una necessità, come qualcosa a cui non poteva sottrarsi senza viltà, dal momento che “come il vecchio Tantalo … aveva ricevuto dagli dei più di quanto poteva sopportare”.

Insieme a Mario Scaletta erano in scena Marco Prosperini, Anna Lisa Amodio, Amedeo D’Amico, Maria Cristina Fioretti, Mario Focardi, Luchino Giordana, Giorgia Guerra, Roberto Turchetta.

Grande apprezzamento per i costumi di scena, realizzati da Maria Alessandra Giuri e per le musiche di Giovanni Zappalorto.

Marco FIORAMANTI  Roma 27 Ottobre 2024

*Le foto sono dell’Autore