“Diventino mute le labbra degli empi che non si prostrano… “. L’Icona Hodigitria in Santa Maria ad Martyres.

di Vitaliano TIBERIA

Riceviamo e volentieri pubblichiamo il testo della lectio tenuta dal Prof. Vitaliano Tiberia, da tempo valoroso e prestigioso collaboratore di About Art, il 31 ottobre 2024 nel Pantheon, nella vigilia d’Ognissanti.

LE ICONE NELL’ALTO MEDIOEVO

Come di gran parte delle opere d’arte dell’Alto Medioevo, anche della Madonna Hodigitria di Santa Maria ad Martyres non conosciamo l’autore (fig.1).

Fig 1 Madonna Odigitria (Foto_MiC_)
Fig. 1b-Ricostruzione Odigitria

Ignorare chi l’abbia fatta e quando sia stata fatta lascia uno spazio non secondario all’ermeneutica, così che è possibile recuperare la relazione fra l’immagine artistica realizzata e la realtà esterna, «residua sostanza conoscitiva» (Brandi), in cui essa nacque[1]. Dal punto di vista estetico, «la condensazione in volumi ponderati e consistenti» (Carlo Bertelli) e la sua elaborazione formale allontanano questa pittura dagli stereotipi bizantini che irrigidiscono l’immagine nel “segno” (Brandi) e la riducono a presenza puramente significante e soltanto comunicativa di concetti. Insomma, questa Madonna Hodigitria è una vera opera d’arte, dotata di una sua forma speciale.

Seguendo pertanto un’intuizione di Cesare Brandi derivata dalla dottrina kantiana dello “schematismo”, per cui nell’immagine artistica permangono diversi contenuti conoscitivi, parleremo di questo dipinto permeato di misteriosa bellezza come referto plasticamente reale ma non esistenziale, e lo faremo senza forzature concettuali ma con argomenti filologici ed iconologici strutturali, oltre che, ovviamente, con analogie stilistiche. Per far ciò non possiamo fare a meno di esaminare il fitto intreccio di drammatici avvenimenti storici, politici, religiosi, in cui questo straordinario monumento figurativo vide la luce, probabilmente nel secondo decennio del VII secolo, non casualmente con l’appellativo di Hodigitria, cioè guida dei popoli; un appellativo greco-bizantino che la collega alle masse popolari, le quali, con la loro fede, sostenuta esteriormente dalla venerazione delle icone, decretarono la progressiva diffusione del Cristianesimo vissuto quotidianamente nella proskìnesis, vale a dire nella riverenza esteriore verso questi oggetti simboli rappresentativi della fede in Cristo.

In premessa, ricordo che il Pantheon, il tempio di tutti gli dei, voluto da Augusto, imperatore dal 27 a.C. al 14 d. C., benché sul frontespizio di questa sublime architettura religiosa campeggi il nome del genero Marco Agrippa console per tre volte, fu donato al papa Bonifacio IV (608-615) nel 609 dall’imperatore bizantino Focas (602-610). Questi, quand’era solo un centurione, era salito sul trono di Bisanzio con un colpo di stato contro l’imperatore Maurizio, fatto quindi da lui trucidare insieme ai nove figli e alla moglie Augusta Costantina.

Focas, nella situazione drammatica seguita alla fine dell’impero romano d’occidente, ormai spostato ad est con il centro a Costantinopoli, divenuta una vera Città-Stato, popolata di nuove classi dirigenti e di ambiziosi provinciali di talento, con la sua spettacolare donazione voleva mantenere edificanti rapporti con la Chiesa di Roma. Dal canto suo, papa Bonifacio proseguiva la politica di Gregorio I Magno (590-604) di cordiale intesa con Focas, dopo le incomprensioni con il predecessore, l’imperatore Maurizio (539-602), il quale aveva permesso al patriarca di Costantinopoli, in aperto contraddittorio con il pontefice romano, di assumere il titolo di “ecumenico”. Il nuovo tempio pertanto, in quanto simbolo della religiosità dell’uomo dal mondo antico all’era cristiana, assunse, per volontà del papa ed ovviamente con il gradimento dell’imperatore, il titolo di Santa Maria ad Martyres, perché divenuto sede di un gran numero di reliquie di martiri là trasferite; un atto quanto mai esemplare e simbolico proprio perché avveniva nella città in cui Pietro, il principe degli apostoli e fondatore del pontificato romano, era stato martirizzato, rinunziando alla fuga, secondo il libro apocrifo di Pietro, folgorato dall’incontro con Cristo che andava a Roma ad affrontare l’estrema testimonianza di fede in sua vece.

La nuova chiesa nel centro dell’Urbe si aggiungeva significativamente ad altri santuari mariani: Santa Maria Maggiore, voluta da papa Liberio (352-366) e restaurata da Sisto III (432-440); Santa Maria Antiqua simbolicamente presente nel Foro Romano; Santa Maria in Trastevere, del III-IV secolo.

Probabilmente dopo la donazione di Focas o subito dopo, agli inizi dell’impero di Eraclio (610-641), fu realizzata l’Hodigitria raffigurante la Madonna con il Bambino, in omaggio a Maria che il concilio di Efeso, già nel 431, aveva dichiarato Theotokos, cioè generatrice di Dio nella figura umana del Cristo. Una verità teologica divisiva, come vedremo, che sarebbe stata ribadita vent’anni dopo nel concilio di Calcedonia (451), il più significativo e lacerante della chiesa antica, soprattutto quella orientale, cui parteciparono più di cinquecento vescovi, sollecitati dall’imperatore Marciano (450-457) per dirimere i quesiti sulla figura del Cristo, in cui sostanziale era il ruolo di Maria, contro le dottrine di Nestorio e di Eutiche: Maria era la madre di un uomo o di Dio?

La scelta di un’icona raffigurante la Vergine Hodigitria nella chiesa romana di Santa Maria ad Martyres costituiva di per sé un avvenimento di grande risonanza liturgica e popolare collegato direttamente ai gusti estetici della nuova società cristiana d’oriente e d’occidente, nella quale, superato il preconcetto iniziale dell’idolatria delle immagini, furono accettate le icone, grazie anche all’assorbimento di elementi ellenistici e chiaramente paganeggianti nel nuovo corso del Cristianesimo;[2] per volontà di Costantino, fattosi cristiano nel 330, fu esemplare la trasformazione del 25 dicembre dedicato a Mitra, ritenuto dai Greci divinità solare, in data cronologicamente fondamentale del Cristianesimo, così che quel giorno cessò di essere celebrativo del natalis solis per divenire il natalis Christi.

Le prime icone in Egitto, Palestina e Siria raffigurarono stiliti, martiri e vescovi; successivamente cominciarono a circolare le raffigurazioni del Cristo, della Vergine Maria e di santi, finché, dalla seconda metà del VI secolo, quindi con un certo anticipo rispetto alla nostra Hodigitria, probabilmente del 610-11, le icone divennero un riferimento stabile dell’iconodulia (la venerazione delle immagini), in quanto fonti di comunicazione religiosa o teologica[3]. L’icona, infatti, per la sua essenzialità figurativa, era facilmente comprensibile in una sorta di dialettica continua con la sacralità del mistero che l’avvolgeva. Apparteneva ad uno schema iconografico poco variato e quindi divulgabile ecumenicamente con facilità, anche perché la sua forma estetica passava dal naturalismo ellenistico ad una sorta di idealismo convenzionale strutturato su canoni prestabiliti e semplificati in composizioni lineari e simmetriche[4]: i volti generalmente contraddistinti dalla fissità dello sguardo verso l’esterno, fuori dal tempo, si presentavano come modello normativo della sacralità, al punto che in alcuni casi, come questo di Santa Maria ad Martyres, una pia tradizione cristiana del V secolo parlò di esecuzione acheropita, cioè non fatta da mano umana, ma opera dell’evangelista Luca.

Dunque, una raffigurazione concepita per essere, sin dalla sua origine, il riferimento spirituale, la guida sicura, appunto l’Hodigitria, per gli uomini nel loro cammino verso la salvezza. Nel caso dell’icona di Santa Maria ad Martyres, Maria Hodigitria, avrebbe avuto il ruolo speciale di essere la simbolica guida di tutto il popolo dei cristiani ma soprattutto di quelli più cari a Dio, che avevano testimoniato la fede in Cristo usque ad effusionem sanguinis: i martiri, uniti alla Vergine nella nuova dedica del Pantheon; anche per questo la nuova icona, dotata di grande bellezza artistica, avrebbe dovuto avere, come ebbe, forma verticale e buone dimensioni per riempire spiritualmente oltre che esteticamente la nuova spazialità cristiana assegnata al Pantheon.[5]

Secondo Teodoro il Lettore, storico bizantino attivo verso il 530, autore di una Storia ecclesiastica tripartita andata perduta, da Costantino Magno al 518, il prototipo degli esemplari attribuiti a san Luca sarebbe stato inviato da Gerusalemme a Costantinopoli all’imperatrice Pulcheria, figlia di Arcadio (377-408) e moglie dell’imperatore Marciano (392-457), perché fosse simbolo protettore della città[6]. E lo fu, secondo i bizantini nel 626, quando furono sconfitti migliaia di soldati persiani che assediavano Costantinopoli, dove, essendo l’imperatore Eraclio impegnato in battaglia lontano dalla città, fu il coraggioso patriarca Sergio (565-638) a rincuorarne gli abitanti con processioni dietro al simulacro della Theotokos Hodigitria.

Per il suo alto valore religioso e simbolico, di questa icona gerosolimitana furono fatte nel corso dei secoli molte repliche o copie su avori, miniature, mosaici e dipinti; i più antichi esemplari a Roma, di varie epoche, sono la Madonna di Santa Maria Nova del V secolo (fig.2), la Salus Populi Romani in Santa Maria Maggiore (V-VI secolo?) (fig. 3),

Fig. 2-Roma, Santa Maria Nova, Madonna con bambino
Fig. 3- Roma, S. Maria Maggiore, Salus Populi Romani

tuttavia se ne conservano altre, di varie epoche e con radicali rifacimenti in epoche successive, di cui ricordo quelle in Santa Maria in Tempuli (oggi in Santa Maria del Rosario a Monte Mario) (fig. 4), in Santa Maria in Cosmedin;

Fig. 4 -S. Maria del Rosario a Monte Mario

rifugio, quest’ultima chiesa, dall’VIII secolo degli artisti monaci bizantini in fuga dalla persecuzione iconoclastica voluta dall’imperatore Leone III Isaurico con due decreti del 726 e del 730 che proibivano il culto delle immagini sacre, di cui riparleremo più avanti. Per ora, ricordo due fatti essenziali: l’iconoclastia, avversata dall’imperatrice Irene, moglie di Costantino V (718-775) e madre dello sfortunato Costantino VI (771-797), accecato e fatto morire per ordine della genitrice, fu abolita nell’843 da papa Gregorio IV (827-844), il committente del mosaico absidale in San Marco Evangelista al Campidoglio.

L’accanimento contro le icone fu dovuto soprattutto al fatto che queste non erano solo opere per il culto, decorative, descrittive o narrative, ma costituivano la sintesi figurativa di pensieri teologici, che nell’VIII-IX secolo potevano divenire potenziali varianti politiche rischiose per l’autorità imperiale. Suggestivi ed apodittici del valore prescrittivo attribuito a questo tipo d’immagine restano i seguenti versi tratti dall’officiatura votiva della Madonna recitata dai bizantini davanti ad un’icona mariana:

«Diventino mute le labbra degli empi che non si prostrano davanti alla tua veneranda immagine Odigitria, dipinta dal santo apostolo Luca»[7].

La Madonna Hodigitria in Santa Maria ad Martyres deriva iconograficamente, come le altre icone mariane a Roma, da modelli costantinopolitani, ma è riformulata in forme romano-ellenistiche, fiorite in Egitto e in Siria e poi sviluppatesi a Roma, come vedremo più avanti, a seguito dell’imponente crisi dell’impero romano; uno sconvolgimento mondiale di carattere politico, religioso, culturale ed economico, che richiede una sia pur breve digressione. Facendo solo un riferimento al dato economico imprescindibile nelle analisi storiche e alla dialettica socio-culturale derivatane, vediamo che, fra VI e VII secolo, nelle cruente alternanze dei poteri politico ed ecclesiastico caratterizzate da frequenti e drammatici capovolgimenti di fronte, non fu secondario il ruolo delle masse popolari nelle varie regioni dell’Impero, che un grande storico del mondo antico come Santo Mazzarino ha ricordato suggestivamente con il termine di Humiliores[8].

Quegli strati popolari, infatti, contribuirono, anche se solo in un secondo tempo rispetto ai ceti sociali urbani, alla crisi dell’Impero e all’affermazione del Cristianesimo, la nuova religione antipagana rivolta agli ultimi, monoteistica e misteriosamente trinitaria. Tali strati sociali, infatti, si schierarono, sotto varie guide ecclesiastiche, per l’una o l’altra ricorrente determinazione teologica sancita dai concili ecumenici sulla figura del Cristo e sul ruolo di Maria; argomenti che in tal modo uscirono dall’orbita di una realtà religiosa intellettualisticamente complessa, per divenire una componente sociale di instabilità sia nella politica interna dell’impero sia nelle relazioni fra il papa e la Chiesa bizantina, ma soprattutto all’interno di quest’ultima.

Rispetto a Roma e alla stessa Costantinopoli, furono dunque quegli humiliores, quelle popolazioni periferiche, un elemento attivo nella crisi dell’impero romano d’Occidente nel V secolo e in quello d’Oriente nel VII, con l’epilogo del 641 quando l’Islam, battuti i Bizantini nella battaglia dello Yarmuk del 636, estromise la Persia dallo scacchiere geopolitico orientale e strappò quelle masse popolari al dominio della cultura ellenistico-romana;[9] ma fu sempre una parte di quegli humiliores convertiti a decretare il successo popolare delle icone sacre viste come elemento di mediazione religiosa con Dio.

Più avanti ricorderemo che neppure Eraclio (610-641), imperatore abilissimo, politico duttile, fine diplomatico e intelligente riformatore dell’esercito, brillante vincitore del re persiano Cosroe II Aparwez, cui aveva strappato la croce presa dai Persiani a Gerusalemme nel 614, riuscì a stabilizzare l’unità dell’impero bizantino e i suoi rapporti con il Papato, e neppure a comporre le contrastanti posizioni teologiche nella Chiesa d’Oriente sulla figura del Cristo e sul ruolo della Vergine Maria. Uno sforzo mediatore, quello di Eraclio, per riavvicinare i due grandi contendenti teologici, i Monofisiti e i Nestoriani, che non era riuscito neppure al grande Giustiniano I (527-565), altrettanto convinto sostenitore dell’unità dell’impero, da lui difeso in più di un teatro di guerra, dall’Africa dei Vandali all’Italia ostrogotica, alla parte sudorientale iberica.

In sostanza, Eraclio tentò di conciliare le posizioni dei Monofisiti ricorrendo all’escasmotage della mediazione del Monotelismo (prevalenza in Cristo della natura divina, senza negazione della sua doppia natura), sostenuto dai patriarchi Sergio di Costantinopoli e Ciro di Alessandria, mentre un nuovo protagonista si affacciava all’orizzonte: l’Islam, che, nel VII secolo, avrebbe travolto Bizantini e Persiani, a Damasco nel 635), ad Alessandria nel 646, a Cartagine nel 698. La conseguenza fu l’islamizzazione, per altro tollerante verso il Monofisismo diffuso in Siria, in Egitto e nelle aree circostanti,[10] con drammatici esiti ancor oggi vigenti in quelle tormentate terre mediorientali.

Sul piano religioso, il Monotelismo,  dopo una serie di alterne vicende, in cui fu coinvolto anche il papa Onorio I, venne definitivamente condannato come eresia nel concilio di Costantinopoli III del 681, in cui si ribadì il “simbolo della fede” statuito già trent’anni prima nel concilio di Calcedonia, in cui Cristo fu dichiarato

«[…] veramente dio e veramente uomo, composto di anima razionale e di corpo, consustanziale al Padre secondo la divinità e consustanziale a noi nella sua umanità; simile a noi in tutto, meno  che nel peccato, generato dal Padre, prima dei secoli, secondo la divinità e generato in questi ultimi tempi per noi e per la nostra salvezza dallo Spirito Santo e da Maria Vergine, che è nel senso più pieno del termine madre di Dio secondo l’umanità; un solo e medesimo Cristo, figlio unigenito di Dio, da riconoscersi in due nature […]».[11]

Fu dunque un complesso di drammatici avvenimenti politici e religiosi a provocare la frammentazione e la fine del mondo romano antico, con lo sgretolarsi dell’unità politica e il dilagare di eresie e di scismi[12].

Ad ovest, caduta Roma e divenuto re d’Italia Odoacre nell’agosto del 476, era scomparsa la figura dell’imperatore, così che la parte occidentale dell’impero rimase costituita da una costellazione di Stati romano-barbarici, dalla Gallia alla Pannonia, alla Dalmazia, alla Rezia, all’Africa, in cui parte importante l’ebbero Franchi, Visigoti e Vandali. Ad oriente invece l’impero si mantenne vivo, con capitale Costantinopoli fondata da Costantino nel 330, anche se, fra V e VI secolo le contrastanti interpretazioni religiose alimentarono frequenti scismi ed eresie, coinvolgendo con esiti alterni pure l’impero nello scontro fra le scuole di teologia di Alessandria e di Antiochia sulla natura divina e umana del Cristo e di conseguenza sul ruolo teologico di Maria nella storia della salvezza.

Insomma, Maria fu Christotokos o Theotokos ?[13] Rispondendo a questo interrogativo, sarà probabilmente più chiaro il significato storico-religioso dell’icona di Santa Maria ad Martyres. Per i Monofisiti, seguaci dell’archimandrita Eutiche (378-dopo il 454), Cristo aveva la sola natura divina, mentre Nestorio (381-451), patriarca di Costantinopoli, separava la natura umana da quella divina in Cristo, negando l’ipostatismo (l’unione delle due nature del Cristo in un’unica sostanza). Di consequenza,  Maria era esclusivamente Christotokos, la madre del Cristo uomo; eresia, quest’ultima, condannata nel concilio di Efeso (431), convocato dall’imperatore Teodosio II (401-450), in cui Maria fu confermata Theotokos.

La situazione era rovente, come sempre accade quando si invocano i fondamentalismi religiosi. La dialettica teologica finì per trasformarsi in una bufera di scontri teologici con reciproche scomuniche, deposizioni di vescovi, di archimandriti e conseguenti esili, emanazioni di condanne in concili convocati dagli imperatori con inevitabile loro partecipazione attiva e talvolta anche con la loro destituzione ed uccisione, come capitò all’imperatore Maurizio, predecessore dell’usurpatore Focas: in tutto questo l’Impero d’Oriente subì gravi divisioni nella sua ormai vacillante identità culturale ellenistico-romana, in cui, sul piano sociale, non poterono certamente credere fino in fondo, come ha bene argomentato Santo Mazzarino, «il contadino siriaco e l’egiziano»[14].

S’è accennato prima a quali fossero le difficoltà incontrate da un grande imperatore come Eraclio nel VII secolo nel mantenere l’unità politica dell’impero, compromessa  all’esterno da attacchi di Persiani e di Avari e, all’interno, dai ricorrenti scontri teologici; Eraclio, infatti, deposto il tirannico predecessore Focas, respinti i Persiani assediatori di Costantinopoli nel 626, sconfitti quindi a Ninive nel 627, dopo la perdita temporanea di Damasco e di Gerusalemme, dovette rassegnarsi alla perdita delle circoscrizioni periferiche di Siria e di Egitto, di professione nestoriana la prima e monofisitica la seconda.

In proposito, va ricordato che la tolleranza, per altro politicamente inevitabile ed oscillante verso le opinioni teologiche dei vari contendenti, fu una caratteristica dei monarchi di Costantinopoli, anche se con eccezioni. Infatti, l’imperatore Marciano (450-457), successore di Teodosio II, di cui aveva sposato la sorella Pulcheria, annullò a seguito del concilio di Calcedonia (451), i provvedimenti presi dal suo predecessore, già ratificati nel Concilio di Efeso II del 449 convocato dallo stesso Teodosio II e presieduto dal patriarca Dioscoro I. Un concilio, quest’ultimo, controverso e contestato dal patriarca di Costantinopoli Flaviano e dal papa Leone I (390 c.-461), tanto che fu definito latrocinium Ephesi!; in realtà si trattò di un sinodo locale con l’intervento di circa centotrenta vescovi, disposti ad accettare l’inaccettabile e cioè la dottrina monofisita condannata quindi due anni dopo nel ricordato concilio che si tenne nella basilica di Sant’Eufemia a Calcedonia (451), cui parteciparono trecentocinquanta padri, dei quali solo sei in rappresentanza della Chiesa d’Occidente. Riguardo a Maria, il concilio, si espresse con la seguente formula:

«[il Figlio] che prima dei secoli è generato dal Padre secondo la divinità, negli ultimi giorni, lo stesso, per noi e per la nostra salvezza, è generato da Maria vergine madre di Dio secondo l’umanità».[15]

Insomma, dopo i concili di Efeso (431) e di Calcedonia (451), la raffigurazione di Maria con il Bambino Gesù si diffuse in oriente e in occidente attraverso le icone: le più antiche in forma di pittura a tempera su legno o a encausto, le successive in mosaico.

Come abbiamo detto, il centro di irradiazione delle icone fu Costantinopoli, dove erano confluite le esperienze di artisti dalla Siria e dall’Egitto. Dalla capitale dell’impero quindi si diffusero in varie forme scolastiche in Grecia, Cipro, Creta, Russia, Bulgaria, Romania, nella penisola balcanica, in Italia etc. Dinanzi alle icone, oggetti mobili e pertanto, all’occorrenza, adatti ad una predicazione itinerante, subirono un arretramento, anche per il loro costo, gli splendidi ed estesi mosaici talora ricchi di decorazioni e di variegati elementi naturalistici, che rivestivano le absidi e le pareti delle chiese, tanto più suggestivi perché costituiti di paste vitree, in parte fuse con preziose lamine d’oro e quindi generatori di luce di varia intensità secondo la posizione del sole nei diversi momenti del giorno.

Fatto non secondario, le icone determinarono un progressivo viraggio in senso nobilmente figurativo dal culto delle reliquie materiali, talora di difficile accertamento identitario e quindi potenziali fonti di abusi, verso l’eletta dimensione di opere esteticamente belle, soprattutto manifestamente evocatrici di santità e ritenute dalla coscienza popolare efficaci a garantire la protezione dell’anima e la salute del corpo. Non si trattò solo di simboli di ridotte dimensioni, come dimostra macroscopicamente l’architettura simbolo dei simboli del Cattolicesimo, la basilica di San Pietro in Vaticano, sorta nel IV secolo per volontà di Costantino sul luogo del martirio del principe degli apostoli.

Per parte sua, la nostra Hodigitria, realizzava esemplarmente il transito concettuale dalla reliquia, l’oggetto materiale e segno nello stesso tempo di un ideale metafisico, all’immagine artistica, in cui, è bene precisare, «non è interamente abolito ogni legame col contenuto di conoscenza»:[16] perché di Maria, secondo la fede cattolica, non esistevano resti umani, essendo stata assunta in cielo senza subire la corruzione della carne, anche se di lei si tramandavano reliquie per così dire indirette, come la cintola e il maphorion (il manto che copre la testa e le spalle di Maria) custoditi a Costantinopoli. Carlo Bertelli, come diremo tra poco, nella sua analisi serrata di questo dipinto, restaurato una prima volta dall’Istituto Centrale del Restauro alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, ricordando le reliquie di Maria, le ha collegate all’Hodigitria ritenuta opera di san Luca, che Aelia Eudocia, moglie dell’imperatore Teodosio II (401-450), inviò a Costantinopoli a Pulcheria, la potentissima figlia di Arcadio, dapprima reggente per il fratello minore Teodosio II e poi moglie dell’imperatore Marciano.

Per i cristiani d’oriente l’icona fu anzitutto un oggetto di culto offerto dalla Chiesa alla venerazione dei fedeli, mezzo pedagogico che attualizzava il mondo invisibile e «sacramentale della presenza di Dio: secondo l’espressione di s. Giovanni Damasceno», costituendo una via della grazia con virtù santificatrice[17].

In generale, l’icona presentava un’immagine simbolica di alto impatto emotivo ed evocativo dei misteri della fede e dell’agiografia, per la sua connotazione intensamente regale sgorgata da una proiezione ascetica, che aveva il fine di attrarre l’attenzione di ogni uomo per comunicare i misteri della fede. Tuttavia, nel caso della Madonna di Santa Maria ad Martyres, era l’eletta dimensione estetica a diffondere bellezza ed a sublimare la verità che Maria, come aveva statuito il concilio di Efeso (431), era la Theotokos, l’icona costantemente unita al mistero della divinità e dell’umanità del Cristo, una sorta di talismano per gli stessi imperatori bizantini, i quali collegavano il loro potere alla dimensione sovrannaturale del Cristo Pantokrator, icona bizantina per eccellenza.

Non casualmente, Giustiniano II (685-695; 705-711), ultimo discendente di Eraclio, nelle monete si fece raffigurare dietro il volto barbato del Cristo; insomma, il modello dell’icona, anche se di ridotte dimensioni, come appunto avveniva nella numismatica, racchiudeva

«un mondo diverso da quello dell’antiquato cavaliere romano sul cavallo che s’impenna delle monete di Giustiniano I».[18]

L’eroismo cedeva il passo ad una forma di neo ellenismo della realtà fattuale, in cui l’icona fu accettata, anche se con qualche riserva, dagli imperatori bizantini: questo tipo di immagine infatti, pittura o scultura che fosse, ricapitolando articolate e talora controverse storie esemplari di santità e quindi di trascendenza, diveniva anche un fattore di accentramento politico-religioso  delle coscienze in un solo ideale, che non sempre era condiviso dallo stesso imperatore.

Dunque, l’icona era considerata un simbolo evocativo della potenza divina, perché sintesi dei misteri della fede e delle esemplarità agiografiche; nel caso della nostra Hodigitria, il simbolo assumeva maggiore rilevanza, proprio perché la raffigurazione di Maria, tota pulchra teologicamente ma anche nel suo simulacro estetico, era collocata in una nuova chiesa cattolica, che, riformulando la titolazione pagana politeistica del Pantheon, si rivolgeva agli uomini proprio nel centro della città caput mundi sia del Cristianesimo sia del tramontato impero dei Cesari. In altre parole, l’Hodigitria  di Santa Maria ad Martyres campeggiava, al centro dell’Urbe, praesidium spirituale invictum a portata di mano dei Romani, mentre l’imperatore d’oriente appariva fisicamente e ideologicamente lontano e il papa era costantemente impegnato a confrontarsi con più di un’insidia: ad oriente con scismi ed eresie nella Chiesa bizantina; ad occidente con la presenza minacciosa dei Longobardi prima della loro conversione, quindi con il grave caso del cosiddetto Scisma Tricapitolino,[19] protrattosi per circa un secolo e mezzo, dopo il concilio di Costantinopoli II (553) fino al 698/699, insidioso negatore in chiave nestoriana di Maria Theotokos.

Proprio per questo suo essere simbolo di guida, nonostante le lacerazioni scismatiche, Maria Hodigitria fu raffigurata in Santa Maria ad Martyres in piedi, rivolta ai fedeli con in braccio il Bambino Gesù, come, in occasione del primo restauro, ha giustamente ipotizzato Carlo Bertelli, che, proponendone una ricostruzione grafica, l’ha anche riferita spiritualmente al magistero carismatico di Gregorio Magno (590-604), il quale, in polemica con il patriarca di Costantinopoli, rivendicò solo per il papa il titolo di “ecumenico”, con l’aggiunta della denominazione di servus servorum Dei, divenuta da allora stabile nella terminologia cattolica riferita al sommo pontefice romano.

Bertelli collegava quindi l’icona del Pantheon alle tavole romane di Santa Maria in Trastevere (fig. 5), di Santa Maria Nova, del Sancta Sanctorum;[20]

fig. 5 Roma, S. Maria Trastevere, Madonna della Clemenza

ne individuava i riferimenti iconografici in una miniatura del codice siriaco di Rabūlā, nella Biblioteca Laurenziana di Firenze del 586 e nel mosaico absidale, forse del VII secolo, di Πανάγια ̓Αγγελοκτιστός presso Kiti, a Cipro.

Dal punto di vista stilistico la ritenne giustamente di ambito romano, accostandola alla Turtura, nelle catacombe di Commodilla (fig. 6) e alla Basilissa nel cosiddetto Palinsesto in S. Maria Antiqua (fig. 7), ponendola al centro di un indirizzo evolutivo neoellenistico rispetto allo schematismo della miniatura siriaca e all’equilibrio formale del mosaico greco.

Fig. 6- Roma, Catacombe di Comodilla, Madonna con Bambino, santi e Commodilla
Fig. 7- Roma, S. Maria Antiqua, Palinsesto

Si tratta di uno sviluppo del filone iconografico mariano che, quasi due secoli dopo, si sarebbe consolidato in altre forme sempre a Roma, durante il pontificato di Pasquale I (817-824), nella Madonna con Bambino in trono fra angeli, nel mosaico di Santa Maria in Domnica (fig. 8), che richiama l’icona della fine del VI secolo con Maria e i santi Teodoro e Giorgio nel monastero di Santa Caterina al Monte Sinai (fig. 9).

Fig. 8- Roma, Santa Maria in Domnica, Madonna con Bambino e santi
Fig. 9- Monastero Monte Sinai, Maria con i santi Teodoro e Giorgio e due angeli

Fondamentale sull’argomento resta il pensiero di Ernst Kitzinger, che ha teorizzato un “ellenismo perenne”, per cui si realizzò «l’apogeo della tradizione ellenistica nella pittura religiosa romana […] intorno al 630»[21], vale a dire in uno spazio temporale stilisticamente non troppo distante  dall’Hodigitria di Santa Maria ad Martyres, dipinta probabilmente verso il 610 in un contesto per cui, secondo Kitzinger, si deve parlare di periodo premedievale o, come io credo, di post-tardoantico; e questo sullo sfondo di una variante che si sarebbe rivelata travolgente sul piano politico-religioso: l’entrata in scena dei musulmani integralmente religiosi al pari dei cristiani e degli ebrei e insieme a questi osservanti delle norme emanate da un libro sacro.[22] Tanto pervasiva fu quella realtà che nel 695 furono coniate le prime monete arabe e nel 699 l’arabo sostituì il greco nella cancelleria di Damasco, mentre nuova fortuna ebbero le traduzioni di Platone, di Aristotele e di Galeno.[23]

A questi riferimenti stilistici sostanziali vanno aggiunte due fonti figurative di straordinaria importanza, già individuate dal Kitzinger: le icone del monastero di Santa Caterina al Monte Sinai, fatto costruire fra il 527 e il 565 da Giustiniano, e i ritratti dell’oasi del Fayyum in Egitto. Nel primo caso si tratta di raffigurazioni sacre, di cui particolarmente importante, per le analogie formali di ascendente ellenistico con l’Hodigitria di Santa Maria ad Martyres, è l’appena ricordata Madonna con Bambino sinaitica del VI-VII secolo (vedi fig.9), in cui David Talbot Rice ha sottolineato

«i rigidi atteggiamenti frontali e le pose ieratiche che vennero introdotti in Egitto dalla Siria e che portarono all’affermazione dello stile copto nella pittura»[24].

Si tratta di un capolavoro figurativo rigidamente frontale, ma di raffinata definizione plastica al pari di altri esemplari romani e cioè: Maria nell’affresco di Turtura nelle catacombe di Commodilla (vedi fig. 6); gli affreschi con la testa di s. Anna (fig. 10) e con la Maria regina, rispettivamente nel presbiterio e nel palinsesto pittorico in Santa Maria Antiqua (vedi fig. 7), ritenuti da Lazarev di ascendente costantinopolitano[25]; quindi, in oriente, le ricordate Vergine con Bambino fra gli arcangeli Michele e Gabriele nel mosaico absidale del VII secolo nella Panaghia Angheloktistos a Kiti, presso Cipro, e Maria con i santi Teodoro e Giorgio nel monastero sinaitico di santa Caterina (vedi fig. 9); mentre, in alcuni volti, sempre del VII secolo, in San Demetrio a Salonicco ritorna la fissità degli sguardi senza tempo.[26] Particolarmente significativa fra le icone sinaitiche, per gli echi ellenistici di spiccato naturalismo che lo caratterizzano, è uno splendido e modernissimo san Pietro (fig. 11), di raffinato gusto alessandrino, realizzato ad encausto su tavola, che, per l’aristocratica eleganza formale e per il deciso naturalismo, potrebbe considerarsi un incunabolo anteriore di circa nove secoli della grande pittura italiana dell’Umanesimo-Rinascimento.

Fig. 10- Roma, S. Maria Antiqua, Palinsesto, S. Anna
Fig. 11- Monastero Monte Sinai, S. Caterina, S. Pietro

A tutt’altro mondo appartengono i ritratti di al-Fayyum, dipinti per lo più su tavola: sono una crasi di cultura figurativa egizia e romana verso il II-III secolo e oltre e fanno parte del rigoglioso tronco della figuratività romano-ellenistica diffusa in tutta l’area mediterranea, ma senza i riferimenti concettuali alla sfera del divino in cui orbitarono le icone cristiane.

Ricordiamo questi ritratti, perché, fra V e VIII secolo, dovettero essere noti ai pittori bizantini e romani delle icone, soprattutto quelle di più spiccata forma naturalistica, intensificata dalla ricorrente resa ammaliante degli occhi di grandi dimensioni, talora anche più profondi di quelli dell’Hodigitria di Santa Maria ad Martyres; caratteristiche “morelliane” che si vedono spettacolarmente esaltate soprattutto nelle figure del Cristo con i santi Pietro e Paolo, Cosma e Damiano, che popolano il mosaico parusiaco eseguito verso il 530-533 nell’abside della basilica romana dei Santi Cosma e Damiano (fig. 12).

Fig. 12- Roma, Santi Cosma e Damiano, abside,

I ritratti del Fayyum tuttavia non furono concepiti come opere d’arte sacra ma come laiche memorie funerarie idealizzate su tavole di ridotte dimensioni, che venivano deposte sulle mummie con i volti ritratti naturalisticamente e poeticamente quasi in un immaginario parallelo figurativo con la raffinata contenutezza e soprattutto la grazia evocativa degli epigrammi e dei ritratti ellenistici.

La diffusa resa realistica e la forma ricorrente di alcuni particolari, come appunto la grandezza e l’intensa espressione degli occhi, la consistenza delle capigliature pienamente mediterranee, o più precisamente nordafricane, hanno fatto pensare a schematismi di un codice delle forme, che sarebbe stato usato in diverse occasioni: insomma, la resa figurativa non avrebbe evocato la reale somiglianza con il defunto, ma una sua idealizzazione artificiosamente ricostruita, così che l’immagine evocativa e trasfigurativa del suo volto in vita sarebbe stata ancora visibile nell’oltretomba. Resta ammirabile la bellezza della loro forma, eco periferica del seducente naturalismo dell’arte classica.

Ma perché la Madonna di Santa Maria ad Martyres fu raffigurata a figura intera? Per rispondere a questa domanda, centrale per la nostra trattazione, ritengo che si debba considerare seriamente un grande inno liturgico anonimo, che la critica storico-teologica ha ipoteticamente datato, in ampia oscillazione temporale, fra il V e il VII secolo; si tratta di una lirica appartenente alla chiesa bizantina, che celebrava in tutte le sue prerogative il mistero di Maria, vas electionis, madre di Cristo-Dio e che andava ascoltato e recitato stando in piedi, come si ascolta il Vangelo. Per la precisione, è l’inno Aκathistos (in greco ̓Aκάθιστος), composto in onore di Maria protettrice di Costantinopoli dal melode bizantino Romano (VI sec.) o dal patriarca Sergio (VII sec.) dopo il fallito assedio persiano di Costantinopoli del 626, o forse, come io credo, con più probabilità ancor prima, alla metà del V secolo, da un ignoto padre del concilio filo-mariologico di Calcedonia (451). Comunque sia, nell’Akathistos diviso in stanze o strofe, ricorrente era il numero fatidico 12 collegato al numero delle tribù d’Israele, a quello degli apostoli, ma anche alle stelle sul capo della misteriosa donna dell’Apocalisse e ai

«numeri sacri della fede cristiana, il 2 e il 3, simbolo dei dogmi definiti a Nicea e ad Efeso: la trinità delle due persone divine e le due  nature ipostaticamente unite nel verbo incarnato».[27]

Veniva recitato il quinto sabato di Quaresima in onore di Maria protettrice di Costantinopoli; per analogia, dunque, l’Akathistos, definito da un teologo del nostro tempo «prima sintesi di  dottrina mariana valida ancora dopo il Vaticano II»[28], sarebbe potuto divenire dopo il 609, l’anno della donazione del Pantheon a papa Bonifacio IV, la preghiera collettiva del popolo romano davanti alla nuova icona dell’Hodigitria, in Santa Maria ad Martyres, trionfante protettrice di Roma.

Conferma poeticamente questa prerogativa soteriologica di Maria salvatrice di Costantinopoli il proemio dell’Akatistos, forse del VI-VII secolo, traboccante di echi della lirica greca antica:

«All’invitta stratega l’inno di vittoria! // Sottratta ad immane sventura, il canto di grazie // a te dedico, io tua città, o madre di Dio! // O tu che detieni un potere invincibile, // da ogni sorta di pericoli scampami, // perché t’acclami: Ave, Vergine e Sposa!».[29]

In altre parole, questo inno visionario, capolavoro di eletta bellezza della poesia tardoantica, ricapitolativo delle litanie mariane, ricco di immagini di ispirazione biblica e di naturalismo ellenistico, proiettava la Vergine Maria nel mistero della salvezza in Cristo con suggestivi riferimenti dottrinali ai Padri della Chiesa orientale del IV e V secolo e ai ricordati concili di Nicea (325), di Efeso (431) e di Calcedonia (451). La seconda parte di questo Inno liturgico descriveva Maria nel mistero del Cristo Salvatore e della Chiesa dei martiri che condividevano con la Vergine, guida alla salvazione, la preghiera nel nuovo tempio dal titolo esemplarmente rinnovato di Santa Maria ad Martyres, loro dedicato nel centro di Roma, dove Pietro, affrontando il martirio, aveva fondato nella storia dell’umanità la sede primaria del Cristianesimo e del Vicario di Cristo fra gli uomini.

Fig. 5 Roma, S. Maria Trastevere, Madonna della Clemenza

Ritengo opportuno precisare che anche Carlo Bertelli ha ricordato l’Akathistos, ma per collegarlo ipoteticamente solo alla ricordata Madonna con Bambino, dell’VIII secolo, nella basilica di Santa Maria in Trastevere (fig. 5), in un confronto filologico-esegetico tra la metrica dell’Inno bizantino e l’iscrizione in trimetri giambici dell’icona transtiberina, precisando tuttavia che l’Akathistos non fu redatto in trimetri giambici e che pertanto l’iscrizione di quella Madonna è un vero e proprio titulus e non un epigramma riportato[30].

Per parte mia, ritengo dunque fondato, sotto i profili religioso, concettuale e politico, collegare l’Akathistos all’Hodigitria di Santa Maria ad Martyres. Quell’inno, infatti, essendo un eminente riferimento liturgico della Chiesa bizantina, non poteva non essere apprezzato da un imperatore spregiudicato come Focas, il donatore del Pantheon; questi, infatti, pur avendo il centro del suo potere a Costantinopoli, lì destinato nel 330 dal cattolico Costantino, ritenuto santo dalle Chiese orientali, guardava a Roma, luogo storico e ideale della nascita dell’impero e del papato. In termini di realpolitik, a Focas, assistito da esperti consiglieri ecclesiastici, non sfuggiva la capacità unitiva di un testo della liturgia bizantina, come l’Akatistos, se collegato alla nuova icona Hodigitria nel Pantheon divenuto da tempio pagano chiesa mariana per suo dono al pontefice.

Dal canto suo, il papa Bonifacio IV non fece altro che continuare la politica filoimperiale del suo predecessore, Bonifacio III, di origine greca, che aveva ottenuto da Focas la dichiarazione di Roma maggiore fra tutte le Chiese, concedendo per questo, nel 606, al monarca bizantino l’onore di una statua dorata con tanto di dedica al culmine di una colonna; questa è ancor oggi esistente nel Foro Romano, anche se priva del simulacro rimosso forse nel 610 a seguito della damnatio memoriae di Focas.

Dunque, Bonifacio IV, ebbe tutto l’interesse pastorale e politico di trasformare o meglio trasfigurare il Pantheon da ara pagana in santuario ecumenico per eccellenza di Maria e dei martiri della fede in Cristo, in cui la nuova icona Hodigitria sarebbe stata venerata dal popolo romano secondo l’Akatisthos, vale a dire pregando in piedi all’orientale. Per di più, questo sarebbe avvenuto in una chiesa titolarmente nuova per dono dell’imperatore, che si ergeva nel centro della città eterna a simboleggiare spettacolarmente la rinnovata amicizia fra oriente e occidente e soprattutto il consolidamento della vittoria sull’eresia delle tesi mariologiche conciliari sostenute dai papi di Roma: sul piano teologico, l’affermazione del difisismo (due nature in Cristo) e consequenzialmente della verità di Maria Theotokos, prerogativa vittoriosamente sostenuta dal papa Leone I (440-461) nel ricordato concilio di Calcedonia del 451.

L’Akathistos, infatti, fu composto, come ho già ricordato, probabilmente a seguito di quel difficile concilio calcedonese, in cui lo stesso imperatore bizantino Marciano aveva riconosciuto, in sintonia con papa Leone I, due nature nel Cristo unigenito nato dalla Vergine Maria; era la sconfitta del monofisismo (una sola natura in Cristo) sostenuto da Eutiche, archimandrita di un monastero costantinopolitano, e da Dioscoro, patriarca di Alessandria.

In conclusione, riferirsi per il culto della nuova immagine TheotokosHodigitria in Santa Maria ad Martyres ad un inno liturgico bizantino scritto in onore di Maria protettrice di Costantinopoli e scaturito dallo spirito del concilio calcedoniano, significava transitivamente affidarle anche la protezione di Roma, beninteso sotto l’egida imperiale a distanza di Focas, ma nel pieno riconoscimento della riconfermata ortodossia cristiana del papato romano.

Di quella testimonianza straordinaria di arte e fede nell’icona Hodigitria di Santa Maria ad Martyres è matericamente sopravvissuta solo una parte, fortunatamente la più importante, il busto, che il recentissimo restauro (il secondo, sessantacinque anni dopo il primo a cura dell’Istituto Centrale del Restauro allora diretto da Cesare Brandi) ripresenta nella sua misteriosa bellezza pur attraversata da stimmate millenarie[31].

Ignoto ne è l’autore, condizione comune alla maggior parte delle pitture dell’alto Medioevo, anche quelle dei cicli musivi o affrescati, ma è stata opera fortunata, se così si può dire, perché ci è pervenuta ancora in gran parte visibile nella sua parte sostanziale, nonostante le persecuzioni dell’iconoclastia.  Perché l’Hodigitria di Santa Maria ad Martyres, come altre icone in chiese romane presenti nell’Urbe non hanno subito la sorte di molte pitture bizantine in gran parte travolte dai dogmatismi politici involutivi delle leggi iconoclastiche del VII-VIII secolo, iniziate dall’imperatore Leone III Isaurico: sfuggirono a quello sterminio culturale soprattutto i manoscritti miniati, destinati ad un pubblico ristretto, tra i quali ricordo lo straordinario Evangeliario siriaco del Monaco Rabula, nella Biblioteca Laurenziana di Firenze.

Nel merito della questione, va tuttavia ricordato che l’imperatore bizantino Leone III Isaurico iniziò la sua persecuzione iconoclastica nel 726 per motivi politici: sia per respingere le accuse di idolatria da parte dei musulmani, ormai ben presenti nello scacchiere geopolitico mediorientale, sia per ridurre il ruolo sociale dei monasteri in possesso delle immagini sacre intensamente venerate dal popolo, talvolta al limite della superstizione; in un’atmosfera di intensa spiritualità, infatti, le icone favorivano lo stato contemplativo ai danni dell’impegno reale.

Nei fatti, i monaci orientali, fedeli alla loro vocazione, coltivarono in ogni strato della società il desiderio della vita contemplativa attraverso il culto dell’ἐκκλεσία, la comunità ecclesiastica, struttura centrale del cattolicesimo; un culto che le icone favorivano facendo accostare i fedeli all’adorazione comunitaria dei misteri della fede nel distacco dalle seduzioni dei beni materiali e, se necessario, anche dai doveri verso lo Stato. Il Cristianesimo, affermatosi e diffusosi in Oriente, dove era nato, conquistò in quelle terre più che in Occidente le anime dei popoli alle ragioni di una convinta spiritualità, sostenuta da una rigogliosa arte popolare che sopravanzò le convenzioni del cosiddetto “classicismo cristiano”, in cui, peraltro, erano confluiti anche simboli pagani, come il culto del dio sole derivato dall’iranico Mithra.

In altre parole, un’espressione liturgica del culto cristiano orientale come l’Akathistos, cantato in Roma in comunione con la Vergine e i martiri nella nuova chiesa loro dedicata, avrebbe idealmente unito nella preghiera la popolazione romana con quella d’oriente nella condivisione del mistero mariologico della Theotokos Hodigitria, cui rinviava proprio quell’inno. Dunque, le icone, diversamente dall’astrattismo praticato dall’Islam e dal Giudaismo, ma anche dalle opere figurativamente realistiche del classicismo cristiano apprezzato in Occidente soprattutto dagli strati sociali più elevati, furono la rappresentazione ideale e irreale, perché fuori del tempo e dello spazio, dell’ineffabile idea del divino,[32]un archetipo della fede, che, nel caso del mistero mariano, secondo una pia tradizione cristiana, solo la santità dell’evangelista Luca aveva potuto raffigurare.

Sull’argomento, il grande storico russo, Viktor Lazarev, ha ricordato:

«Soltanto con l’aiuto delle icone il cristiano poteva staccarsi da tutte le cose terrene […] per ascendere dal visibile all’invisibile, dal sensibile al soprasensibile […] Si tendeva perciò a smaterializzare il più possibile il contenuto delle icone per privarle di tutti quegli elementi sensualistici che potessero in qualche modo ostacolare l’espressione di una spiritualità elevatissima.».[33]

Era la convinzione  degli iconoduli, i quali, in virtù della smaterializzazione assoluta dell’opera d’arte, rinunziarono alla pervasiva consistenza materica della scultura per approdare al misticismo emanato dalla pittura delle icone, ortostatiche, dagli sguardi fissi trasmessi da occhi di grandi dimensioni ma privi di emozioni e di sentimenti profondi: esemplare  di questi tipi morfologici a Roma è il ricordato volto del Cristo parusiaco nella basilica dei Santi Cosma e Damiano voluta dal papa Felice IV (526-530), il quale intitolandola a  due santi orientali, favoriva costruttivi rapporti con l’imperatore Giustiniano.

Come abbiamo accennato, fu così che a Roma, dove l’iconodulia aveva avuto sempre albergo anche per motivi teologici legati al mistero dell’incarnazione del Cristo visibile nella sua natura umana e quindi lecitamente riproducibile in forme artistiche, furono accolti, in fuga dai provvedimenti iconoclastici, numerosi monaci-pittori costantinopolitani, presenti in precedenza anche presso Varese dove videro la luce gli affreschi di Castelseprio del VII secolo, anch’essi di ispirazione costantinopolitana. Oltre alla scontata simpatia per questi colti immigrati da parte dei papi, dei quali, fra il 606 e il 752, dieci furono di origine greca o siriaca, si registrò la formazione tra il Tevere e l’Aventino di un vasto quartiere denominato Ripa Graeca e di una Schola Graeca presso Santa Maria in Cosmedin; la stessa Santa Maria Antiqua, decorata anche con affreschi del VII secolo, era proprietà di un contiguo monastero greco ed era di giurisdizione imperiale bizantina.[34] Liberati dall’astrattismo praticato dall’Islam diffusosi in oriente, quegli artisti orientali, sulla scia dell’antropomorfismo classico coltivato fin dal III-IV secolo ad Alessandria, Antiochia, Efeso e quindi nella stessa Costantinopoli, poterono produrre in forme antropomorfiche icone mobili, splendidi affreschi e rutilanti mosaici.

Di queste opere, di poco posteriori alla nostra Hodigitria derivata ideologicamente da quella cultura, resta a Roma come pietra miliare ricapitolativa di quel mondo, il mosaico del III-IV decennio del VII secolo, nel catino absidale della basilica di S. Agnese fuori le mura, in cui la santa è raffigurata fra i papi Simmaco ed Onorio I, ma in abiti di trionfante basilissa bizantina (fig. 13).

Fig. 13 Roma, S. Agnese fuori le mura, mosaico absidale

Anche in questo particolare non puramente esteriore vediamo quanto fossero considerati importanti a Roma i messaggi di bellezza aulica provenienti dall’oriente, dove, paradossalmente a Betlemme, in un’umile capanna e dunque in scandalosa antitesi ad ogni espressione di potere, una luce mai vista prima aveva illuminato la terra.

Vitaliano TIBERIA  Roma 31 Ottobre 2024

 NOTE

[1] Su Cesare Brandi storico, critico e filosofo dell’arte si veda P. D’Angelo, L’estetica italiana del Novecento. Dal neoidealismo a oggi; Editori Laterza, senza luogo 1997, ed. consultata 2007, pp. 193-199; Idem, Cesare Brandi. Critica d’arte e filosofia, edizioni Quodlibet, Macerata 2006, passim, ma in particolare pp. 15-17, per l’interpretazione da parte di Brandi del significato della pittura bizantina non come “forma” ma come pittografia, cioè come comunicazione di significati religiosi o teologici, cfr. ibidem, p. 120.
[2] V. Lazarev, Storia della pittura bizantina, Torino 1967, Giulio Einaudi editore, p. 21 e segg.
[3] Ibidem, p.92.
[4] P. Toesca, Il Medioevo 1, UTET, Torino 1965, p. 157 e segg., pp. 233-238.
[5] G. Gharib, Nuovo Dizionario di mariologia, a cura di Stefano De Fiores e Salvatore Meo, edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1986, ad vocem Madre di Dio, p. 673, ricorda che l’appellativo di Hodigitria è stato collegato ad una comunità monastica, custode dell’originale di questo tipo iconografico attribuito a san Luca.      
[6] Ibidem. Sulle icone mariane attribuite all’evangelista Luca si veda M. Bacci, Storia delle immagini sacre attribuite a san Luca, Pisa 1998. Sulla Theotokos di S. Maria in Cosmedin, icona esemplare dei rifacimenti subìti da questo tipo di pitture in epoche medievale e moderna, ricordo il recente studio di M. Nuzzo, La Theotokos di Santa Maria in Cosmedin: un contributo per la figura del pittore romano Giovanni Piacere, in Domus sapienter staurata. Scritti di Storia dell’Arte per Marina Righetti, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo, Milano, 2021, pp.706-715.
[7]Gharib, cit. alla nota 5, p. 674.
[8] G. Giannelli – S. Mazzarino, Trattato di storia romana. L’Impero romano, vol. II, a cura di S. Mazzarino, Tumminelli editore, Roma 1962, p. 533.
[9] Ibidem
[10] Ibidem, p. 531.
[11] G. Fedalto, I concili dell’antichità, in R.Aubert, G. Fedalto, D. Quaglioni, Storia dei Concili, edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1995, p. 325.
[12] Mazzarino, op. cit. alla nota 8, ibidem.
[13] Ricordo che il termine Theotokos, in Egitto, era attribuito ad Iside madre di Horus (Gharib, cit. alla nota 5, p.673)
[14] Mazzarino, op.  cit. alla nota 8, ibidem.
[15] D. Sartor, in Nuovo Dizionario di mariologia, op. cit. alla nota 5, ad vocem Icone, p. 821.
[16] P. D’Angelo, L’estetica italiana del Novecento. Dal neoidealismo a oggi, Gius. Laterza & Figli Roma-Bari 1997; edizione riveduta e aggiornata, 2007, p. 197.
[17] G. Gharib, Icone, in Nuovo Dizionario di mariologia cit. alla nota 5, p. 671 e segg.
[18] P. Brown, Il mondo tardo antico, London 1971, trad. ital. Giulio Einaudi editore, Torino 1974, p. 149.
[19] Lo Scisma Tricapitolino avvenne fra i secoli VI e VII e durò quasi centocinquant’anni, dal concilio di Costantinopoli II (553) al 698-699, quando il re longobardo Cuniperto, alleato del papa, batté il duca ariano Alachis nella battaglia di Coronate presso l’Adda. Il titolo di questo scisma fu determinato dai tre Capitoli presentati dai vescovi orientali Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Ciro e Iba di Edessa, i quali, considerando la figura del Cristo, negarono nestorianamente il termine Theotokos: Giustiniano, nel concilio di Costantinopoli II li fece condannare, ottenendo anche l’approvazione del papa Vigilio non convinto tuttavia del provvedimento imperiale; l’approvazione fu contestata da molti vescovi occidentali  e dette vita allo Scisma Tricapitolino, conclusosi con papa Sergio I (687-701), appunto nel 699.
[20]  Bertelli rilevava: «E’probabile che ciò che oggi rimane (scil. dell’Odigitria del Pantheon) sia soltanto un frammento dell’asse centrale di una grande tavola composta di almeno tre assi, e poiché il frammento è scorciato in basso, si pone l’ipotesi che vi fosse rappresentata la Madonna a figura intera, in un quadro, quindi, di dimensioni grandiose, del tutto proporzionato all’architettura che lo ospitava e chiaramente affine alle grandi tavole romane di Santa Maria in Trastevere, Santa Maria Nova, del Sancta Sanctorum», C. Bertelli, La Madonna del Pantheon, in “Bollettino d’Arte” 1961, IV serie, I-II (gennaio), pp. 24-32; per l’interpretazione dell’Hodigitria di Santa Maria ad Martyres nel passaggio dal culto delle reliquie alla venerazione per le icone cfr. pp. 28-29; per il riferimento alla pia tradizione di san Luca pittore di Maria cfr. p. 29.
[21] E. Kitzinger, L’arte bizantina, London 1977, ed. italiana Arnoldo Mondadori Editore, dicembre 1989, p. 166, nota 4.; ma si veda anche M. Andaloro, ibidem, Presentazione, p. XIII, la quale, rilevando «nella polarità dell’ellenismo uno scarto» e citando W. Loerke, recensione a E. Kitzinger, Byzantine Art in the Making, “The Art Bulletin”, 61, 1979, p. 479 e segg., ha offerto un’articolata chiave di lettura dell’ellenismo kitzingeriano come Cantus firmus, sullo sfondo del divenire artistico fra III e VIII secolo verso la sintesi dell’«umanesimo temperato» del tempo di Giustiniano II.
[22] Brown, op. cit. alla nota 18, p. 157.
[23] Ibidem, pp. 165, 168.
[24] D. T. Rice, L’arte bizantina, Thames and Hudson 1963, ed. italiana Firenze, Sansoni editore, pp. 26-27, fig. 16.
[25] Lazarev, op. cit. alla nota 2, p. 70.
[26] Bertelli, cit., alla nota 20, p. 24
[27] Toniolo, in Dizionario…, op. cit. alla nota 5, ad vocem Akatisthos, p. 18.
[28] Ibidem, p. 21.
[29] Ibidem, p. 17.
[30] C. Bertelli, La Madonna di Santa Maria in Trastevere. Storia-Iconografia-Stile di un dipinto romano dell’ottavo secolo, Roma 1961, stampa in 500 esemplari, © C. Bertelli.
[31] Il restauro della Madonna Hodigitria di S. Maria ad Martyres è stato eseguito nel 2024 dalle D.sse Silvana Costa e Susanna Sarmati, con la direzione dell’Architetto Gabriella Musto, Direttrice storica dell’Arte del MIC, che hanno presentato i risultati dell’intervento conservativo il 31 ottobre 2024 nel Pantheon; nella stessa occasione,  lo scrivente ha tenuto la lectio sulla Madonna Hodigitria, che è qui presentata in forma di articolo.
[32] V. Lazarev, op. cit. alla nota 2, p. 21 e segg.
[33] Ibidem, pp. 23-24.
[34] «Le colonie orientali a Roma nel VII secolo furono così numerose da costruirsi proprie chiese e monasteri, nei quali il servizio divino veniva officiato in lingua greca e in cui fu ammesso il canone di San Basilio», Lazarev, op. cit. alla nota 2, p. 69.