di Federica LAZZARINI
“ W la bella Irrealtà.” Osvaldo Licini
Ritrovare nei manuali d’arte menzione di un artista e delle sue opere rappresenta un indiscusso segnale di notorietà. Diviene illuminante altresì riflettere anche su quanto, all’interno di una vasta ed ecclettica produzione, il gesto dell’artista possa risultare inquadrabile nella categoria della riconoscibilità. Questo accade con certezza quando si incontrano le realizzazioni del marchigiano, errante, erotico, eretico Osvaldo Licini (1894-1958). Quando uno stile segue diverse inclinazioni e spunti, rifugge dall’imitazione e si riflette su elaborati molto diversi tra loro, ma mantiene come costanti certe variabili tecniche e segniche, ci si trova di fronte ad una cifra stilistica identitaria che non si dimentica nè disperde.
Una vita errante e di scoperta quella vissuta da Osvaldo Licini, trascorsa tra le Marche, l’Emilia, la Toscana, la Francia e la Svezia, artisticamente segnata dalla partecipazione attiva al duro dibattito parigino che negli anni ‘30 del Novecento infiamma gli scenari astrattisti e surrealisti e dagli incontri fortunati con artisti come Picasso, Kiling e Modigliani, griglie costruttive che l’artista marchigiano abita con trasporto e originale interpretazione e che divengono per lui impulsi alla generazione di un alfabeto individuale che esula dalla mera geometrizzazione, per approdare ad una metamorfosi formale sospinta da un’irrazionalità che fa sorpresa persino a se stesso!
Dopo l’esordio alla Mostra dei Secessionisti nei sotterranei dell’ hotel Baglioni a Bologna (1914), che consegna un Licini che condivide con i compagni Morandi, Pozzati, Bacchelli e Vespignani l’energia dell’europeismo promosso dal futurista Marinetti, sono le Marche e il paese natio Monte Vidon Corrado, ad ispirare una fase che, in ultima analisi, appare forse riduttivo definire figurativa, tante sono le suggestioni ad essa legate e legate a quel nocciolo ispiratore che è il paesaggio, medium ideale tra tutte quelle percezioni poste sempre un po’più al di là dello stesso percepibile.
Non Parigi, non Bologna, non Gotemborg, non Firenze, ma il piccolo cumulo di case immerso nelle colline marchigiane diviene, tra il 1917 e il 1926, l’“immenso” tessuto dove l’artista cuce il nesso indissolubile di figura e paesaggio.
Dopo aver estratto/astratto dal piano del visibile solo certi elementi che, in dipinti come Paesaggio con l’uomo, Paesaggio fantastico (il capro), Servigliano e Marina di Saint -Tropez, diventano indici di alto potenziale di espressività, da buon primitivista, che altresì sfiora la materia simbolica con un velo immaginativo che ha pochi rivali, l’artista marchigiano è attenzionato dalla critica per l’utilizzo del tutto intimistico della facoltà di sintesi.
L’adozione del visibile come soggetto della sua pittura, infatti, diviene operazione concettuale e artistica complessa, il cui esito formale rivela un’intima necessità dell’artista di ridurre il vero e si palesa come elemento non più fedele all’osservazione del reale e al suo immediato riconoscimento.
Quando si parla di sintesi pittorica mi piace pensare che una lente in grado di rimpicciolire, o perché no di ingrandire, proceda gradualmente e della realtà finisca per fermare quel punto ultimo e utile all’artista per innescare l’azione pittorica.
È nella linea che la lente di Licini si ferma, annullando, quasi disconoscendo, ogni elemento altro e consentendo all’occhio di percorrerla, di scalarla, fino a toccare il suo incontro con le masse cromatiche, che insieme ad essa, risultano generatrici delle forme. In quelle linee, spartiacque spaziali, sagome di nuvole, colline e figure, che in tensione percorrono il colore grumoso, energico, urlante e di significato talvolta indiscernibile, risiede tutto il potenziale di un Licini che restituisce una figurazione già inconsapevolmente orientata alla poetica dell’astrattismo, con la sensibile operazione di appiattimento dei volumi in veste di delicato presagio.
Se della realtà e del paesaggio visibile, Licini interpreta la parte residuale, fino a giungere poi alla forma non figurativa, quindi dai paesaggi degli anni ‘20 fino alle opere degli anni ’50, il suo intento citazionistico è sicuramente quello di approdare ai primordi della pittura, aprendosi, così come avviene quando si indaga un contenuto originario, ad un universo simbolico potente, che sembra miracolosamente racchiuso in quel segno ermetico prima e che diverrà poi quello “diversamente astratto e surreale” ritrovabile in Bilico, Castello in aria, Olandese volante color viola, Amalassunta su fondo blu, Marina, Il gentiluomo volante e molti altri.
Una realtà che Osvaldo Licini frantuma per poi ricomporre in nuove visioni, mantenendo in atto nel corso del tempo l’utilizzo di alcuni elementi che egli mette al servizio della sua fuga, corsa, rifugio, scoperta di un universo immaginario del tutto personalistico.
Linee incurvate, talvolta rese in obliqui movimenti, geometriche costruzioni, codici numerici, disposizioni asimmetriche, forme triangolari e sovrapposizioni di corpi sensibili sembrano comparire quasi specularmente nei dipinti liciniani delle prime produzioni e anche in alcuni degli anni più maturi, testimonianza del legame segnico tra le opere; il legame si scorge inoltre nell’immersione quasi obbligata dell’osservatore negli spazi centrali dei dipinti, spazi mentali e pittorici intrisi di colore, unico ospite desiderato e in grado di esercitare una forza centripeta che convintamente permette all’artista di collocare i restanti elementi verso i margini. La porzione maggiore di spazio diventa colore e a margine spuntano o si elevano i personaggi del mondo surreale.
Un cammino artistico di destrutturazione ed edificazione. Il germe della prima ribellione, quello della produzione paesaggistica, produzione certamente grata all’influenza di Cézanne e dei fauvee, che però emana già una nuova e nervosa urgenza espressiva, si mantiene attivo e resistente ad ogni antidoto, anche alla “tradizione astratta”, di cui Licini certo conserva la spiritualità viva di Kandinsky e gli orizzonti di senso di klee, così fortemente palesati nella convinzione che l’arte non debba riprodurre ma rendere visibile.
La pittura di Licini, che attraverso il disegno, pratica dall’alto valore conoscitivo e alleato insostituibile per indagare i terreni dell’invisibile, tocca i tessuti dell’irrealtà e, abbandonati gli ultimi richiami degli oggetti, si apre ad una grammatica astrattista e poi surrealista, grammatiche che portano con sé i frammenti del sensibile incastonati nella stratificazione delle linee e nelle poetiche geometrie, senza più limite alcuno.
“…sono il vostro azzurro Licini, inazzurrato dagli anni trascorsi troppo perdutamente lontano da voi, nelle solitudini troppo immensamente aperte del cuore e dell’anima, al di là di ogni mare, speranza, salvezza eternità […] diventati più leggeri dell’aria, ci solleviamo uniti in cielo, a nostra eterna gloria, proclamando in faccia a Dio e agli uomini l’avvento di una mai veduta, perenne, strepitosa, scintillante, nostra dolcissima irrealtà!” (lettera a Marchiori, 16 settembre, 1952.)
All’irrealtà Licini si appella quasi come se essa rappresentasse un avvento per la sua vita di artista e di uomo e la sua rivelazione può avvenire solo grazie all’adesione totalizzante alla dimensione interiore. Con intenzioni direi singolari Licini in ogni momento è pronto a rimaneggiare i dipinti del passato per “aggiornarli” dei mutamenti della sua anima e delle sue nuove percezioni. Ripensamenti, ritocchi, mutazioni, mutilazioni e nascondimenti rendono talvolta complessa l’operazione di datazione precisa delle sue opere, ma senza dubbio alcuno esse restituiscono una straordinaria e vibrante dinamica, quasi come se i dipinti di tutta la sua produzione continuassero a respirare nel tempo.
Federica LAZZARINI Roma 9 Novembre 2024