L’Arte di insegnare l’Arte. Dario Evola ad About Art: “oggi la sfida per un bravo docente è quella di far capire agli allievi la differenza fra Duchamp, Warhol e Cattelan”.

di Marco FIORAMANTI

L’ARTE DI INSEGNARE L’ARTE

Intervista a Dario Evola di Marco Fioramanti

L’importanza della comunicazione nell’apprendimento dell’arte, il ruolo scientifico della ricerca, il rapporto fra arte e bene culturale, la riforma delle Accademia di Belle Arti. Un esperto del settore affronta i delicati argomenti

1 Dario Evola

Je me souviens Dario Evola tanti anni fa. Era una magnifica sera d’estate, affatto torrida, quella dell’88, quando nel castello di Arech a Salerno si inaugurava la Seconda rassegna d’Arte Elettronica dal titolo Semi di Luce – Insinuazioni di nuove realtà (Idea Project Extrême Jonction, Ermanno Senatore ed Eva Rachele Grassi) e Dario Evola era uno dei relatori di punta – insieme a Mario Costa, Enrico Cocuccioni, Rinaldo Funari e altri – di quella pionieristica esplorazione di nuovi linguaggi.

I primi anni Duemila ci hanno di nuovo fatto incontrare, questa volta a Roma, all’Accademia di Belle Arti di Via di Ripetta, in commissione d’esame: lui/docente di Estetica, io/argomento d’esame (in quanto inserito, come artista, nel manuale di Antropologia culturale in “Primitivi urbani”). Con la saggia raffinatezza che lo distingue, Dario ha accettato l’invito a rispondere ad alcune domande legate all’insegnamento dell’arte ai giorni d’oggi e al rapporto tra arte e cultura.

– Fra le tue ultime pubblicazioni ricordiamo l’introduzione all’edizione italiana Yves de Michaud, Insegnare l’arte? Analisi e riflessioni sull’insegnamento dell’arte nell’epoca postmoderna e contemporanea. Idea, Roma 2010

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R: Mi incuriosì il libro di Michaud, acquistai la prima edizione di Chambon a Parigi nel 1994, cui ne seguì una seconda nel 1999 con aggiornamenti. Michaud, professore di filosofia all’Università di Rouen, direttore dell’Accademia di Belle Arti di Parigi (Académie Nationale Supérieure des Beaux Arts) e incaricato dall’allora Ministro della cultura Jack Lang di riformare l’istruzione artistica in Francia, venne in Italia ospite di Pietro Montani per un incontro al quale egli stesso mi invitò a partecipare. Con Lucia Schettino, sua ex allieva e titolare della casa editrice Idea, che aveva già pubblicato L’arte allo stato gassoso, sempre di Michaud, decidemmo di pubblicare finalmente in Italia Insegnare l’arte? Analisi e riflessioni sull’insegnamento dell’arte nell’epoca postmoderna e contemporanea.

Il libro è sufficientemente provocatorio. Si pone come interrogativo e, filosoficamente, non fornisce risposte banali e precostituite. Si pone il dubbio sullo stato e sulle funzioni dell’insegnamento artistico in una società dove le funzioni dell’arte sembrano assorbite nell’appiattimento conformista del mercato nei meccanismi della comunicazione e nei luoghi comuni dei fautori dello spontaneismo artistico del tipo “siamo tutti artisti” o dei fanatici della “manualità” ottocentesca, quelli che, per intenderci, si vestono da artisti e sequestrano gli allievi per ore a copiare modelli o Michelangeli e Raffaelli. Si tratta di impostazioni che rischiano di creare e di ripetere solo frustrazioni.

– Ma, secondo te, è davvero possibile insegnare a diventare artisti?

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R: Una riflessione particolare sull’insegnamento artistico è auspicabile all’interno delle istituzioni Afam. Oggi l’arte è qualcosa di diverso da un insieme di tecniche. Non si diventa grandi chef seguendo un ricettario, come non si diventa grandi campioni di uno sport con il solo allenamento. Davvero vale quanto ha detto Carmelo Bene: “Il talento fa quel che può, il genio fa quel che vuole!”. Insomma l’insegnamento artistico con è la semplice, ripetitiva, burocratica e noiosa trasmissione di regole, ma neanche di un sapere astratto e neanche una pratica spontanea. Si tratta piuttosto di fornire strumenti interpretativi, dati di conoscenza, interrogativi epistemologici, elementi e saperi critici. Bisogna ricordarsi che le Accademie d’arte nascono in Europa come istituzioni ufficiali nel XVII secolo, e sono la risposta alla logica della bottega medievale e rinascimentale, in un mondo che è cambiato. L’artista che licenziava l’Accademia aveva uno status sociale di gentiluomo, niente a che vedere con il mito dell’artista bestia e ignorante, ma dotato di talento. La cultura, l’approccio scientifico alla funzione dell’arte è sulla spinta della nuova istanza di libertà dalla religione, dal potere. La funzione dell’arte è quella di elevare l’uomo verso una nuova condizione. In questo senso la modernità dell’arte si è orientata verso la funzione progettuale, originale, usando anche la provocazione, nel senso più nobile e autentico del termine, per tutto il Novecento.

– Si, ma ora, negli anni Duemila?

R: Davvero basta fare una passeggiata all’Ikea … Si vedono cose più interessanti e originali che in tutte le noiosissime e costosissime rassegne, affollate da isteriche compulsive, finti mercanti e “curatori”. Oggi il sistema dell’arte vede attori molteplici. Non si tratta più del circuito artista-committente. Le mediazioni oggi sono tante, tutto è legato al sistema della comunicazione, l’arte funziona come il sistema della finanza coi suoi titoli tossici, con un mercato virtuale che spesso nasconde traffici e riciclaggio, costi e valutazioni gonfiate, bolle. Un sistema simile al calciomercato! Non sono escluse le istituzioni museali pubbliche che rispondono supinamente alle imposizioni della finanza internazionale, ai circuiti del collezionismo privato e che si avvalgono di un drappello di eterni giovani “curatori” o dei soliti noti. Vediamo che le mostre meno hanno senso e più producono cataloghi e materiale pubblicitario. Come le partite di calcio, sono dispositivi per la comunicazione pubblicitaria. Tutto ciò produce omologazione, noia, frustrazione.

– E quanta parte di responsabilità hanno i cosiddetti curatori?

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R: Il termine non mi piace, ma come al solito si tratta di una cattiva traduzione, espressione del provincialismo italiano nell’applicare schemi e modelli, anche linguistici, anglosassoni: questi “curatori” o “commissari” spesso non hanno neanche una formazione storica, sono meri esecutori, parte del sistema. Anche la cosiddetta critica sembra appiattita sulla funzione della comunicazione piuttosto che sull’esercizio intellettuale. Non basta farsi stampare biglietti da visita con scritto “storico e critico d’arte”, bisogna aver pubblicato e aver dimostrato il carattere scientifico della ricerca. Insomma, troppo deboli questi curatori per avere persino delle responsabilità! Rimando per questo al testo di Michaud: L’artista e i commissari, Idea 2008.Oggi si è diffusa l’opinione presso gli studenti delle Accademie che quello dell’arte sia un mestiere come un altro. Non è così, proprio perché quello dell’arte non è un mestiere, a meno che non si voglia ridurre la ricerca artistica a una delle tante pratiche omologate. La funzione artistica oggi è trasmigrata, si è vaporizzata nel mondo delle cose, delle funzioni, della comunicazione (v. ancora Michaud ne L’Arte allo stato gassoso, Idea, Roma 2007).

Dopo Duchamp, è acquisito che il ruolo dell’artista è quello di un creativo. Quella di Creativo non è un’etichetta, significa prima di tutto saper porre domande, interrogarsi filosoficamente sul reale, quindi essere capace di pre-figurare mondi possibili. Il moderno sciamano è in fondo questo, e lo vediamo in tutti i campi; Arthur Danto ha spiegato una cosa molto semplice in molte pagine e molti libri: cosa distingue un oggetto artistico da un oggetto “normale”? Ma nient’altro che il processo teorico, etimologicamente lo sguardo, la visione, la capacità di indicare verso qualcosa di altro. È il paradosso delle Brillo Boxes di Warhol e, prima ancora, dei ready made di Duchamp e oggi di Cattelan. Ma oggi la sfida per un bravo docente è quella di far capire agli allievi la differenza fra Duchamp, Warhol e Cattelan che ovviamente non sono solo storiche e cronologiche. Insomma sono trascorsi cento anni esatti dal ready made… Non ha senso fare i nipotini di Duchamp.

-Eppure lo “scandaloso” Duchamp, dalla Fountain al Grand Verre, resta un faro irremovibile nel palcoscenico museale dell’immaginario collettivo dei giovani artisti … Parlando di musei, qual è la tua opinione sugli attuali contenitori d’arte?

R: I musei si sono trasformati in Disneyland. Le “notti bianche” non sono che la parodia della comunicazione. La valorizzazione e la comunicazione delle collezioni e delle mostre non può essere affidata al rumore della comunicazione (che pure in parte è necessaria) ma deve funzionare con una adeguata politica di conoscenza e di divulgazione qualificata. Non è vero che il pubblico dei musei sia una mandria indistinta disposta a ruminare in piedi per ore nelle interminabili file purché paghi il biglietto e compri qualche souvenir.

C’è piuttosto una domanda di conoscenza, che è diversa dall’informazione, alla quale l’attuale sistema museale non è preparato. Bisogna considerare infatti il ruolo dei musei che non sono più soltanto contenitori e che si sono trasformati in giganteschi e costosissimi ripetitori mediatici, dai costi ingiustificabili. Non si tratta di dar ragione alle lamentele “autunnali di Jean Clair, né di richiamarsi ancora a schemi sociologici vecchi di quarant’anni, alla Bourdieu sulla democratizzazione quantitativa del pubblico dell’arte. I musei sono come i frigoriferi, se si stacca la corrente si trasformano in contenitori di roba putrida. I musei vanno riconsiderati come laboratori produttivi della conoscenza, come luoghi di formazione per l’educazione permanente anche attraverso l’apertura serale, con le biblioteche, i centri di documentazione. Un ruolo importante lo possono avere le applicazioni tecnologiche, che oggi sono possibili a costi certamente inferiori rispetto ai costi imposti dai capricci di archistar foraggiate dalla demagogia del politico di turno.

Credo che sarebbe più utile investire sulla formazione e sull’impiego di giovani dotati di strumenti teorico-critici e di attrezzature tecnologiche, per sperimentare una nuova cultura, una nuova fruizione della cultura, non in termini consumistici o di mero intrattenimento. Si potrebbero sperimentare applicazioni cross mediali sulla documentazione degli eventi culturali, sulla loro diffusione e sulla elaborazione possibile, penso alle mostre, agli spettacoli, agli eventi che potrebbero essere registrati ed elaborati usando le nuove tecnologie e le applicazioni in convenzioni con la Rai e col sistema di comunicazione.

Perché, per esempio, non esistono rapporti fra i due servizi pubblici, la rai e le Accademie, intendo anche i Conservatori, l’Accademia di danza, gli Istituti Superiori di Industri Artistiche, per la produzione di programmi culturali, e per la diffusione di programmi culturali? Le scuole potrebbero giocare un ruolo determinante fornendo un sapere creativo e appropriato, ma anche professionalità nuove e motivate. Bisognerebbe connettere i musei, le gallerie alle accademie e alle università in un circuito organico virtuoso e integrato, come scambio e produzione di sapere. Oggi invece le istituzioni si ignorano in modo miope. Bisognerebbe potenziare e incrementare quei tentativi pionieristici di aprire rapporti con le soprintendenze, coi poli museali, con il Ministero dei beni Culturali che pure in qualche caso sono state avviate.

– A proposito, quale rapporto tra arte e bene comune?

R: I beni culturali non possono essere considerati come giacimenti. I giacimenti giacciono, e prima o poi si esauriscono. Questa è una concezione vecchia di almeno trent’anni e ha provocato gli equivoci che abbiamo davanti agli occhi. La cultura non è qualcosa da sfruttare, ma è un bene comune al quale tutti possono accedere, e poi la cultura, in quanto tale è dinamica, non è un pezzo di carbon fossile. Eppure si spendono miliardi per esportare le opere all’estero. Lo ripeto: i musei non possono essere considerati come Disneyland. Sono un’altra cosa! Si possono prefigurare usi creativi del museo e delle collezioni grazie alle tecnologie (Studio Azzurro è un esempio molto interessante di ricerca creativa e di progettualità innovativa con i musei di narrazione). In Italia quattro/cinque musei sono invasi da visitatori “mordi-e-fuggi”, ma il vero diffuso culturale è ignorato o peggio abbandonato e distrutto. Si possono pre-figurare interventi di artisti nei musei (mi riferisco per esempio a Toni Muntadas che col progetto On Translation indaga sul rapporto fra uso del museo e comunicazione con installazioni interattive e processuali al Reina Sofia di Madrid). In fondo, già nel 1927 Alexander Dorner, poco più che ventenne direttore del museo di Hannover, aveva chiamato El Lissitskij ad allestire le sale dell’astrattismo. La migliore tutela del patrimonio artistico è la sua conoscenza e la sua diffusione. Le scuole in questo senso hanno un ruolo determinante e un futuro straordinario in termini di sbocchi occupazionali, siamo in Italia.

– Ma a che punto siamo con la riforma delle Accademie di Belle Arti?

R: La legge 508 del 1999 prefigurava una equiparazione del sistema dell’Alta Formazione Artistica con quello universitario. Sono trascorsi tanti anni e ancora non ne siamo a capo! Nel frattempo, in. compenso, abbiamo ereditato gli schemi già obsoleti e i difetti del sistema universitario, come per esempio il famigerato percorso “tre più due”, che è già ampiamente in discussione, e la moltiplicazione indiscriminata di corsi e insegnamenti a fini ingiustificati dal punto di vista artistico., culturale, scientifico e professionale, ma comprensibile su quello delle clientele… Un modo molto italiano! Mentre l’università comincia a delimitare i percorsi e a razionalizzare l’offerta formativa, le accademie fanno il contrario, continuando a istituire corsi e insegnamenti su basi non giustificate né dal mercato del lavoro né tantomeno dal punto di vista scientifico. L’aggiornamento tecnologico è spesso solo sulla carta, e gli insegnamenti tradizionali languono in via di esaurimento: allo stato attuale le accademie sembrano giustificarsi solo come centri di spesa del Ministero o come ammortizzatori sociali. Inspiegabilmente, da parte dei governi e dei ministri di diverso orientamento succedutisi in questi anni, non c’è stata la volontà politica di attuare la riforma. Da parte degli organi preposti non sono arrivate indicazioni chiare per i regolamenti attuativi, almeno in una tempistica ragionevole e si è preferito temporeggiare lasciando peggiorare la situazione. I sindacati stanno cercando di sopperire al ruolo di pianificazione e di orientamento sull’applicazione della riforma che spetterebbe agli organi ministeriali. A peggiorare la situazione assistiamo oggi a una incredibile burocratizzazione degli organi di governo e di amministrazione delle singole istituzioni. Le facoltà universitarie hanno già istituito insegnamenti e specializzazioni che vanno al di là della originaria impostazione storicistica.

La specificità tipica delle Accademie di Belle Arti italiane, che non hanno ancora raggiunto l’obiettivo della piena attuazione della riforma universitaria in senso europeo, è fondata sul fare come sapere, sulla ricerca artistica e sulla capacità di formare e di comunicare sapere e produzione artistica. Se si riflette bene è stata proprio questa capacità di coniugare ricerca artistica e ricerca tecnologica la caratteristica di quell’età dell’oro del mitico made in Italy (estetica, produzione, comunicazione, ricerca) sulla quale ancora sopravviviamo di rendita! Le nostre istituzioni dell’Alta Formazione Artistica e Musicale dovrebbero interrogarsi sulla missione formativa in un mondo globalizzato e alla ricerca di nuove identità dopo il rimescolamento ideologico del postmodernismo. Non vorrei essere scaramantico, forse oggi siamo davanti a un passo importante. Si è ottenuta una equiparazione di titoli per gli allievi, esiste il Ddl 4822 sulla valorizzazione del sistema Afam che prefigura i politecnici delle arti e comunque un inserimento nel sistema universitario. È necessario ridefinire l’ordinamento della docenza e dei sistemi di governo, come è anche importante che nel sistema di valutazione dell’Anvur sia contemplata anche l’Afam. Insomma, speriamo vivamente di vedere in tempi ragionevoli una possibile riforma che serva a far uscire queste prestigiose istituzioni dal degrado e dall’estinzione alle quali sarebbero destinate se lasciate alla ingovernabilità, nel rispetto dell’articolo 33 della nostra Costituzione. In un paese come l’Italia è proprio la cultura a creare ricchezza e occupazione.

(da “Articolo 33” n. 9-10/2012)

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Dario Evola insegna Estetica presso l’Accademia di Belle Arti di Roma. Nasce a Palermo nel 1958, da giovanissimo, ai tempi del liceo, cresce nel clima vivacissimo palermitano con gli scrittori del Gruppo 63 come Gaetano Testa, il Teatro Libero, i cineclub, collabora nel 1976 alla prima radio libera, si trasferisce a Bologna dove si laurea nel 1981 con Fabrizio Cruciani con una tesi sul teatro di poesia inglese degli anni Trenta (Auden, Spender, Isherwood). Conosce a Cambridge, durante le ricerche, Raymond Williams e Michael Sidnell. Dopo la laurea torna a Palermo e collabora al quotidiano L’Ora e alla Rai per i servizi culturali. Collabora con la Cattedra di Storia dello Spettacolo con Renato Tomasino e Beppe Bartolucci, con l’Arci, per il Premio Mondello, lavora al Teatro Biondo, con Piero Carriglio e Franco Scaldati, stringe un lungo sodalizio con i protagonisti della sperimentazione teatrale degli anni Ottanta, Gaia Scienza, Falso Movimento, Krypton, Magazzini Criminali ecc. Vince il concorso per il primo ciclo del dottorato di ricerca in Discipline dello Spettacolo nel 1983 e si trasferisce a Roma per lavorare alla “Sapienza” al Dipartimento di Spettacolo di Guido Aristarco e Ferruccio Marotti. Consegue il dottorato con una tesi su L’utopia propositiva di Vito Pandolfi, teatro cinema televisione in Italia dagli anni Trenta agli Anni Cinquanta pubblicata da Bulzoni nel 1991. Partecipa alla ricerca teatrale e si interessa della ricerca intermediale fra teatro, arti visive e sperimentazione elettronica, stringe un sodalizio con Gene Youngblood e Steina Wasulka, Mario Sasso e altri protagonisti storici. Partecipa al dibattito e alle attività della nuova sperimentazione con interventi e convegni, laboratori con varie pubblicazioni, mostre ecc. Insegna nelle Accademie di Belle Arti di Viterbo, Macerata, Firenze e Roma. Insegna per sette anni Storia dell’arte contemporanea alla Facoltà di Scienza della Comunicazione de “La Sapienza”. Collabora con i progetti di ricerca dell’Ateneo di Roma con Giuseppe Di Giacomo, è membro della Società Italiana di Estetica come referente per le Accademie di Belle Arti. Ha organizzato mostre ed eventi culturali a livello internazionale, ha collaborato a vari quotidiani e riviste specializzate, ha pubblicato saggi sul teatro, il cinema, le arti, i rapporti con le nuove tecnologie, e l’Estetica.

Marco FIORAMANTI Roma 17 Novembre 2024