di Nica FIORI
L’immagine più conosciuta dell’Umbria è certamente quella medievale, ma dai ritrovamenti archeologici del suo territorio ci rendiamo conto della grande importanza della cultura etrusca in questa regione, e non solo in città notoriamente etrusche come Perugia o Orvieto. Anche il Comune di Città della Pieve, l’affascinante borgo fortificato (in provincia di Perugia) che ha dato i natali al Perugino, si sta rivelando ricco di testimonianze di carattere funerario di quel popolo italico che, secondo Tito Livio, era più di ogni altro dedito alla religione e alla sua pratica.
Il recente ritrovamento di otto urne cinerarie, due sarcofagi e un corredo tombale, riemersi dal suo territorio, porta alla ribalta anche il ruolo tutt’altro che marginale delle donne nella società etrusca, visto che avevano gli stessi onori riservati agli uomini. Le urne più belle sono, in effetti, quelle di due aristocratiche, che si sono fatte riprodurre con i loro monili d’oro, dei riccioli civettuoli all’altezza delle orecchie e le labbra rosse che richiamano la vita, più che la morte: sensazione questa accentuata dalla serenità degli occhi e della fronte. Il riposo eterno di queste donne, vissute nel III secolo a.C., e di altri componenti della loro famiglia è stato interrotto bruscamente dall’avidità degli uomini, ma, per fortuna, quello che era uno scavo clandestino è stato scoperto e i manufatti, che rischiavano di essere illegalmente venduti ad acquirenti privi di scrupoli, entreranno a far parte del nostro patrimonio culturale (presumibilmente in un museo umbro), dopo una necessaria fase di studio e restauro.
Il merito dell’operazione che ha permesso di recuperare questi importanti reperti va alla Sezione Archeologia del Reparto Operativo TPC (Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale), che nello scorso mese di aprile ha avviato un’indagine a seguito dell’acquisizione di fotografie di urne cinerarie con personaggi semisdraiati, tipici della cultura etrusca, che circolavano sul web, evidentemente indirizzate al mercato illecito dell’arte.
Voglio sottolineare il termine “illecito”, perché, in base a una normativa che risale al 1909, tutto ciò che si trova nel sottosuolo italiano appartiene allo Stato, mentre al proprietario del terreno dove avviene il rinvenimento, che deve essere subito denunciato alla Soprintendenza territoriale (o, in alternativa, al Comune o ai Carabinieri), spetta un premio di rinvenimento, valutato generalmente a un quarto del valore commerciale di ciò che è stato trovato, ma che può arrivare fino a un massimo del 50%.
Purtroppo il fascino dei reperti antichi è tale da indurre i collezionisti a sborsare qualunque cifra pur di averli. Lo sanno bene i cosiddetti “tombaroli”, che sui rinvenimenti archeologi clandestini hanno fatto la loro fortuna, ma grazie all’operato del TPC, che combatte dal 1969 questo tipo di reato, costringendo anche i musei stranieri alla restituzione di capolavori acquisiti negli anni passati, non è più facile come un tempo piazzare i reperti più prestigiosi sul mercato illecito dell’arte, perché gli oggetti sono facilmente riconoscibili e sia il venditore che l’acquirente rischiano molto.
Questa volta è andata decisamente bene allo Stato e male ai “tombaroli”. Servendosi della collaborazione di un docente dell’Università di Roma Tor Vergata e del supporto specializzato della Direzione Generale Archeologia Belle Arti e Paesaggio e della Soprintendenza dell’Umbria, i Carabinieri sono riusciti a focalizzare l’attenzione su un rinvenimento fortuito, avvenuto nel 2015 e regolarmente denunciato a Città della Pieve, dove un contadino, durante lavori di aratura del terreno, si era imbattuto in un ipogeo etrusco. In quel caso furono rinvenuti alcuni reperti (urne e sarcofagi) riconducibili alla gens Pulfna, il cui medesimo patronimico era presente proprio su alcune delle urne raffigurate nelle fotografie apparse sul web.
Le indagini sono state indirizzate, pertanto, nei luoghi limitrofi a quell’ipogeo, al fine di accertare se fossero state violate di recente delle tombe. Valutata la necessità da parte dei “tombaroli” di dover disporre di adeguate attrezzature e mezzi meccanici per il recupero clandestino e il trasporto di urne e sarcofagi lapidei (indubbiamente molto pesanti), i Carabinieri hanno incentrato l’interesse investigativo su un imprenditore locale, titolare di una società in grado di svolgere quel tipo di movimentazione e che possiede, tra l’altro, terreni adiacenti a quelli nei quali era stato scoperto nel 2015 l’ipogeo dei Pulfna.
Le attività investigative hanno consentito di individuare la presenza dei reperti all’interno di un’area ben delimitata e, nel corso di una perquisizione, sono state scoperte proprio le urne riprodotte nelle fotografie che avevano dato l’input all’indagine. Inoltre, utilizzando anche gli elementi topografici acquisiti dall’uso di un drone, i militari TPC hanno potuto individuare con precisione il sito di scavo, un ipogeo costituito da due piccole camere.
I reperti recuperati, presentati alla stampa a Roma nella Caserma La Marmora, alla presenza del Ministro della Cultura Alessandro Giuli, sono di ottima fattura e “d’inestimabile valore” (anche se qualcuno ha accennato a 8 milioni di euro), come giustamente è stato ribadito nel corso della presentazione, perché non si può dare un prezzo alle memorie del nostro passato. Un passato che ci ricorda come l’arte e la bellezza hanno accompagnato la nostra civiltà per millenni, parlandoci in questo caso di miti relativi ad antiche guerre e del rapporto degli Etruschi con la morte.
Le urne lapidee, delle quali alcune molto ben conservate, sono in travertino bianco umbro e in alabastro; risalgono al III secolo a.C. e sono state realizzate probabilmente da una bottega di Chiusi (provincia di Siena). Sono caratterizzate dalla figura del defunto (o defunta) adagiata sul coperchio alla maniera etrusca con una patera in mano e dalla raffigurazione ad altorilievo – nella lastra anteriore del contenitore – di scene di battaglie, di caccia e fregi, che denotano una profonda conoscenza da parte degli Etruschi della mitologia greca. L’urna di un’aristocratica, raffigurata con una sorta di grande collana sul busto, un bracciale, un anello e una coroncina sul capo, che conservano in parte il rivestimento originario a foglia d’oro, presenta tracce di altri pigmenti nel resto del corpo, in particolare il rosso delle labbra, cui ho precedentemente accennato, e il nero delle iridi e dei capelli. Nella parte istoriata dell’urna è scolpita la scena relativa alla caccia del cinghiale caledonio, colpito da Meleagro, mentre altri personaggi, tra cui Atalanta che aveva precedentemente ferito l’animale, assistono alla scena.
L’altra prestigiosa urna femminile presenta pure una cruenta scena mitica sulla lastra anteriore, relativa all’agguato di Achille a Troilo (uno dei figli di Priamo), raffigurato nel momento in cui è già stato decapitato da Achille.
Altre scene eroiche, presenti in altre urne, sono relative al mito tebano di Eteocle e Polinice e all’eroe Echetlo che interviene nella battaglia di Maratona, a sostegno degli Ateniesi, usando come arma un aratro.
Tra le altre urne, una poggia su una base con due sfingi laterali, mentre un’altra presenta un decoro con una testa di Gorgone al centro e la scritta in etrusco sul bordo del coperchio.
Un preliminare studio scientifico delle urne, redatto dai funzionari archeologi del Ministero della Cultura, conferma l’appartenenza dei beni a un unico contesto funerario, riconducibile all’importante famiglia dei PULFNA. Particolarmente ricco è anche il corredo funebre comprendente vasellame e suppellettili fittili e metallici, tra cui quattro specchi in bronzo, uno dei quali con l’antica divinizzazione di Roma, con la lupa che allatta un solo puer (Romolo), alla presenza di alcune divinità. Si tratta in questo caso di un oggetto del IV secolo a.C., antecedente alla tomba femminile del III a.C.: probabilmente un oggetto di famiglia al quale la defunta era particolarmente legata e come tale inserito nel corredo della donna. Tra gli oggetti rinvenuti vi sono pure un balsamario con tracce organiche del profumo utilizzato in antichità, un pettine in osso, situlae (contenitori cilindrici) e oinochoe (brocche) in bronzo, comunemente utilizzati dalle donne etrusche durante banchetti e simposi.
Completano l’insieme dei rinvenimenti due sarcofagi, dei quali uno conserva solo la lastra di copertura, mentre l’altro, con il nome della defunta, ha al suo interno lo scheletro della donna, che doveva essere sui 40-45 anni.
L’operazione di recupero di questi reperti è considerata dagli esperti uno dei più importanti recuperi di manufatti etruschi mai realizzato nel corso di un’azione investigativa. La riferibilità delle urne e di un intero corredo a un unico ipogeo è certamente uno straordinario traguardo scientifico per il mondo archeologico. Un’opera d’arte di epoca antica va ammirata, infatti, non solo per la sua intrinseca bellezza, ma anche perché è lo specchio di un ambiente culturale e storico particolare, cosa che in questo caso sarà possibile studiare, mentre altre volte, purtroppo, non è stato possibile risalire al luogo del rinvenimento.
Nica FIORI Roma 24 Novembre 2024