“Concordi Lumine Maior”. Arte e poesia unite nel nome di Giovan Battista Marino nella grande mostra alla Galleria Borghese.

di Luca CALENNE

Giunti ormai in vista del quarto centenario della sua morte (avvenuta a Napoli il 25 marzo 1625) la mostra tanto attesa su Giovan Battista Marino e le arti figurative è stata inaugurata questa settimana nelle sale della Galleria Borghese [fig. 1].

1 Prima sala della mostra alla Galleria Borghese.

Il titolo dell’esposizione Poesia e pittura nel Seicento. Giovan Battista Marino e la «meravigliosa» passione, non è solamente un omaggio al gusto barocco per la meraviglia, canonizzato dallo stesso Marino in due celebri versi della sua Fischiata XXXIIIE’ del poeta il fin la meraviglia, […] chi non sa far stupir, vada alla striglia!») ma vuole anche ricordare Giorgio Fulco, uno dei massimi esegeti dell’opera mariniana. La grande attenzione che oggi i critici letterari e gli storici dell’arte stanno riversando sugli scritti mariniani può considerarsi un giusto risarcimento verso il poeta più rappresentativo del Seicento italiano, dopo oltre due secoli di svalutazione per motivi extra-artistici; come ha scritto Giovanni Pozzi nel 1973, quando la riscoperta di Marino era appena iniziata:

«Dietro l’ambiguità del Croce, la sordità del De Sanctis, l’animosità del Muratori, del Quadrio e del Tiraboschi, vi erano innanzitutto profonde ragioni, di volta in volta, politiche, nazionalistiche, anticlericali, letterarie e morali».

In verità, la stessa ubicazione della mostra potrebbe considerarsi una sorta di beffardo contrappasso, perché il padrone di casa – ossia il cardinale Scipione Borghese – osteggiò apertamente il poeta partenopeo, che era un protegé dell’odiato cardinale Pietro Aldobrandini; Scipione, per giunta, aveva al suo servizio il suo acerrimo avversario Ferrante Carli. Tuttavia, la stessa bruciante passione per l’arte accomunava Marino e il cardinale, come opportunamente hanno scritto Emilio Russo, Patrizia Tosini e Andrea Zezza, ossia i tre affiatati curatori della mostra, insieme a Beatrice Tomei; a loro si deve pure un denso volume edito dall’«Erma» di Bretschneider, del quale la mostra può dirsi quasi un prolungamento.

Ciò detto, sarebbe stato logico trovare nella prima sala il sonetto che Marino nel 1605 dedicò a Scipione, che è corredato anche da un’incisione che raffigura il ritratto del prelato. In verità, né questo omaggio poetico, né la successiva iperbolica dedica allo zio Paolo V delle Dicerie Sacre, mitigarono l’ostilità dei Borghese nei confronti del poeta napoletano, anzi furono proprio loro a mettere in moto l’Inquisizione Romana contro di lui. La stampa con il sonetto sarebbe stata quindi un viatico di primo ordine per la mostra, ma è molto rara, e forse non si è riuscito ad averla in prestito.

Al suo posto, ad aprire l’esposizione sono stati convocati due straordinari quadri, esposti uno accanto all’altro. Il primo è il ritratto di Marino dipinto da Franz Pourbus il giovane, sicuramente il più rappresentativo dei «mille e più ritratti» che il poeta – con la solita sfacciataggine –  diceva che gli erano stati «fatti» [fig. 2]. Nel Seicento ben pochi letterati hanno potuto vantare tanta consapevolezza del prestigio raggiunto come Marino in questo ritratto, dipinto intorno al 1620, durante il soggiorno parigino, nel quale è rappresentato mentre si trastulla con l’onorificenza dell’Ordine cavalleresco di Santi Maurizio e Lazzaro che ha appesa al collo, e indica sornione il dorso di un libro.

2 Frans Pourbus il giovane, Ritratto di Giovan Battista Marino, Detroit Institute of Arts

Il secondo è invece l’Allegoria della pittura e della poesia di Francesco Furini [fig. 3], un’opera che Marino non ha potuto vedere (risale al 1626) ma che avrebbe senza dubbio apprezzato sia per lo stile, sia soprattutto per il soggetto, raffigurando quell’abbraccio tra poesia e pittura che caratterizza tutte le sue opere maggiori, a cominciare dalla Galeria (1619) per passare ovviamente a L’Adone (1623).

Francesco Furini, Allegoria della pittura e della poesia, Firenze, Galleria Palatina e Appartamenti Reali

Il cartiglio che accompagna le allegorie delle due arti recita «Concordi Lumine Maior», che potrebbe valere come motto di tutta la mostra [fig. 4].

4 Francesco Furini, Allegoria della pittura e della poesia, part. del cartiglio

Come era già chiaro a Giuliano Briganti, il gusto collezionistico di Marino – così come emerge dagli artisti citati nella Galeria e nel suo ricco epistolario – non può dirsi moderno come la sua poesia, poiché era legato ancora al tardo manierismo, con particolare predilezione per gli artisti dell’Italia Settentrionale. In questo senso, la scelta delle opere esposte può dirsi azzeccata e felice, anche perché permette di offrire in visione al grande pubblico maestri che meriterebbero più attenzione, come i genovesi Luca Cambiaso e Giovanni Battista Paggi, e il veneziano Palma il Giovane, tutti adorati da Marino, insieme ovviamente ad alcuni capolavori del museo, come la Danae di Correggio.

Al confronto, ben poche tracce ha lasciato la pittura di Annibale Carracci e dei suoi allievi negli scritti mariniani: è come se la visione della Galleria Farnese lo abbia ammutolito, sia forse perché vide lì realizzata mirabilmente in pittura quella serie di storie di soggetto erotico-mitologico che lui agognava di tradurre in idilli e ottave (e possiamo immaginare come ne rimase ferito il suo orgoglio di poeta), sia pure perché quel ciclo straordinario di affreschi si trovava in casa dei Farnese, a quel tempo imparentati ma non amici degli Aldobrandini (Zapperi docet) e quindi non era il caso di magnificarlo apertamente per non contrariare il suo padrone.

Giusto quindi che a ricordare l’incontro con la Galleria Farnese sia solo il quadretto che riproduce gli amori di Giove con Giunone. Una maggiore confidenza la ebbe con Ludovico Carracci, tanto da invitarlo in una lettera ad essere un poco più audace nel disegnare il nudo femminile. Ludovico, però, è più evocato che presente in mostra, perché la paternità dell’Arianna è quanto meno dubbia. A detta di Bellori e di altri scrittori, Marino fu invece «amicissimo» del Caravaggio, del quale il  napoletano non solo ha lodato le opere e deplorato la morte con accenti simili a quelli dettati da Bembo per la tomba di RaffaelloFecer crudel congiura / Michele, a’ danni tuoi, Morte e Natura. / Quella restar temea / Dalla tua mano in ogni immagin vinta»), ma possedeva pure alcuni dipinti. In verità i contorni di questo rapporto rimangono ancora poco chiari, e la mostra purtroppo non offre grandi spunti di riflessione su questo argomento.

Non sono molti i disegni in mostra, ma sono ben scelti, a cominciare da quelli raffinatissimi del Cavalier d’Arpino, sodale del poeta fin dal pontificato Aldobrandini, filofrancese fino al midollo come lui e membro parimenti dell’Accademia degli Umoristi (che fu la roccaforte del marinismo romano), per passare a quelli più corsivi di Ludovico Cardi detto il Cigoli, amico di Galileo, i quali permettono di rievocare l’epocale scambio di libri tra lo scienziato e il poeta, al quale il linceo Francesco Stelluti nel novembre del 1623 consegnò una copia fresca di stampa del Saggiatore, a mo’ di ringraziamento per il cammeo riservato allo scienziato, «novello Endimione», nel canto X dell’Adone.

Un capitolo a parte è dedicato a Nicolas Poussin, che fu scoperto a Parigi da Marino e condotto da lui a Roma dopo l’elezione di Gregorio XV Ludovisi: il pittore è rappresentato in mostra da ben sette quadri [fig. 5], tra cui una sorprendente opera giovanile, La morte di Chione.

5 Una sala della mostra al piano nobile della Galleria Borghese dove sono opere di Nicolas Poussin.

Probabilmente Marino se ne voleva servire come illustratore dei suoi versi, come provano le fantasiette che si conservano a Windsor, ma non sappiamo con sicurezza per quale progetto. Considerato il debito che Poussin contrasse con Marino, è più che probabile che sia proprio quest’ultimo il poeta laureato in bella vista nel quadro del Parnaso prestato dal Museo del Prado, come hanno proposto Erwin Panofsky e Marc Fumaroli.

È da segnalare però la pesante assenza in mostra del pressoché coevo Trionfo di Ovidio della Galleria Corsini, che è esposto – invero senza una particolare ragione – nella mostra del Guercino alle Scuderie del Quirinale. Anche se l’attribuzione di questo quadro a Poussin non sembra più essere indiscutibile (sebbene l’abbia proposta Jacques Thuillier) la tela può continuare ad essere accostata al letterato napoletano, che poteva ben dirsi la reincarnazione del poeta latino («il napoletano Ovidio», come scrisse il suo concittadino Lorenzo Crasso), tanto più che vari studiosi hanno sospettato che il quadro nasconda un suo cripto-ritratto.

Accanto alle opere di Ovidio, l’altro grande modello di Marino fu certamente la raccolta di ekphráseis di Filostrato, le Eikónes, di cui volle ricalcare le orme nella sua Galeria. A dimostrazione di ciò, molte opere in mostra sono opportunamente corredate dai versi del poeta napoletano, in un rispecchiamento continuo tra poesia e arte figurativa, che trova la sua più plastica realizzazione nel confronto tra il busto di San Pietro dello scultore lorenese Nicolas Cordier e il madrigale dedicato a una statua dello stesso artista raffigurante San Pietro piangente, che forse è la stessa opera. D’altra parte, l’identificazione delle opere a cui fa riferimento Marino è sempre problematica, e talvolta si può persino dubitare della loro esistenza; del resto, al poeta della Galeria interessa l’elemento encomiastico in misura anche maggiore di quello ecfrastico.

In questo gioco di specchi sono coinvolti naturalmente pure i grandi gruppi berniniani. Il dialogo a distanza – sempre nel segno di Ovidio – tra i versi di Marino e le sculture di Bernini varrebbe da solo la mostra, ma poteva essere maggiormente sviluppato, ad esempio includendo un riferimento al noto distico di Maffeo Barberini sul piedistallo di Apollo e Dafne che salvò questa favola erotica di marmo dai censori ecclesiastici (come ha illustrato Tomaso Montanari), mentre a nulla valse la clausola «smoderato piacer termina in doglia» inserita da Marino nel primo canto dell’Adone per proteggere il suo poema dalle persecuzioni dell’invidioso Maffeo, divenuto nel frattempo papa con il nome di Urbano VIII.

6 Alessandro Turchi, l’Orbetto, Adone morente tra le braccia di Venere, Londra. coll. David Jaffé

Maffeo era il fautore di una poesia latina casta e moraleggiante (tanto che Campanella per compiacerlo lo chiamava «Davidicus poeta»!), e pur non avendo lo spessore letterario di Marino, non poteva sopportare di essere secondo a lui, né ad altri. C’è da dire però che L’Adone era incorreggibile, e che la rappresentazione della morte del giovane cacciatore nelle braccia di Venere finiva inevitabilmente per ricalcare l’iconografia della Pietà, come dimostra alla perfezione il quadro di Alessandro Turchi, detto l’Orbetto (altro amico del Marino) [fig. 6], esposto sotto la volta che fu affrescata dal Lanfranco, oppure i due quadri oblunghi di Poussin che si fronteggiano nel camerino adiacente dove di solito si ammira il Savoldo.

Indubbiamente, la commistione tra sacro e profano ha sempre tentato Marino: non aveva tutti i torti Tommaso Stigliani, ex amico e poi nemico giurato del poeta partenopeo, quando diceva che egli non sapeva «entrare in chiasso senza passar per la sagrestia». Il sincretismo religioso di Marino, il suo irenismo che sovvertiva non solo il genere dell’epica cavalleresca ma anche la scala valoriale su cui si fondava la nobiltà (L’Adone fu salutato come «un poema di pace»), agli occhi dei censori ecclesiastici erano anche più pericolosi della sensualità dei suoi versi.

Come è noto, Marino dovette lasciare per sempre Roma, e L’Adone nel 1624 fu messo all’Indice. Il poeta provò a riscattarsi, riprendendo in mano un vecchio progetto, La strage degli innocenti, ma la morte gli impedì di perfezionarlo, cosicché il poema sacro uscì postumo nel 1632. Nella sezione della mostra dedicata a questa opera mariniana spicca il quadro di Pietro Testa, convocato qui a sostituire quello più celebre di Guido Reni, che solitamente è associato ad essa.

I saggi contenuti nel catalogo – edito da Officina Libraria – rispecchiano perfettamente le sezioni della mostra, e non dedicano spazio alla successiva fortuna iconografica di Giovan Battista Marino, né alla sua sfortuna editoriale: perciò sopporto con pazienza che il mio volume sull’unico ciclo pittorico oggi noto che illustra i canti dell’Adone sia citato una sola volta – e di sfuggita –  in una nota. Il catalogo ha un punto di forza non scontato nelle schede, che sono accurate e documentate (su tutte segnalo quella di Stefania Mason su L’allegoria amorosa con Venere e Adone di Palma il Giovane, con un pregevole approfondimento sull’inserto della musca depicta, e quella di Mickaël Szanto sullo straordinario Il regno di Flora).

Insomma, una mostra bellissima e immancabile, sia per gli specialisti che per il grande pubblico, ma che ho lasciato lunedì sera con qualche perplessità. Ad esempio, molti quadri sono esposti troppo in alto. È chiaro che esporre delle tele –  anche solo di medie dimensioni – all’interno della Galleria Borghese è difficile, perché non ci sono ampie superfici disponibili, ma alcune opere sono decisamente troppo lontane per essere apprezzate: penso soprattutto alla Susanna con i vecchioni del Cavalier d’Arpino o all’intenso quadro raffigurante la Morte di Giacinto attribuito, non senza ragioni, a Valentin de Boulogne. Nelle quadrerie del Seicento non valevano ovviamente questi scrupoli, ma oggi in una mostra ci si aspetta di potere esaminare un’opera da vicino, soprattutto se è conservata in un museo straniero, come i due quadri sopra citati.

Mi ha stupito inoltre la totale assenza di un manoscritto vergato dalla penna di Marino, magari proprio una delle tante lettere indirizzate agli artisti che ammirava, un’assenza piuttosto inspiegabile per uno che di mestiere faceva lo scrittore! Non si tratta ovviamente di esporre un feticcio o un cimelio, né di rischiare di sciupare quelle preziose carte facendo prendere loro troppa luce (esiste comunque la tecnologia per evitarlo) ma di offrire al visitatore un’informazione in più, poiché nella calligrafia di un autore rimane sempre impigliato qualcosa della sua personalità, e la dinamica grafia di Marino – per non parlare della sua prosa – restituisce qualcosa della sua vulcanica attività.

L’ultimo appunto riguarda invece le teche che contenevano le opere a stampa del poeta partenopeo: il volumetto della Biblioteca Nazionale di Roma (collocazione 6.21.G.12.2) che contiene le Rime di Marino è aperto sul frontespizio della coeva raccolta di Giovan Battista Guarini, che è rilegata insieme, senza però addurre spiegazioni nella relativa didascalia.  [fig. 7, fig. 8].

7 Giovan Battista Guarino, Rime, Venezia 1602.
8 Didascalia in mostra relativa al libro di Guarini.

Forse un personaggio del calibro di Giovan Battista Marino meritava qualche cura in più.

Luca CALENNE  Roma 24 Novembre 2024