di Claudia RENZI
DA CARAVAGGIO A LEONARDO, QUEL MINIMO SEGNO DI CARBONE*
“O tu, componitore delle istorie, non membrificare con terminati lineamenti le membrificazioni d’esse historie, che t’interverrà come a molti e vari pittori intervenir suole che ogni minimo segno di carbone sia valido. E questi tali ponno bene acquistare ricchezze ma non laude della loro arte, perché molte sono le volte che l’animale figurato non ha i moti delle membra appropriati al moto mentale, ed avendo egli [il pittore] fatta bella e grata membrificazione ben finita, gli parrà cosa ingiuriosa a trasmutare esse membra più alte o più basse, o più indietro che innanzi. E questi tali non sono meritevoli di alcuna laude nella scienza [pittura]. Or non hai tu mai considerato poeti componitori de’ loro versi, ai quali non da noia il fare bella lettera, né si curano di cancellare alcuni di essi versi, rifacendoli migliori? Adunque, pittore, componi grossamente le membra delle tue figure, e attendi prima ai movimenti appropriati agli accidenti mentali degli animali componitori dell’historia che alla bellezza e bontà delle loro membra. Perché tu hai a intendere che, se tal componimento inculto ti riuscirà appropriato alla sua invenzione, tanto maggiormente satisfarà, essendo poi ornato della perfezione appropriata a tutte le sue parti”[i].
Leonardo, pur essendo sostanzialmente un autodidatta (approdò infatti alla bottega di Verrocchio a quasi 18 anni e la lasciò ben oltre l’età nella quale generalmente i colleghi erano già professionisti autonomi), non mancò mai di rimarcare quanta importanza avesse il disegno per un artista. Dato per scontato che il talento è innato (“La pittura non si insegna a chi Natura nol concede” scrive infatti il sommo, sempre nel Trattato[ii]) esso va però necessariamente coltivato. La pratica del disegno, imprescindibile, deve essere il più possibile costante, ed è la base di tutta l’arte: dall’architettura alla scultura, alla pittura.
Leonardo raccomanda di non essere superbi, di non pretendere che ogni minimo segno di carbone sia valido, men che meno alla prima, e non solo contempla, ma perfino caldeggia, i ripensamenti e le correzioni. Il valido pittore non si deve accontentare della bella forma fissata in un primo momento (bella e grata membrificazione ben finita) se essa non rivela davvero il concetto (il “moto mentale”) che l’artista intende far esprimere al personaggio, e perciò egli non deve temere di “forzare” un po’ la mano, correggendo il proprio lavoro in corso d’opera, quando cioè magari ha già riportato il disegno sulla tela (o sulla tavola) e messo mano dunque al dipinto vero e proprio.
Leonardo suggerisce a tal proposito che il primo approccio al disegno sia generale, schizzato: “componi grossamente le membra delle tue figure”, vale a dire, non essere esasperatamente preciso o rifinito nel tratto, giacché quando andrai a colorare il disegno potresti avere (quasi sempre) sorprese e il risultato che nella mente era tanto chiaro e semplice si può rivelare insoddisfacente se non deludente. Dunque, il pittore deve prima di tutto decidere il tema, che cosa vuole esprimere, e poi, soltanto dopo aver buttato giù l’idea, può andare via via perfezionandola ricamandovi sopra dettagli, dal generale al particolare.
È pacifico, per chi disegna e dipinge, che Caravaggio sapesse disegnare. Non lo attesta soltanto la sua canonica educazione, ma anche l’ovvietà: nessun pittore figurativo può giungere a tale livello di realismo se non ha pratica del disegno. Troppo spesso critici che non disegnano né dipingono hanno però levato uno scudo a tale ipotesi, impuntandosi sulle parole non sempre oggettive di altri critici più o meno, se non per nulla, informati dei fatti intenti a costruire il “personaggio” Caravaggio quasi che a distinguerlo dai colleghi non bastasse l’eccezionale talento ma servisse una stramberia di più: di fatto l’idea, tutta moderna, del pittore ribelle e maledetto insofferente alle regole che se ne frega di convenzioni e tradizioni e crea capolavori in quattro e quattr’otto è molto lontana dalla realtà.
Da dove nasce la leggenda che Caravaggio non disegnava? A ben guardare nessuno dei contemporanei che hanno scritto sulla vita o sulle opere del maestro (Van Mander, Mancini, Baglione, Giustiniani) afferma una cosa del genere, anche perché nessuno di loro viveva con il pittore, dunque non poteva sapere cosa facesse – e come – nel suo studio. Lo stesso cardinale Del Monte, che pure lo ha ospitato, non scrive da nessuna parte, nel suo florido carteggio, che Caravaggio “non disegnava”. Non si hanno, in definitiva, testimonianze dirette del suo modus pingendi.
Karel van Mander scrive piuttosto:
“Egli non traccia un solo tratto senza aderire alla natura, copiandola e dipingendola”[iii];
tutto un altro paio di maniche rispetto all’essere digiuno di disegno.
Mentre Bellori, che rilascia complimenti a Caravaggio soltanto a denti stretti, annotò:
“Giovò senza dubbio il Caravaggio alla pittura […] togliendo ogni belletto e vanità al colore, rinvigorì le tinte e restituì ad esse il sangue, e l’incarnatione, ricordando ai pittori l’imitatione [della natura][iv]”;
ovvero non imputò a Caravaggio il non saper disegnare, ma individuò la natura della sua rivoluzione pittorica nell’uso della luce e del colore (indovinandone anche l’ascendenza veneta e leonardesca tramite Giorgione) deprecando semmai i giovani pittori che “seguirono” Caravaggio, o meglio l’effetto finale dei suoi dipinti, pensando bastasse fare una tela mezza nera saltando studio e disegno per avere fortuna. E anzi, scrive chiaramente, circa le figure: “trovò maniera di campirle”[v]; ovvero riempire col colore i bordi, contorni, del loro disegno precedentemente approntato.
I biografi contemporanei e quelli più tardi (Bellori, Sandrart, Susinno) riportano anche, non senza qualche esagerazione -(la stravaganza attribuita a Caravaggio va crescendo da una biografia all’altra, più il biografo è cronologicamente lontano dai fatti più si assiste a un’infiorettatura di particolari a dir poco immaginosi)- che il maestro era piuttosto suscettibile. Si va dal “litigioso e strambo” di Sandrart al “mentecatto pittore” di Susinno passando per l’“ingegno torbido e contenzioso” di Bellori: se da un lato è presumibile Caravaggio gradisse il riconoscimento del suo talento, soprattutto dopo il debutto sulla scena pubblica con i dipinti laterali raffiguranti la Chiamata di Matteo e il Martirio di Matteo per la cappella Contarelli (1599-1600, Roma, San Luigi dei Francesi), dall’altro pare di capire non apprezzasse troppo l’essere copiato nello stile esteriore, cioè nell’uso – e abuso – degli “oscuri gagliardi”[vi], col rischio magari di ritrovarsi ad avere, tra gli altri pittori, non soltanto dei semplici e innocui ammiratori ma dei potenziali concorrenti; proprio da un -forse all’inizio in totale buonafede- tentativo di emulazione del suo stile (stile che ha comunque precedenti in Leonardo, Giorgione, Tintoretto, Tiziano, non è apparso dal nulla di punto in bianco per decreto divino) da parte di Giovanni Baglione trae origine il dissing tra i due poi sfociato nel noto processo del 1603.
E se a Caravaggio saltava la mosca al naso perché un collega attingeva da lui, possiamo figurarci con quale entusiasta liberalità avrebbe mai concesso visione dei suoi disegni e soprattutto della tecnica con la quale riportava le figure (ingrandite a seconda della grandezza della superficie pittorica finale) sul supporto da dipingere, in altre parole, dei suoi “trucchi del mestiere” – segreto questo, che oggi si può dire sia riuscito a celare abbastanza bene – perché ci sono mezzi che agli occhi dei profani sembrano inspiegabili per riportare il disegno, che di solito occupa lo spazio di un foglio, quindi è di dimensioni abbastanza contenute, su una tela generalmente molto più grande; mezzi che variano a seconda della pazienza del pittore, dalla quadrettatura allo spolvero al ricalco alla “proiezione” (il processo meccanico delle “ombre proiettate” era già stato usato del resto da Leonardo per riportare le figure del Cenacolo sulla parete del refettorio di Santa Maria delle Grazie, ecc.[vii], e non esclude la pratica del disegno, perché ovviamente si può proiettare – è anzi più veloce e pratico – un disegno sulla superficie pittorica) – tutte tecniche che possono applicarsi indistintamente anche a singole figure per volta, approccio che Caravaggio sembra prediligere nella composizione, appunto, delle sue opere.
La moderna tecnologia, comunque, conferma – e perciò dimostra – che Caravaggio disegnava eccome, perfino sulla mestica (pratica che non esclude affatto il disegno preparatorio su carta, come chi dipinge ben sa), tanto che sono state individuate tracce definite underdrawing[viii] in diversi dipinti del maestro. In particolare si cita qui la Cena in Emmaus (1606, Milano, Pinacoteca di Brera – Fig. 1), le cui riflettografia e radiografia hanno evidenziato tracce di carboncino (oltre a una sagoma di finestra poi omessa nella metà sx del dipinto – Fig. 2) nelle zone dei volti dei personaggi e nelle mani del discepolo di spalle sulla sx (Fig. 3):
tali “tracce” di carboncino – presenti anche nel Ragazzo con canestra di frutta (1594, Roma, Galleria Borghese) e nel Bacchino malato (1595-6, Roma, Galleria Borghese), ecc.[ix] – la dicono lunga sull’impostazione del lavoro da parte di Caravaggio.
Tracce di semplice matita tuttavia sono difficili da individuare una volta applicato il colore poiché una volta riportato il disegno sulla mestica passando il colore il tratto di grafite, non essendo in genere troppo profondo, scompare, inglobato dal colore stesso che è mischiato al medium, l’olio. Non vi sarà più nessuna traccia del disegno da cui si è partiti, riferimento di base: se il tratto è leggero – e non vi è motivo di calcare alla prima stesura – il disegno non si vedrà, ma non significa certo che non è mai esistito.
Le moderne tecnologie di cui sopra permettono
“una qualità di contrasto tale da poter visualizzare anche un disegno presumibilmente nero su preparazione comunque scura”[x],
in altri termini, un carboncino, grasso, mentre in caso di un disegno di riferimento tracciato con un tratto leggero di matita/grafite comune, al passaggio del colore e del medium trovare tracce del disegno sottostante diventa arduo…
Va ritenuto che le tracce di carboncino trovate finora in alcune opere di Caravaggio siano dei punti di riferimento evidenziati dal maestro rispetto al disegno “leggero” di base il quale – ovviamente – è suscettibile di correzioni una volta riportato sulla mestica: cambiando la prospettiva, dal foglio tenuto in mano alla tela che si visualizza frontalmente, ecco che si può aggiustare qualche dettaglio calcando un po’ di più la mano, e quindi il tratto, nei punti ritenuti da sistemare. Si auspica che questa tecnologia, sicuramente progredita nel frattempo, sia estesa a quante più opere del maestro possibili, così da rilevare tracce quantomeno dei tratti a carboncino, se non del semplice lapis, ovunque ci sono.
Tutto ciò non toglie che alcuni particolari possano essere dipinti direttamente sulla mestica, o che l’artista cambi idea in corso d’opera e aggiunga o tolga qualcosa (si ripassa la mestica sulla parte interessata e, una volta asciutta, si ridipinge sopra), ma in generale, per andare sul sicuro e non perdere tempo – tempo prezioso per un pittore nel Seicento –, il grosso si annota nel disegno che si riporterà sul supporto e si lavora poi spediti su quello ribadendo, se necessario, il tratto in alcuni punti con solchi più profondi, fatti non con il lapis in tal caso, ma con uno stilo o meglio l’estremità liscia del pennello.
Non è necessario che il disegno sia maniacalmente rifinito:
“Il bozzar delle storie sia pronto, e il membrificare non sia troppo finito; sta contento solamente a’ siti di esse membra, le quali poi a bell’agio piacendoti potrai finire”[xi]):
alcuni elementi si possono aggiungere strada facendo – es. le spade visibili nel Martirio di Matteo (1599-1600, Roma, San Luigi dei Francesi – Fig. 4),
il coltello di Abramo nel Sacrificio di Isacco (1603, Firenze, Galleria degli Uffizi) o la freccia che ha attinto Orsola nel Martirio di sant’Orsola (1610, Napoli, Palazzo Piacentini – Fig. 5), ecc., sono stati dipinti non sulla mestica ma a velature sopra l’ultimo strato di colore (Fig. 6) –; per fare ciò, tuttavia, non basta essere padroni del mezzo: bisogna essere grandissimi padroni del mezzo.
I disegni o cartoni considerati più riusciti in genere si conservano, poiché potrebbero tornare utili un domani; questo tipo di ragionamento può spiegare perché in Caravaggio si ritrovano, a distanza di anni, alcune sagome ribaltate specularmente. Alcune pose possono essere rievocate, e quindi ripetute, anche variando particolari, come sembra poter essere accaduto nel caso della sagoma dell’arcangelo Gabriele nell’Annunciazione di Nancy (1608 ca., Nancy, Musée des Beaux-Arts – Fig. 7), la quale presenta strette analogie con quella dell’aguzzino, sempre sulla sx del dipinto, che sfacchina piegato nella Crocifissione di san Pietro (1601, Roma, Santa Maria del Popolo – Fig. 8):
dalle ciocche dei capelli si potrebbe anzi quasi pensare che il modello sia lo stesso – con tutto quello che l’apertura di questo scenario comporterebbe –, ma non vedendo il viso non si può che rimanere nel campo delle supposizioni. Di certo accostando le due figure si scorge un modulo disegnativo che si ripete (Fig. 9).
Le sagome possono anche esser prese da opere altrui, che vanno a costituire un inesauribile repertorio cui attingere alla bisogna, purché rielaborate alla propria personale maniera: “Il pittore deve prima suefare la mano col ritrarre disegni di mano de’ buoni maestri”[xii] non limitandosi a copiare pedissequamente:
“Dico ai pittori che mai nessuno deve imitare la maniera dell’altro, perché sarà detto nipote e non figliolo della natura, perché essendo le cose naturali in tanta abbondanza piuttosto si deve ricorrere ad essa natura [prima] che ai maestri, che da quella hanno imparato”[xiii].
Perché per il genio vinciano è “Natura, maestra de’ pittori”[xiv], e anche in questo Caravaggio si dimostra “erede spirituale di Leonardo”[xv].
Che Caravaggio abbia tratto spessissimo e volentieri ispirazione dai predecessori, vicini o lontani nel tempo, è cosa nota e riscontrabile in quasi tutte le sue opere. Ancora nell’Annunciazione, ad esempio, per la figura di Maria – che nel precedente articolo definisco come “ritagliata” da altrove in collage [xvi] – Caravaggio sembra aver preso spunto da una figura presente nel San Lorenzo tra i poveri e gli ammalati del suo ex maestro Giuseppe Cesari detto poi Cavalier d’Arpino, facente parte di un ciclo di affreschi (distrutti a fine Ottocento) in San Lorenzo in Damaso raffigurante Storie di san Lorenzo che l’arpinate aveva eseguito giovanissimo, tra 1588 e 1589, e oggi noti da disegni e bozzetti di presentazione copie di bottega (Roma, coll. privata – Fig. 10):
in basso sulla dx, la figura inginocchiata che attende la benedizione del santo ricorda molto da vicino la posa dell’annunciata di Caravaggio (Fig. 11),
il quale potrebbe aver visto i disegni autografi di Cesari (non pervenuti) ai tempi in cui era presso la sua bottega nonché, chiaro, anche i perduti affreschi (sui quali van Mander registrò un pettegolezzo trasformato poi in burla certa da Sandrart).
Insomma Caravaggio doveva avere, com’era uso comune, cartoni.
La congettura che replicasse a distanza di anni volti e sagome esclusivamente “a memoria” può essere condivisa soltanto da chi non ha pratica della pittura: vero che è necessario avere una eccellente memoria “fotografica”, ma è vero pure che per dipingere ci si aiuta con disegni di repertorio e/o facendo posare il modello per fissare una certa ombra piuttosto che un’altra, ecc.
Leonardo raccomandava di mandare a memoria le immagini:
“Ancora ho provato essere di non poca utilità, quando ti trovi allo scuro nel letto, andare colla immaginativa ripetendo i lineamenti superficiali delle forme [cioè i contorni, la linea, ndA] per l’addietro studiate, o altre cose notabili da sottile speculazione comprese, ed è questo proprio un atto laudabile ed utile a confermarsi le cose nella memoria”[xvii]
ma raccomandava anche, e soprattutto, di portare sempre con sé un taccuino o comunque della carta per appuntare le idee che avrebbero potuto un giorno tornare utili:
“Sii vago spesse volte nel tuo andare a spasso di vedere e considerare i siti e gli atti degli uomini nel parlare, nel contendere, nel ridere o nell’azzuffarsi insieme, che atti sieno in loro e che atti facciano i circostanti, e quelli notare con brevi segni in questa forma su un tuo piccolo libretto, il quale tu devi sempre portare teco e sia di carte tinte acciò non l’abbia a scancellare; che queste non sono cose da essere scancellate, anzi, con grandissima diligenza serbate, perché sono tante le forme e gli atti delle cose che la memoria non è capace a ritenerle”[xviii], e ancora “Sicché per questo sii vago di portar teco un libretto di carte ingessate e con lo stile d’argento nota con brevità tali movimenti e similmente nota gli atti de’ circostanti e loro compartizione. Questo t’insegnerà a comporre le istorie, e quando avrai pieno il tuo libretto, mettilo da parte, e serbalo a’ tuoi propositi, e ripigliane un altro, e fanne il simile”[xix].
A tal proposito Giovanni Battista Giraldi detto Cinzio, letterato e drammaturgo che con la sua novella Il Moro di Venezia ha ispirato a Shakespeare il suo Il Mercante di Venezia, nei Discorsi intorno al comporre de i Romanzi, delle Comedie e delle Tragedie e di altre maniere di Poesie, attingendo notizie dal padre che si recava spesso a vedere Leonardo al lavoro in Santa Maria delle Grazie, scrisse:
“Giova anco al poeta far quello che soleva fare Leonardo da Vinci eccellentissimo dipintore. Questi qualhora voleva dipingere qualche figura, considerava prima la sua qualità & la sua natura: cioè se deveva ella essere nobile, o plebea, gioiosa, o severa, turbata, o lieta, vecchia, o giovane, irata, o di animo tranquillo, buona, o malvagia & poi conosciuto l’esser suo, se ne andava ove egli sapea che si ragunassero persone di tal qualità & osservava diligentemente i lor visi, le loro maniere, gli habiti & i movimenti del corpo & trovata cosa che gli paresse atta a quel che far voleva, la riponeva collo stile al suo libriccino che sempre egli teneva a cintola & fatto ciò molte volte & molte, poi che tanto egli raccolto havea, quanto gli pareva bastare a quella immagine ch’egli voleva dipingere, si dava a formarla & la faceva riuscire meravigliosa”[xx].
Leonardo suggerisce anche un altro esercizio, che è sia di memoria che di disegno:
“Quando tu vorrai saper una cosa studiata bene a mente, tieni questo modo: cioè quando tu hai disegnato una cosa medesima tante volte che ti paia averla a mente, prova a farla senza lo esempio [davanti]; ed abbi lucidato sopra un vetro sottile e piano lo esempio suo, e lo porrai sopra la cosa che hai fatto senza lo esempio e nota bene dove il lucido non si scontra [combacia] col disegno tuo; e dove trovi avere errato, lì tieni a mente di non errare più, anzi ritorna all’esempio [davanti] a ritrarre tante volte quella parte errata che tu l’abbia bene nella immaginativa. E se per lucidare una cosa tu non potessi avere un vetro piano, togli una carta di capretto sottilissima e bene unta e poi seccata, e quando l’avrai adoperata per un disegno, potrai colla spugna cancellarla e fare il secondo”[xxi].
Per correggere eventuali errori Leonardo consiglia anche l’uso dello specchio:
“Dico che nel tuo dipingere tu devi tenere uno specchio piano e spesso riguardarvi dentro l’opera tua, la quale lì sarà veduta per lo contrario, e ti parrà di mano d’un altro maestro, e giudicherai meglio gli errori tuoi che altrimenti”[xxii].
Dai taccuini di Leonardo traiamo altre info in merito alla sua caccia ai modelli adatti per il “ruolo” che aveva in testa per ognuno: “Va’ ogni sabato alla stufa e vedrai delli nudi”[xxiii]; “Cristofano da Castiglione sta alla Pietà, ha bona testa”, oppure “Giovannina viso fantastico, sta in Santa Caterina, all’ospedale” – Cristofano da Castiglione pare gli abbia ispirato la testa di san Giovanni nel Cenacolo [xxiv], mentre un certo conte Giovanni al seguito del cardinale Mortaro, sembrerebbe aver prestato il volto per Gesù: “Cristo – Giovan Conte, quello del cardinale Mortaro” –, in pratica Leonardo girava per le strade cercando attori, o sarebbe meglio dire maschere, da impiegare per un certo personaggio al momento giusto proprio come un regista, cosa che sembra facesse anche Caravaggio, spesso definito tale anch’egli.
Caravaggio pare aver recepito infatti anche il precetto leonardesco di badare al moto dell’animo del personaggio, alle sue espressioni:
“Farai le figure in tale atto, il quale sia sufficiente a dimostrare quello che la figura ha nell’animo, altrimenti la tua arte non sarà laudabile”[xxv]
– di modo che fossero coerenti con il tema dell’opera, quasi a immedesimarsi nel personaggio prima di chiedere a un modello di assumere quella stessa attitudine e prima di dipingerne perciò la mimica sulla superficie pittorica: una specie di Metodo Stanislavkji ante litteram applicato alla pittura già intuito da Dante: “Chi pinge figura se non può esser lei, non la può porre”[xxvi].
Tanto artificio non è frutto del caso o di imperizia, al contrario lo è di certosina organizzazione e presuppone uno scrupoloso studio nonché una radicata pratica (anche) del disegno e ovviamente non soltanto i volti e i corpi meritano attenzione, ma tutto il contesto:
“Attenderai prima col disegno [qui evidentemente Leonardo intende schizzo, anche se il maestro usa questo termine non più di cinque volte in tutti i suoi taccuini noti, ndA] a dare con dimostrativa forma all’occhio la intenzione e la invenzione fatta in prima nella tua immaginativa. Dipoi va levando e ponendo tanto che tu ti satisfaccia; dipoi fa acconciare uomini vestiti o nudi nel modo che in sull’opera hai ordinato, e fa che per misura e grandezza sottoposta alla prospettiva non passi niente dell’opera che non sia considerata dalla ragione e dagli effetti naturali. E questa sarà la via da farti onorare della tua arte”[xxvii].
Anche il chiaroscuro esasperato, artificiale, che Caravaggio usa ha ascendenze leonardesche: “La pittura è composizione di luce e tenebre”[xxviii], diceva Leonardo, e i dipinti di Caravaggio più li si studia più se ne coglie l’estrema cura in tale composizione, nulla di più lontano dall’improvvisazione; del resto
“Due sono le parti principali nelle quali si divide la pittura, cioè lineamenti che circondano le figure de’ corpi finti [dipinti], i quali lineamenti si dimandano disegni. La seconda è ombra”[xxix].
Anche la location diventa dunque parte integrante dell’opera, per quanto possa essere in ombra:
“Lo studio de’ giovani i quali desiderano perfezionarsi nelle scienze imitatrici di tutte le figure delle opere di Natura, dev’essere circa il disegno accompagnato dalle ombre e dai lumi convenienti al sito dove tali figure sono collocate”[xxx].
Tutti questi accorgimenti hanno uno scopo ben preciso, che non è “registrare” puramente il dato naturale – cosa che del resto un pittore non può realmente fare, non essendo una macchina – ma è piuttosto quello di commuovere, coinvolgere lo spettatore. Ecco allora luci irrealistiche nei dipinti di Caravaggio –
“Ora attendi, che se tu vuoi fare un’eccellente oscurità, dalle per paragone un’eccellente bianchezza, e così l’eccellente bianchezza farai con la massima oscurità”[xxxi] –,
ad es. nella Chiamata di Matteo, in cui il maestro illumina in particolare le gambe del pubblicano, in maniera artificiosa, per enfatizzare il suo stare per alzarsi) veicolate per esaltare un dettaglio che il pittore voleva fosse percepito se non immediatamente di sicuro in un secondo momento, riflettendoci sopra, quasi avesse a decantare nella testa dello spettatore.
Il pittore deve insomma saper incantare: se è un bravo illusionista coinvolgerà lo spettatore a tal punto che quello non si accorgerà delle incongruenze, perché non avranno nessuna importanza: non ci si accorge subito che nella Crocifissione di san Pietro al piede dx di Pietro sembra mancare il mignolo, o che nel perduto San Matteo e l’angelo (1599-1600, già Berlino) alla savonarola su cui siede l’evangelista manca la zampa sx (Fig. 12), che da quell’angolazione si dovrebbe invece vedere, perché ciò non toglie nulla al talento del maestro né all’impatto emotivo che la visione dei suoi dipinti imprime.
Nonostante il ricorso a stratagemmi, Caravaggio è piuttosto preciso in quello che dipinge, e quando inserisce degli elementi non lo fa mai a caso: si legge spesso di “confusione” percepita da alcuni commentatori rispetto ai dipinti più “affollati”, es. circa il summenzionato Martirio di Matteo si lamenta che non sarebbe chiaro a quale dei due personaggi di fondo, il barbuto (Caravaggio stesso) e il ragazzo fuggente, competa la gamba di profilo o la mano protesa verso Matteo. In realtà, ricostruendo la scena in disegno si capisce perfettamente; non ci sono “arti” smarriti (il polpaccio appartiene al giovane fuggiasco e la mano a Caravaggio) e se il polpaccio del ragazzo può sembrare sproporzionato, troppo lungo, è perché si tende a dare questo giudizio osservando il dipinto da una fotografia, quindi in piano, ovvero dal punto di vista sbagliato: se si osserva il dipinto invece dal punto per la cui visione è stato concepito – la balaustra della cappella Contarelli – il presunto difetto scompare così come, dalla visione in loco, il piede di Matteo riverso a terra non appare più abnorme come risulta dalla visione frontale e piatta di una foto: in sostanza, i dipinti laterali Contarelli, osservati per la prima volta, se non addirittura unicamente, da fotografie, hanno generato equivoci insussistenti. Caravaggio ha sempre tenuto conto dei dettagli, dalla luce – che pure, come si è visto, risulta artificiosamente veicolata a enfatizzare un dettaglio piuttosto che un altro – alla percezione visiva dello spettatore che avrebbe visto i dipinti necessariamente da una certa posizione e non frontalmente come si fa oggi sfogliando un libro.
Nemmeno la mano che sembra spuntare dal nulla nel Martirio di sant’Orsola (Fig. 5) è un apporto medianico: appartiene a uno degli astanti che la allunga nel vano tentativo di proteggere la martire.
Quante speculazioni ci sono state, del resto, circa la mano impugnante il coltello nel Cenacolo di Leonardo che, se si osserva bene e, soprattutto, se si è disegnatori – e si ragiona quindi per linea – risulta chiaro essere la mano di Pietro ovvero riferimento al fatto che di lì a poco l’apostolo taglierà, nel giardino dei Getsemani, l’orecchio a Malco? Non c’è alcun refuso pittorico, si tratta di inserimenti perfettamente intenzionali e ragionati.
Pertanto, più che attribuire a Caravaggio prodigiose quanto – queste sì! – improbabili capacità mnemotecniche manco fosse cresciuto a pane e Ars memoriæ, è più ragionevole, onesto e semplice ammettere l’ovvio, cioè che disegnasse. Sul perché non siano pervenuti (a parte un caso, accettato da fior di caravaggisti, che non è questa la sede per analizzare) suoi disegni, d’altro canto, ci sono altrettanto ragionevoli e probabili ipotesi: non avendo avuto né allievi diretti né figli nessuno ha ereditato i suoi strumenti di lavoro (dopo il fatale sbarco in Toscana, la feluca sulla quale viaggiava è tornata a Napoli con i dipinti che sappiamo, ma cosa costituiva il resto del suo bagaglio, che pure doveva avere avuto? Non si sa), era geloso delle sue carte (nell’inventario dei beni di Caravaggio in casa sua stilato nel 1605 in occasione del noto sequestro si registra la presenza di “una carioletta [cartelletta? Altri leggono “tavoletta”] con certe carte de colori”, forse proprio il normalissimo album di repertorio che qualunque pittore di fine Cinquecento teneva con sé[xxxii]) e le bruciava; conservava soltanto i cartoni che riteneva più significativi (le sagome suddette)… una spiegazione logica, insomma, ci può essere mentre le probabilità che non disegnasse sono concretamente vicine allo zero, più prossime alla fantasia che alla realtà.
Le indagini scientifiche già hanno confermato che Caravaggio disegnava, con l’evoluzione dei metodi diagnostici si potrà scoprire senz’altro ancora molto di più in merito.
©Claudia RENZI, Roma, 1 dicembre 2024
*In copertina: Caravaggio: Riposo durante la fuga in Egitto (particolare del disegno del profilo del bambino);
NOTE
[i] Leonardo da Vinci, Trattato della Pittura, § 185.
[ii] Leonardo, op. cit., § 4.
[iii] Karel van Mander, Het Scilder-Boeck [Libro della Pittura], Harlem, 1604 (La vita di altri pittori italiani i quali si trovano attualmente a Roma).
[iv] Giovanni Pietro Bellori, Vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, scritte da Gio: Pietro Bellori, Roma, 1672, p. 219.
[v] G. P. Bellori, op. cit., p. 201.
[vi] G. P. Bellori, op. cit., p. 210.
[vii] Carlo Pedretti, Io & Leonardo, Milano, 2008, p. 125.
[viii] Roberto Bellucci, Cecilia Frosinini, Luca Pezzati, Il ritrovamento del disegno preparatorio di Caravaggio, in: Claudio Strinati (a cura di), Caravaggio, Milano, 2010, pp. 234-5, p. 234; Isabella Lapi Ballerini, Nuova luce su Caravaggio, in: Sabina Zalandi Nardi (a cura di), Caravaggio a Palazzo Borromeo, Umberto Allemandi & C. per l’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, 2010, pp. 15-24, p. 15.
[ix] Claudio Falcucci, Come dipingeva Caravaggio? Forse così, in: Rossella Vodret (a cura di), Dentro Caravaggio, Milano, 2017, pp. 305-326, p. 312.
[x] R. Bellucci, C. Frosinini, L. Pezzati, op. cit., p. 234.
[xi] Leonardo, op. cit., § 61.
[xii] Leonardo, op. cit., § 60.
[xiii] Leonardo, op. cit., § 78.
[xiv] Leonardo, op. cit., § 520.
[xv] C. Pedretti, op. cit., p. 177.
[xvi] Claudia Renzi, Uno spunto per Caravaggio: il caso dell’angelo messo di spalle dal San Gerolamo di Ludovico all’Annunciazione di Nancy, https://www.aboutartonline.com/uno-spunto-per-caravaggio-il-caso-dell-angelo-messo-di-spalle-dal-san-gerolamo-di-ludovico-alla-annunciazione-di-nancy/ su «About Art online» del 03.11.2024
[xvii] Leonardo, op. cit., § 64.
[xviii] Leonardo, op. cit., § 169.
[xix] Leonardo, op. cit., § 175.
[xx] Giovanni Battista Giraldi Cinthio, Discorsi di M. Giovambattista Giraldi Cinthio nobile ferrarese e segretario dell’Illustrissimo et Eccellentissimo Duca di Ferrara intorno al comporre de i Romanzi, delle Comedie e delle Tragedie e di altre maniere di Poesie, Venezia, 1554, pp. 193-4.
[xxi] Leonardo, op. cit., § 69.
[xxii] Leonardo, op. cit., § 401.
[xxiii] Leonardo nella copertina del Manoscritto F, Parigi, Institut de France.
[xxiv] Serge Brambly, Leonardo da Vinci, Milano, 1990, 2 voll., p. 354.
[xxv] Leonardo, op. cit., § 290.
[xxvi] Dante, Convivio, IV, X.
[xxvii] Leonardo, op. cit., § 73.
[xxviii] Leonardo, op. cit., § 434.
[xxix] Leonardo, op. cit., § 130.
[xxx] Leonardo, op. cit., § 46.
[xxxi] Leonardo, op. cit., § 186.
[xxxii] L’inventario dei beni di Caravaggio nella casa in affitto da Prudenzia Bruni sottoposti a sequestro il 26 agosto 1605 è in: Archivio di Stato di Roma, TNC, Uff. 16, not. Lutius Marchetti, vol. 32, cc. 640rv; c. 655r, in particolare c. 640v. Cfr Stefania Macioce, Michelangelo Merisi da Caravaggio. Documenti, fonti e inventari 1513-1875, Roma, 2010, pp. 188-9, Doc. 651.
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