di Alessandro AGRESTI
Stella Rudolph, Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, Carlo Maratti (1625 – 1713) tra la magnificenza del Barocco e il sogno dell’Arcadia, 2 voll (tomo I, 293 pp., tomo II, 1255 pp.), Ugo Bozzi Editore, 2024.
Con la monografia su Carlo Maratti, principe dei pittori romani del Seicento, è stato finalmente colmato un vero vuoto nella Storia dell’Arte, con un volume che è già una pietra miliare per chiunque, da oggi in poi, vorrà affrontare un argomento tanto complesso, certamente foriero di ulteriori riflessioni e novità. Ben nota la genesi dell’opera, alla quale si dedicava da decenni la compianta esegeta dell’artista, Stella Rudolph: ne avevamo avuto un’ampia anticipazione con il suo Niccolò Maria Pallavicini: l’ascesa al Tempio della Virtù attraverso il mecenatismo, sempre edito da Bozzi, nel 1995, oramai un vero classico, nel quale erano stati affrontati molti dei temi poi confluiti nel nostro libro. Al quale la studiosa americana stava lavorando quando è avvenuta la sua prematura scomparsa, nel 2020. A questo punto Simonetta Prosperi Valenti Rodinò è coraggiosamente intervenuta per portare a termine l’opera, secondo un modus operandi descritto nell’ introduzione: per i saggi su Carlo Maratti pittore ha raccolto i contributi della Rudolph, per la maggior parte già editi, aggiornandoli alla luce della più recente bibliografia, fornendo quindi una antologia degli studi che erano stati condotti sull’allievo prediletto di Andrea Sacchi. Per quel che riguarda le schede: dalla n. 1 alla n. 135 erano già pronte per essere edite, salvo, anche in questo caso, i controlli del caso, correzioni (erano comunque delle bozze), eventuali integrazioni e aggiunte in bibliografia, mentre dalla 136 alla 251 esse sono dovute alla sola Simonetta Prosperi Valenti Rodinò. La parte del disegno è interamente da ricondurre a quest’ultima studiosa.
Passando alla organizzazione del materiale del primo tomo (293 pagine), i saggi sulla produzione pittorica sono sette, divisi per temi (pp. 1 – 148): La giovinezza; Prima maturità; Carlo Maratti ritrattista; le grandi pale e i grandi affreschi; Madonne e Sacre Famiglie; Maratti figurista per pittori di nature morte e paesaggi; Carlo Maratti “primo dipintore d’Arcadia”. Questa prima parte termina col capitolo dedicato alla fortuna critica (pp. 149 – 170), che la studiosa italiana ha completato, in quanto Stella Rudolph si era fermata al 1947. La seconda parte del primo tomo (pp. 172 – 285) è un lungo capitolo, diviso per paragrafi che affrontano la variegata produzione grafica di Maratti: Copie; Accademie; Tipologie e tecniche; Modelli; Figure, teste e panneggi; Repliche, prove di bravura e riutilizzo; Disegni per sculture; disegni per oggetti d’arte decorativa; Ritratti, autoritratti e caricature; Disegni d’occasione; Disegni per opere perdute o non realizzate; Disegni per gli allievi. Chiude il tomo la cronologia della vita e delle opere di Carlo Maratti, a cura di Elisa Martini (pp. 288 – 293). Nel secondo tomo (pp. 297 – 1171) sono le schede dei dipinti, ordinati per ordine cronologico, e dei disegni, per la maggior parte preparatori alle opere. Seguono, a cura di Michela Corso, bibliografia (pp. 1174 – 1212), indice topografico dei dipinti (pp. 1214 – 1220), indice topografico dei disegni (pp. 1122 – 1240), indice dei nomi (pp. 1255).
Possiamo già, da questa breve introduzione, affermare che siamo di fronte due a volumi di grande importanza per gli studi storico artistici, nei quali troviamo, per la prima volta, riunite tutte le opere più importanti di Carlo Maratti, la bibliografia completa ed aggiornata, e una vera messe di notizie le quali, fino a questo momento, trovavamo parcellizzate in numerosi interventi ad opera dei più insigni studiosi, in varie riviste, libri e schede di mostre.
Non possiamo non lodare Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, per la tenacia e la perseveranza con la quale ha portato a termine un lavoro così difficile e complesso. Lavoro avente il suo fondamento negli studi di Stella Rudolph, storica dell’arte di primo livello, alla quale mi ha legato una profonda amicizia, e una stima incondizionata: spiace davvero non abbia potuto vedere alla luce quella che è anche una sua creazione, alla quale non ha potuto apportare il suo fondamentale contributo per la pubblicazione.
Per questo motivo è con non poco rammarico che muovo anche delle critiche, già in parte espresse nella recensione per il Giornale dell’Arte (https://www.ilgiornaledellarte.com/Articolo/Finalmente-una-monografia-per-Maratti-ma-si-poteva-fare-di-meglio), che qui mi sarà possibile argomentare in modo più articolato ed approfondito: ritengo che alcune sviste, e attribuzioni, nelle schede del catalogo, difficilmente avrebbero passato il vaglio di Stella, anche se è questa una affermazioni a posteriori, che rimane nel campo delle ipotesi. Proprio per rispetto della studiosa di vaglia quale era la storica dell’arte americana, mi è parso doveroso, accanto alle molte luci, constatare anche le ombre che inficiano un giudizio totalmente positivo sulla monografia dedicata a Carlo Maratti, uno dei più grandi artisti della Storia dell’Arte italiana.
Iniziamo con qualche riflessione sul primo tomo: doverosa la scelta di antologizzare gli scritti di Stella Rudolph, che apprezziamo ancora oggi per l’acume, il rigore, la prosa appassionata, e che come giustamente scrive Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, sono a tutt’oggi validi. Il problema è che quegli scritti risalgono a decenni prima della pubblicazione: nel frattempo sono emersi dei nodi critici che non vengono affrontati, se non marginalmente. Avrebbe potuto farlo la studiosa italiana, con un capitolo ad hoc, o magari chiamare uno dei suoi valenti allievi ad aggiornare quanto già scritto. In parte questo è chiarito nella introduzione, dove si precisa (pp. XIII-XIV):
“Per comprensibili motivi di spazio, in questo volume non sono compresi alcuni aspetti specifici dell’attività dell’artista. In primo luogo l’impegno nel restauro […] Ugualmente non ha trovato posto in questo volume l’attività di Maratti come collezionista di quadri e disegni”;
si annuncia un prossimo volume dedicato alle incisioni.
Altri temi, a mio avviso di importanza non trascurabile, non sono stati analizzati: ad esempio i rapporti tra il nostro artefice e il mercato dell’arte della sua epoca (una vera lacuna, anche perché sia Paolo Coen che Richard Spear hanno già trattato l’argomento, per cui si sarebbe potuto, se non altro, scrivere un breve capitolo riassuntivo, magari con qualche nuova riflessione sull’argomento)[1].
Non si compie una analisi del contesto storico in cui ha operato Carlo Maratti, non si analizzano i suoi rapporti con i pontefici e le grandi casate nobiliari romane, non vi è quasi traccia di un qualche chiarimento sulla organizzazione della bottega. Non viene quindi affrontato lo spinoso tema dell’autografia del dipinti che con spregiudicatezza venivano, in molti casi, solo rifiniti dal capo atelier – lo attesta l’elenco dei beni della figlia destinati a una sfortunata lotteria – come della straordinaria capacità manageriale – adoperando un termine moderno ma quanto mai pregnante – di Carlo Maratti, il quale, ad esempio, faceva copiare in gran quantità i suoi originali, al fine di far aumentare la notorietà e il prezzo dei pochi autografi, centellinati per la committenza più elitaria[2].
Non si fa alcuna riflessione sulla tecnica e sui materiali adoperati, sul procedimento di lavoro per la fattura di una pala o di un dipinto da cavalletto, al fine di poter individuare con maggiore sicurezza gli autografi nel mare magnum della produzione seriale dell’atelier[3]. Non si fa quasi cenno agli allievi più dotati, che tennero viva la lezione del maestro nella prima metà del Settecento (da Giuseppe Bartolomeo Chiari ad Agostino Masucci) o, ancora, alla influenza del magistero marattesco sulla scuola romana del Sei e Settecento[4]. Manca un’antologia critica, un regesto dei documenti (anche di quelli già editi) o almeno la trascrizione di quelli più significativi. Non vi è un elenco completo delle opere perdute o ricordate dalle fonti. Sono aspetti che, a mio avviso, limitano la completezza del meritorio e prezioso lavoro di Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, la quale si è trovata a riordinare una enorme mole di dati, gravitanti attorno a una figura così complessa e sfaccettata come quella di Carlo Maratti.
Passando al secondo tomo: vi è una sproporzione tra le illustrazioni dei dipinti e quelle dei disegni; sfogliandolo si ha l’impressione che Carlo Maratti sia stato soprattutto un disegnatore, quindi un pittore. Un tomo a parte sulla grafica sarebbe stato consigliabile, anche perché si sarebbero potute illustrare a piena pagina tutte le opere, alcune delle quali sono riprodotte in un formato davvero ridotto. Non vi sono, se non in alcuni casi, ingrandimenti o particolari tratti dai dipinti più celebri o dalle pale d’altare: avrebbero permesso di far apprezzare anche al grande pubblico la tecnica sopraffina di Carlo Maratti, uno dei più dotati artisti del suo tempo. Inoltre, vista la divisione per temi del primo tomo, ci si sarebbe aspettata una coerente prosecuzione col secondo: la scelta della scansione cronologica, con a corredo le immagini dei disegni, porta a un risultato sotto certi versi alquanto confusionario. Si passa dal dipinto da cavalletto alla pala d’altare, dal rame di devozione alla collaborazione coi pittori di natura morta, il tutto intercalato dalla grafica, con una lettura rapsodica della evoluzione del linguaggio pittorico del nostro artefice. Eppure, proprio la divisione per temi, mai come in Maratti sarebbe stata auspicabile, in quanto affrontò praticamente tutto il ventaglio dei soggetti al tempo appannaggio degli artisti: di ognuno mirava a fornire esempi canonici, oltre che ad occupare la più ampia fetta di mercato possibile.
Si pensi a quanto sarebbe stata esemplificativa della strenua sperimentazione figurativa condotta dal marchigiano, fino alla fine della carriera, una serrata sequenza di pale d’altare, oppure raggruppare in un unico capitolo i dipinti da cavalletto con le Madonne col bambino, nelle quali è una colta riflessione su Raffaello, del quale egli viene eletto vero erede e corrispettivo nel Seicento. Le schede sono nel complesso molto dettagliate ed esaustive, e come specifica nell’introduzione Simonetta Valenti Prosperi Rodinò (p. XIII):
“È più che probabile, se non inevitabile, che alcune delle molte voci bibliografiche riguardanti l’artista, in particolare le più recenti che sono cresciute in modo esponenziale in questi ultimi anni, possano essere sfuggite in questa mia complessa opera di aggiornamento”.
Comprensibile, vista la mole di lavoro davvero improba che la studiosa si è trovata ad affrontare: vi sono però, a mio avviso, almeno una quarantina di attribuzioni da rivedere, paragrafi poco chiari e omissioni di opere autografe pubblicate anni prima del nostro volume, anche in prestigiose raccolte pubbliche. Cito solo alcuni casi esemplificativi, per non tediare il lettore, riservandomi una più dettagliata disamina in sede scientifica.
- Novità e aggiunte al catalogo
Nell’intervista rilasciata per About Art online (https://www.aboutartonline.com/carlo-maratti-finalmente-esce-il-catalogo-ragionato-dipinti-e-disegni-about-art-intervista-lautrice/), Simonetta Prosperi Valenti Rodinò afferma:
“Tra le altre proposte da me avanzate la più evidente è l’aggiunta di due opere al catalogo dell’artista: la prima è Bacco e Arianna in collezione inglese, opera giovanile ancora molto acerba non accettata dalla Rudolph (che l’attribuiva al modesto allievo Niccolò Berrettoni), ma di cui è emersa la qualità dopo il recente restauro e la componente veneteggiante caratteristica dei suoi anni giovanili. La seconda è l’Adorazione dei magi da me rintracciata nella collezione della Banca d’Italia a Roma (cat. 207) dove era celata sotto l’attribuzione a Giuseppe Bartolomeo Chiari, ma emersa nella sua qualità come il dipinto spedito da Maratti a Palermo, ritenuto disperso dalla Rudolph e sinora documentato solo dall’incisione di Nicolas Dorigny. E’ una splendida aggiunta al catalogo dell’artista della sua produzione più matura intorno agli anni ’90 del secolo”.
Iniziamo dalla prima opera citata nell’intervista: in realtà essa è nota da tempo agli studi, in quanto pubblicata da Giancarlo Sestieri nel 2004 (FIG 1); da allora nessuno ne ha più messo in dubbio l’autografia[5]. Lo studioso pubblica un’altra versione del tutto simile – salvo qualche variante secondaria – illustrata nuovamente sia da Francesco Petrucci nel 2011 – che esamina entrambe le opere – sia da Maria Celeste Cola nel 2018 nel suo meritorio volume sulle collezioni della famiglia Ruspoli [6].
Di quest’ultima non viene fornita una immagine in monografia, anche se tutti gli studiosi citati la considerano un ulteriore esemplare autografo. Qualche appunto sul testo della scheda: in essa è proposta la provenienza dalla collezione del cardinale Paolo Peretti Savelli, in quanto è scritto (p. 329) che “il dipinto raffigurante Bacco e Arianna è comunemente identificato con la tela passata sul mercato (Christie’s, Londra, 11 dicembre 1981, lot 54” e si afferma inoltre ( p. 330) che
“tra tutte queste versioni è arduo stabilire quale sia quella dipinta per il Savelli, e quella già di proprietà Ruspoli, ma l’esemplare già Welbeck sembra essere proprio il prototipo eseguito per i Savelli”,
con chiaro riferimento al dipinto schedato e illustrato in monografia[7].
Si scrive (p. 329) che esso era: “pendant del Ratto di Europa oggi a Dublino”, ma la differente cronologia (1650 circa per la tela in esame, 1682 – 1684 la seconda citata) e di dimensioni (122 x 165 contro 238 x 424) portano ad escludere questa ipotesi[8]. Inoltre, leggendo attentamente il passo di Bellori, riportato anche in scheda (p. 330), che descrive in dettaglio il Bacco e Arianna licenziato per il porporato, si evince chiaramente come quest’ultimo non possa essere identificato con nessuna delle due versioni oggi note, per differenze nelle misure e nello svolgimento della composizione :
“[…] due quadri grandi Europa ed Arianna […] Fece Arianna assisa sopra uno scoglio […] rilascia in atto mesto la guancia e il volto sopra una mano […] ed intanto un amoretto al fianco d’essa accenna la sua bellezza a Bacco […] con la sinistra mano tenendo un tirso […] Scherzano nell’aria due amoretti […] A’ piè d’Arianna due altri fanciullo con vago scherzo traggono ori e gemme da uno scrigno”[9].
Passiamo al secondo inedito citato nell’intervista: l’esaustiva scheda del dipinto, la cui immagine è fruibile da tempo nel catalogo on line delle collezioni d’arte della Banca d’Italia (https://collezionedarte.bancaditalia.it/-/giuseppe-bartolomeo-chiari-adorazione-dei-magi), riporta come esso fosse stato già attribuito da Giuliano Briganti prima, da Alessandro Zuccari poi, a Giuseppe Bartolomeo Chiari, ed è giustamente posto in relazione a un’opera perduta ma ricordata dalla figlia di Maratti, Faustina, come inviata a Palermo: di essa non conosciamo le misure ma ci è pervenuta un’incisione di Louis Dorigny che la riproduce[10]. La studiosa afferma in monografia (p. 938) che il dipinto della Banca d’Italia:
“corrisponde perfettamente alla traduzione incisa in controparte da Dorigny, in cui è indicata in modo inequivocabile la responsabilità dell’artista: Carol. Marattus pinx.”.
Quindi sulla base delle congruenze con quest’ultima, se ne avvalla l’autografia, evidenziandone la notevole sapienza esecutiva.
Nel testo non viene riprodotta l’incisione, che illustro in questa sede (FIG 2) a confronto con la tela romana: a parte gli angeli nella parte superiore – aggiunta dovuta allo stesso incisore, come riporta Mariette – si ravvisano molte differenze, e sostanziali. La posa del Bambino non è riproposta in controparte – come avviene per il resto della composizione – corona e scettro sono spostati sul terreno, mutano completamente la figura di Giuseppe, del re mago in secondo piano – nella fisionomia come nel gesto della sua mano destra – dell’uomo alle sue spalle – mancante – come degli stanti sul fondo; varianti sono persino nell’architettura della capanna e nel formato stesso del dipinto perduto. Molto plausibile, quindi, che la tela romana sia una replica con varianti di bottega da quell’originale, come tendo a ritenere: non casualmente il riferimento a Chiari è stato proposto per l’esistenza di due rielaborazioni dal perduto prototipo, rispettivamente nei musei di Berlino e Dresda[11].
Inoltre, un dato importante, ignorato in scheda, qui reso noto, permette di approfondire ulteriormente la questione: nella lista dei beni della figlia di Maratti, Faustina, è citato al n. 208:
“Un quadro in tela d’imperatore rappresenta l’adorazione de’ Magi con cornice nera, e oro viene dal Cav. Maratti”[12].
Nel documento, molto dettagliato e fide degno nelle attribuzioni, non viene adoperato il termine ‘copia’ ma ‘viene’, qualificandolo come una derivazione dall’originale, non una replica pedissequa; si sarebbe tentati di identificarlo col dipinto reso noto in monografia. Bisogna sottolineare come, soprattutto nella produzione tarda – viene proposta una datazione al 1695 – 1696 circa – Carlo Maratti dosava attentamente il suo pennello, facendo attendere anni per una consegna ai committenti più prestigiosi: mi pare improbabile che, per una destinazione periferica, si fosse impegnato in prima persona in modo estensivo, delegando invece la maggior parte del lavoro ai suoi efficienti – e valenti – aiutanti. I quali, come attesta l’inventario già citato, replicavano persino i bozzetti del capo atelier: informazioni che inducono a procedere con estrema prudenza, soprattutto nella produzione cronologicamente più avanzata, con le attribuzioni. Anche perché allievi come il già citato Giuseppe Bartolomeo Chiari o Pietro de’ Pietri erano capaci di licenziare lavori davvero di notevole livello qualitativo.
Non è questo l’unico caso in cui un’incisione è chiamata in causa per avvallare un’attribuzione: veniamo alla Vergine che contempla il Bambino Gesù dormiente nelle collezioni reali di Windsor (https://www.rct.uk/collection/403549/the-virgin-with-the-sleeping-child), acquistata da Giorgio III come originale di Guido Reni, nel catalogo on – line di quella raccolta elencato come “Attributed to” (ma giustamente espunta da Levey già nel 1964 e da quel momento accettata come una copia da un prototipo disperso del celebre maestro bolognese)[13]. Nella scheda relativa all’opera, è scritto che: “si tratta di un’opera liberamente ispirata all’incisione del pittore bolognese, e con molte varianti nella posa del bambino, qui più abbandonato nel sonno e con il capo reclinato all’indietro, e della Vergine nella posa della mano destra appoggiata alla gota”[14].
L’incisione di Robert Strange alla quale ci si riferisce non viene illustrata: ma esistono ben due altri bulini, uno di Lorenzo Tinti (FIG 3), che reca la sigla “G. R. F.” (plausibilmente da sciogliere in “Guido Reni fecit”) l’altro di Jean Boulanger (riporta la scritta “Guido Rhenus pinxit”) tratti da quell’originale perduto del maestro emiliano, del tutto rispondenti al dipinto inglese, ovviamente in controparte, come le decine di copie oggi conosciute, sia in musei che sul mercato antiquario[15].
Inoltre nella suddetta scheda viene ignorato un dato importante relativo al riferimento a Carlo Maratti per il dipinto: risulta sì in Inghilterra una copia del nostro pittore da Guido Reni, corrispondente a
“The Madonna watching the sleeping Child, from the original of Guido, in the Doria Palace at Rome. The beautiful copy has acquired greater value, from the failure of the coloring of the child in the original, which is now almost green”,
ma venduta in un’asta Christie’s del 18 maggio 1824, lotto n. 27, che quindi non può essere identificata con l’esemplare pubblicato in monografia, nelle raccolte reali sin dal XVIII secolo[16]. Le attribuzioni al nostro pittore nelle aste inglesi sono tutt’altro che attendibili – si vedano le svariati versioni della Diana ed Atteone già Falconieri / Colonna, tutte considerate autografe – ma quella già trascritta parrebbe se non altro credibile, perché effettivamente a Palazzo Doria Pamphilj a Roma esisteva una copia di Maratti dal prototipo oggi disperso di Guido Reni, come riportato anche nella suddetta scheda: essa è registrata negli appartamenti della nobile casata fino al 1819, poi se ne perdono le tracce; quindi non può essere identificata con la copia dall’originale perduto di Guido Reni nelle collezioni reali inglesi[17].
2) sul tema dell’ Immacolata Concezione
Una delle invenzioni di maggior successo di Carlo Maratti, replicata alla stregua di un santino fino a tutto il Settecento, è l’ Immacolata Concezione licenziata per la cappella de Sylva della chiesa di Sant’Isidoro Agricola a Roma (FIG 4) dove avvenne l’incontro con l’opera di Gian Lorenzo Bernini[18].
Incontro che lasciò il segno sul giovane artista, il quale si ispirò in più occasioni nel corso della sua carriera allo scultore – soprattutto nella ritrattistica – anche quale abile ‘regista’ di imprese collettive alle prese con una vasta bottega organizzata con altrettanta lungimiranza. Non è questa la sede per analizzare i rapporti tra Maratti e la scultura berniniana o con Domenico Guidi – altro tema solo in parte trattato nel volume e per casi arcinoti, come quelli dei disegni forniti per la tomba di Innocenzo XI e per gli apostoli della navata di San Giovanni in Laterano – ma delle copie che germinarono dalla pala romana, dettagliatamente elencate a p. 483[19]. A pag. 481 è illustrato un piccolo ovale (olio su tela, cm 48,5 x 38,5) considerato autografo, alla scheda n. 59a, che cito per intero:
“Tra le molte repliche e copie, citate sotto, si segnala come autografa quella di misure ridotte in collezione privata, riconoscibile come opera del maestro per la pennellata rapida e sicura, pressoché coevo a quello per Sant’Isidoro per via di riscontri stilistici, e comunque della stessa qualità esecutiva”[20].
In realtà, proprio dal confronto con la pala de Sylva, e ancor di più alla luce delle dimensioni ridotte, che avrebbero permesso ben altri fraseggi del pennello, si evince che tale opera sia un buon lavoro di bottega: si osservi, ad esempio, come è più sordo il trattamento delle epidermidi della Madonna, come la fattura dei panni risulti più schematica – mancano gli squisiti cangiantismi e la morbidezza del prototipo – come il segno che conclude le figure sia più insistito; inoltre si osserva una certa inesattezza anatomica nella restituzione della spalla della protagonista, aguzza, quasi sotto alle vesti si trovasse un manichino di legno.
Nella monografia un qualche cenno alla tecnica e, soprattutto, ai materiali adoperati avrebbe aiutato, in questo caso, ad escludere un simile lavoro, pur di buona qualità, dal novero degli autografi: infatti nella pala il maestro usa effetti di velatura e lacche del tutto assenti nella piccola dimensione (ribadisco, essa avrebbe favorito la finezza della fattura, non trattandosi di un bozzetto o di un modello, ma di una replica).
Ho la stessa idea, e per i medesimi motivi, riguardo a una pala d’altare nella Pinacoteca Nazionale di Palazzo Arnone a Cosenza (FIG 5), ritenuta autografa, datata al 1673 – 1675, che si propone di identificare, con le dovute cautele – non abbiamo nessuna testimonianza visiva, copia o incisione – con un dipinto già nella collezione del Marchese del Carpio, come attesterebbe un inventario del 1682 – 1683, dove è descritta:
“Un quadro, che rappresenta La Concettione col Bambino Giesù, che ammazza il serpente con gloria di Angioli, di mano di Carlo Marati, di palmi 10. e 8. con suoi regoletti intorno stimato in 500”[21].
Il problema è che le misure non corrispondono: non solo quella tela era di dimensioni più ampie, ma di formato più quadrato, 229 x 158 cm (Cosenza) contro 223,4 x 187,2 circa (già del Carpio). Quella provenienza è quindi da escludere e non ve ne è una, almeno a me nota, che possa essere proposta in alternativa. Le notizie sul dipinto iniziano nel tardo Settecento, quando era nella collezione del castello di Blenheim, come Maratti.
Ribadisco: chi abbia dimestichezza con inventari e vendite all’asta in Inghilterra, sa bene come una vera pletora di lavori, riferiti ottimisticamente all’allievo di Andrea Sacchi, transitassero in quel mercato, e come già lui vivente avesse molti affezionati collezionisti, ai quali non sempre venivano recapitati dipinti autografi. L’ altra stranezza è che nel dipinto sub judice il volto della Vergine è ripreso da una pala (della quale tratteremo qui di seguito) documentata da un incisione Jacob Frey (FIG 6): l’ideazione dell’opera oggi a Cosenza risulta quindi da due opere autografe, compatibilmente con l’esecuzione di un lavoro di atelier[22]. Maratti, anche quando replica le sue composizioni, apporta abili e sofisticate variazioni sul tema, come riscontriamo nelle sue Sacre Famiglie o nelle sue Vergini col Bambino – anche per questo motivo sarebbe stato utile un raggruppamento per temi delle opere, dal quale si sarebbe agilmente evinto quel che qui si puntualizza – mentre il lavoro a Palazzo Arnone risulta un vero e proprio montaggio dalle sue invenzioni.
Riscontriamo una qualità esecutiva migliore dell’ovale in collezione privata, ma certamente non all’altezza di un lavoro del maestro – la pala De Sylva docet – come è riscontrabile dall’accostamento alle meravigliose pale dell’ottavo decennio come quella per la Cappella Altieri in Santa Maria Sopra Minerva a Roma (FIG 7) del 1671 – 1672, che scelgo di illustrare perché, al pari dell’esemplare a Cosenza, non in perfetto stato di conservazione: contando che è offuscata la polveri e sporco, risulta lampante l’esecuzione ben più vibrante e sciolta e una regia del lume ben più complessa e sofisticata; dal confronto l’Immacolata Concezione risulta decisamente perdente, risultando perfino stolidamente languida l’espressione della Madonna[23].
Tornando all’incisione: essa documenterebbe un originale disperso, in realtà identificato due anni fa, per ragioni ben più fondate rispetto a quelle dei presunti autografi già esaminati, che vengono omesse nella redazione della scheda, dove esso è ricondotto alla bottega (p. 616)[24].
Conservato a Vienna, nel Kunsthistorisches Museum (FIG 8), è coincidente in ogni dettaglio all’incisione: che esso sia nello stesso verso è una prassi tutt’altro che desueta nelle traduzioni a stampa dalle opere del nostro artefice[25].
Probabile che i centimetri mancanti ai bordi siano coperti dalla sontuosa cornice che lo accompagna o che l’opera abbia avuto una piccola riduzione durante la rintelatura. Essa vanta una più che prestigiosa provenienza, già riportata nei cataloghi del museo: quella dalla collezione Albani, dalla quale provengono altri autografi presenti nella istituzione austriaca, come La Vergine col Bambino addormentato in braccio e La Madonna col Bambino e san Giovannino[26].
Già il fatto che le opere siano state acquistate da Francesco I nel 1801 direttamente dagli eredi della casata romana avrebbe dovuto mettere all’erta: il dipinto è infatti citato in dettaglio in un inventario Albani nel 1724, pubblicato da Maria Barbara Guerrieri Borsoi nel 2018 (dove è anche segnalato il dipinto di Vienna):
“[429] Altro di una Concettione con il Bambino in braccio, e molti Angioli a torno alto p.mi quattro, e mezzo, largo p.mi tre e mezzo in circa con cornice, et intagli dorati, dipinto da Carlo Maratta”[27].
Vale la pena sottolineare che in quell’elenco sono i beni di Carlo Albani, il quale ereditò, tra gli altri, i dipinti di papa Clemente X, i cui rapporti con Maratti sono ben noti (e ampiamente trattati nel volume)[28]. Se non bastasse l’illustre provenienza dell’opera, essa si illustra qui nuovamente, con una ottima immagine che non solo rivela una notevole qualità di esecuzione, ma anche dei pentimenti a vista: quello più evidente è nelle ali dell’angelo, poi coperte, come risulta nell’incisione. Si noti la brillantezza del colore, indice di un pigmento di ben altra qualità rispetto alle due altre versioni già illustrate, che permette una esecuzione davvero raffinata, con la materia cremosa e trasparente nel contempo capace di restituire le più ineffabili gradazioni tonali, o l’armonioso svolgersi del panneggio della protagonista, di una evidenza quasi tattile, che la dicono lunga su quale sia la reale qualità dei lavori autografi.
3) Questioni di cronologia
Come abbiamo già avuto modo di appurare, uno dei nodi della produzione marattesca riguarda le repliche, nelle quali il maestro sovente riproponeva con varianti i lavori autografi più riusciti: un tema di fondamentale importanza il quale non viene approfondito in monografia. Esso si ripropone per le tre versioni conosciute del Sant’Andrea adora la croce del suo martirio, su tela e tutte di dimensioni simili, rispettivamente a: Greenville, Bob Jones University, cm 120,6 x 157,5 ( https://catalogo.fondazionezeri.unibo.it/scheda/opera/51937/Maratta Carlo, Crocifissione di sant’Andrea) ); East Lothian, Scozia, Gosford House (dalla studiosa indicato come Gosford Park), collezione dell’Earl of Wemyss (non Weymiss come riportato in scheda) and March, cm 121,3 x 158,7 (https://www.nicholashall.art/artwork/crucifixion-of-saint-andrew/); ubicazione ignota, già New York, Christie’s, 26 maggio 2000, lotto n. 59, cm 120 x 160 (FIG 9)[29].
Esse sono datate al 1653 – 1656 circa sulla scorta di disegni preparatori recanti anche studi per la cupola della cappella Alaleona, del 1653, e per la pala della Basilica romana di San Marco, del 1653 – 1654. Pur citato in bibliografia, e nel testo, non viene analizzato con la dovuta considerazione un articolo di Stefano Santangelo, del 2012, nel quale vi sono ulteriori notizie che avrebbero permesso di affrontare la questione in modo più articolato: in esso è pubblicato un carteggio dal quale risulta che nel 1661 venne commissionata a Carlo Maratti una versione del Sant’Andrea, da parte di Antonio Barberini, destinata al conte di Brienne, al fine si ottenere la prestigiosa – e molto ben remunerata – carica di arcivescovo di Reims[30].
Osservando attentamente le opere conosciute, effettivamente si evincono differenze di stile e di materia che permettono di seriarle nel tempo in modo più accurato: la versione di Greenville appare quella più arcaica, più legata al magistero di Andrea Sacchi, sia nella materia meno smaltata e brillante sia nel disegno più incisivo, che conclude con maggiore perentorietà le forme. Negli altri esemplari vi è un pigmento più ricco e pastoso: il lume scorre con dolcezza sulle superfici, conferendo una maggiore evidenza tattile. Anche la composizione, arricchita di personaggi, ai quali viene conferito un più intenso dinamismo porta a una vera e propri escalation barocca, inducendo a una datazione coerente con quella documentata da Santangelo. Allo stato attuale delle conoscenze, quindi, spetta di stabilire quale dei dipinti a Gosford House e già New York, Christie’s, sia quello di committenza Barberini (argomento sul quale sta preparando uno studio approfondito Giovan Battista Fidanza)[31].
Malgrado le informazioni che si potevano agilmente trarre dal già citato saggio del 2012, i dipinti pubblicati vengono tutti datati al 1653 – 1656: nelle schede n. 28 b – c, pp. 386 – 395, non si evince quale possa essere il possibile prototipo, perché in quella relativa all’esemplare di Greenville è scritto:
“Maratti dipinse varie versioni di questo soggetto non citate da Bellori, variamente documentate: la più antica delle tre, orizzontale, appare quella di Greenville per la concezione e lo stile”[32].
In quella sull’esemplare già Christie’s però è scritto:
“La presenza in questa tela di altri pentimenti, riscontrabili del leggero spostamento della croce per inquadrare meglio gli astanti sullo sfondo a destra […] inducono a ritenere che sia questo il prototipo in cui Maratti definì lo schema della composizione, che successivamente condensò in repliche più semplificate, apportandovi alcune varianti”[33].
Proseguendo:
“Non è da escludere che questa sia la versione da identificare con quella commissionata dal cardinale Antonio Barberini e da lui inviata nel 1661 a Louis-Henri de Loménie, conte di Brienne”.
Quindi, leggendo le schede in sequenza, non si comprende quale sia il primo dipinto della serie, né se ne corregge la datazione.
Qualche appunto anche per il Ritratto di Luke Wadding (FIG 10), del quale è scritto che: “è ampiamente citato dal Bellori”[34]. Quella breve citazione non corrisponde al dipinto illustrato, in quanto in essa è scritto chiaramente:
“Ritrasse il padre Fra Luca Wadingo autore degli Annali francescani, che si vede in stampa, con la penna sospesa sopra il libro”,
mentre nella tela illustrata in monografia la mano è senza penna e indica un dipinto con l’ Immacolata Concezione[35].
La questione delle effigi di Wadding, eminente figura di intellettuale dell’epoca, fondatore e più volte padre guardiano del collegio di Sant’Isidoro, dove Maratti ebbe la sua prima affermazione pubblica con le decorazioni delle cappelle Alaleona e del Crocifisso – promosse da Bellori, sindaco apostolico dello stesso collegio dal 1653 al 1684 – è stata ampiamente analizzata e chiarita, alla luce delle fonti dell’epoca, in un eccellente volume di Giovan Battista Fidanza[36]. Il quale sottolinea come l’annalista irlandese fosse stato sempre restio a farsi ritrarre in vita – come puntualizzato nella sua biografia dal nipote Francis Harold – e come l’unico ritratto eseguito dal vivo fosse quello in possesso dell’amico e sodale Ercole Ronconi, celebre avvocato della curia romana, che lo commissionò per la sua biblioteca. Più plausibile, quindi, che l’opera alla quale si riferisce Bellori, al momento dispersa, sia quella testimoniata da una incisione di Étienne Picard su disegno di Carlo Maratti (FIG 11), disegno commissionato da Francis Harold, tratto proprio dalla effige nella biblioteca Ronconi.
L’opera ancora oggi nell’Aula Capitolare del Convento di Sant’Isidoro deve essere stata eseguita dopo la morte del frate: con la sua dipartita vennero infatti richieste numerose immagini postume, come quella della National Gallery di Dublino, che un’ altra incisione di Étienne Picard permette di datare al 1658.
4) “Variando i scherzi de’ medesimi putti”
Uno dei punti oscuri del catalogo di Carlo Maratti riguarda, paradossalmente, alcuni dipinti tra i più famosi della sua produzione: le sovrapporte con putti e ghirlande di fiori, quest’ultime dovute a Franz Werner Von Taam, dettagliatamente descritte nelle biografie (Bellori, Pascoli) che furono tra le più originali invenzioni del maestro, copiate e replicate fino a tutto il Settecento[37]. Come riportato in monografia, riprendendo quanto dettagliatamente scritto da Stella Rudolph nel già citato volume su Niccolò Maria Pallavicini del 1995, è Lione Pascoli, nella vita dedicata al fiorante, a informarci che:
“adornando giusto allora Francesco Montioni di rare pitture alcune sue stanze, in cui mancavano le sovraporte, e che Maratti n’era il direttore a lui (ovvero Von Taam) le commise […] Girarono per le primarie case di Roma per molti giorni, e il Marchese Niccolomaria Pallavicini lo volle conoscere, e gliene ordinò subito quattr’altre simili”[38].
Sappiamo da Bellori che le tele Montioni erano sei, e che Maratti intervenne in quelle del marchese: “variando i scherzi de’ medesimi putti”[39]. Non riportando della recente bibliografia, vengono resi noti quattro dipinti inediti, identificati con certezza con quelli eseguiti per il ricco banchiere d’origine spoletina[40]. Il problema è che non vi sono disegni dettagliati o incisioni d’epoca che permettano di stabilire con certezza quali immagini vennero coniate per il primo o per il secondo committente: quello che possiamo affermare è che Maratti certamente intervenne in modo estensivo nelle opere, considerando coloro che le richiesero.
Niccolò Maria Pallavicini, come è noto, fu il suo più importante committente privato e un suo sodale, al punto che, poco prima di morire, aveva in animo di fondare un’accademia privata nelle stanze del suo palazzo, con direttore proprio il nostro artefice. Altrettanto stretti furono i legami con il Montioni, che la suddetta biografia attesta avere scelto l’allievo di Andrea Sacchi come “direttore artistico” nella sistemazione delle sue raccolte. Senza contare che, oltre alle sovrapporte, richiese una serie con donne illustri dell’antichità, delle quali è pervenuta la splendida Cleopatra oggi conservata nel Museo Nazionale di Palazzo Venezia[41].
I quattro inediti vengono riuniti in un unica serie per via del gradino di marmo ai loro piedi, particolarmente adatto per la loro destinazione, e perché presenterebbero varianti rispetto, ad esempio, ai due originali conservati al Musée du Louvre. A parte che i gradini di pietra compaiono praticamente in tutti gli esemplari noti, e che, in quanto particolare secondario, potrebbero anche essere stati aggiunti dalla bottega su indicazione del maestro, nelle opere pubblicate non abbiamo variazioni di rilievo: la mancanza di un putto non è una variazione, è una semplificazione compositiva che non credo sarebbe stata recepita di buon occhio dai committenti. Cito un esempio per i non addetti ai lavori, particolarmente esemplificativo, che riguarda un artista arcinoto come Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino: sappiamo dal suo libro dei conti di come il prezzo di un dipinto variasse a seconda della grandezza e del numero degli astanti, e di come la sottrazione o l’aggiunta di una figura in una composizione influisse decisamente sul prestigio del prodotto finale[42]. Immagino se il ricco e colto Montioni avesse scoperto che per il suo rivale, il marchese Niccolò, Maratti avesse licenziato praticamente lo stesso quadro ma con l’aggiunta di un putto; non credo ne sarebbe stato lieto.
Pare più plausibile che le quattro tele, riferite nella monografia alla committenza del ricco banchiere spoletino, derivino da originali, dei quali semplificano l’invenzione. Infatti, anche dal punto di vista qualitativo, esse sono più plausibilmente da ricondurre alla bottega: il confronto tra un inedito illustrato in monografia (FIG 12) con un dipinto certamente autografo (FIG 13) conservato nel Musée du Louvre mi pare davvero dirimente in tal direzione.
Si osservi lo schematismo dei panni, quasi di cartapesta, il disegno insistito e pedante che individua i putti, dai volti stolidi e bamboleggianti, a contrasto con la pittura fragrante e materica dei loro corrispettivi in Francia: in questi ultimi vi è una finezza nella restituzione dei partiti chiaroscurali, dolcemente trascoloranti, una scioltezza di tocco, anche nella parte dei fiori spettante a Taam, volta a evocare le differenti consistenze delle epidermidi e delle corolle, che viene completamente perduta nelle presunte sovrapporte Montioni, ben più grossier anche nella raffigurazione dei festoni. Ritengo quindi che essi siano dei discreti lavori di atelier, e che la questione rimanga, al momento, aperta ad ulteriori approfondimenti.
5) Omissis
In monografia non sono schedati inediti emersi nel corso del tempo, in collezione privata o sul mercato antiquario, compresi dipinti conservati in prestigiose sedi museali: cito qualche esempio. Nel Museo del Prado è una squisita Natività (https://www.museodelprado.es/en/the-collection/art-work/the-virgin-laying-the-sleeping-christ-on-straw/74f50d40-69d4-460d-ba58-f246fe8083de) su tavola circolare derivante dall’omonimo affresco della cappella Alaleona nella chiesa di Sant’Isidoro: essa proviene dalla collezione di Carlo Maratti che, come sappiamo, venne acquisita dal re di Spagna per tramite dell’allievo Andrea Procaccini, al tempo ritrattista e pittore di corte, dall’eredità della figlia del maestro, Faustina[43]. Resa nota da Alfonso E. Sánchez Péréz nel 1965, il suo riferimento al maestro di Camerano non ha subito, giustamente, variazioni nel corso dei decenni: infatti l’opera è stata anche esposta in ben tre mostre curate da Manuela Mena Marqués, pioniera nello studio dell’opera di Carlo Maratti ed una delle massime esperte dell’artista.
La qualità è davvero sopraffina: dipinta quasi di getto, con le pennellate dense di materia lasciate a vista, che si fanno sprezzanti nella restituzione del giaciglio di paglia, più suadenti e morbide per la raffigurazione dei morbidi panni – vedi anche i piccoli tocchi a rendere le rifrangenza del lume sulla punta delle dita della Vergine – essa è a mio parere una memoria dall’affresco a Sant’Isidoro, un dipinto – prototipo dal quale germinarono copie e un originale, al momento noto, ovvero il dipinto oggi conservato nella Gemäldegalerie di Dresda[44].
Sorprende ancora di più l’esclusione dal catalogo del San Pietro penitente (https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:San_Pietro_penitente_-_Maratta.jpg) esposto nelle sale del Museo di Capodimonte, opera nota e pubblicata in più occasioni, della quale esiste anche una scheda online nel catalogo generale dei beni culturali (https://catalogo.beniculturali.it/detail/HistoricOrArtisticProperty/1500625858)[45]. Proveniente dalle collezioni Farnese, non citato nelle fonti, il dipinto è databile alla fine degli anni settanta del Seicento, per le affinità con la pala di Santa Maria del Carignano a Genova, del 1676 – 1678 (i volti dei due protagonisti sono quasi gemelli), con La morte di san Francesco Saverio, del 1679 circa, in collezione privata a Berlino e con il Cristo nell’orto, del 1680 circa, in collezione privata a Londra, dove ricorrono il formato orizzontale e le figure poste sul primo piano che occupano gran parte dello spazio pittorico[46]. Se il volto del santo è un ennesimo omaggio a Guido Reni, svolto in chiave barocca, colpisce, soprattutto, come sia conferita una evidenza quasi scultorea al santo penitente, tramite i ricchi panni dalle pieghe rigonfie e ondeggianti, e la finissima restituzione delle gradazioni tonali del lume che tornisce i volumi. Non casualmente Cristiano Giometti, nella sua eccellente monografia su Domenico Guidi, pubblica il dipinto napoletano ponendolo in stretta relazione con la produzione dello scultore[47].
Termino con un rame di squisita fattura (FIG 14): La Virtù trionfa sul Tempo, di recente entrato nelle collezioni del Museo del Barocco di Ariccia, come donazione Peretti, pubblicato da Francesco Petrucci nella collana ‘Quaderni del Barocco’ nel 2023, per il quale esiste anche un disegno preparatorio, conservato all’Accademia Albertina di Vienna[48].
Afferente ad esso è stato trovato anche un documento che ne chiarisce la committenza e ne conferma l’attribuzione a Carlo Maratti (come argomenterà più diffusamente Giovan Battista Fidanza in una prossima pubblicazione)[49].
Ignorato in monografia, fungeva da mostra per un orologio notturno, in un ben preciso ambito delle arti decorative del quale il nostro pittore fornì almeno un altro esempio che gli possiamo attribuire con certezza (per un’opera già Colnaghi pubblicata da Alvar-González Palacios). Si rimanda alla pubblicazione on line (https://www.palazzochigiariccia.it/wp-content/uploads/2019/10/Carlo-Maratti-Quaderni-del-Barocco-40-2023.pdf) per ulteriori informazioni sull’opera, e sulle motivazione dell’attribuzione, del tutto convincente, a Carlo Maratti, che mi pare indubbia per esecuzione e stile, quest’ultimo del tutto pertinente con la sua produzione giovanile.
Alessandro AGRESTI Roma 1° Dicembre 2024
NOTE