di Francesco PETRUCCI
Il 7 ottobre 2024 è stata presentata presso la Sala della Clemenza di Palazzo Altieri la monumentale monografia in due volumi di Stella Rudolph e Simonetta Prosperi Valenti Rodinò: Carlo Maratti (1625-1713) tra la magnificenza del Barocco e il sogno d’Arcadia. Dipinti e disegni, Ugo Bozzi Editore, Roma 2024, relatrici Silvia Ginzburg, Barbara Jatta e Ilaria Miarelli Mariani.
Tale pubblicazione, più volte annunciata dalla massima specialista del grande maestro del Barocco romano, la storica dell’arte americana Stella Rudolph (Norwall, USA, 12 luglio 1942 – Firenze, 17 maggio 2020), era molto attesa da anni, tanto che per ricercatori e collezionisti restava ancora quale punto di riferimento al catalogo dell’artista l’accuratissimo articolo di Amalia Mezzetti, non ancora obsoleto nonostante i settant’anni trascorsi dalla sua comparsa sulla “Rivista dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’Arte”.[1]
Si tratta a tutti gli effetti di un’ottima monografia, puntuale dal punto di vista filologico ed editoriale, che rende omaggio ad una vita di ricerche da parte dell’insigne studiosa scomparsa, grazie all’encomiabile lavoro di Simonetta Prosperi Valenti Rodinò, che ha avuto l’umiltà e la perseveranza di occuparsi della trascrizione, traduzione e revisione dei testi della Rudolph, rispettando la sua catalogazione delle opere, aggiornandola bibliograficamente e criticamente. Pochissime le aggiunte.
Fondamentale il contributo sui disegni della co-autrice, specialista del disegno barocco romano non solo in ambito marattesco, che arricchisce ulteriormente la preziosa edizione d’arte. Infatti la complessa problematica della vasta produzione grafica del maestro, da sceverare rispetto a quella dei moltissimi allievi, talora quasi dei cloni, avrebbe impedito a chiunque di approdare ad un catalogo ragionato del pittore.
Eccellente la qualità della stampa e dell’editing, dovuti alla maniacale cura di Ulrico Bozzi, che fa della pubblicazione uno degli esiti editoriali più alti della gloriosa casa editrice romana, ma anche della produzione internazionale nel settore, non solo in Italia.
Questa monografia è stata a mio avviso la migliore soluzione possibile al problema Maratti – o Maratta come veniva chiamato a Roma in quasi tutti i documenti del suo tempo e come preferisco citarlo per romanità -,[2] contemperando dal punto di vista deontologico il rispetto dell’enorme lavoro della storica dell’arte americana, con la quale la casa editrice Bozzi aveva peraltro firmato un contratto il 30 gennaio 2018, e il suo indispensabile aggiornamento, soprattutto alla luce di recenti studi.
Sembrano in tal senso in gran parte pretestuose le critiche che sono state mosse da parte di Alessandro Agresti nelle sue due recensioni a tale enorme ed encomiabile fatica.[3]
La prima è apparsa su “Il Giornale dell’Arte”, con una visione generale della pubblicazione e dei suoi presunti limiti (“si poteva fare di meglio” riporta il titolo della versione online), la seconda su questa stessa rivista, ove, ribadendo i punti di vista precedentemente espressi, lo storico dell’arte, parlando di “ombre che inficiano un giudizio totalmente positivo sulla monografia”, entra nel merito di alcune singole opere presenti nel catalogo ragionato, a suo avviso inficiato da “sviste” che “difficilmente avrebbero passato il vaglio di Stella”. Lo studioso annuncia una terza disamina in sede scientifica ove entrerà nel merito di altre opere, essendoci
“almeno una quarantina di attribuzioni da rivedere, paragrafi poco chiari e omissioni di opere autografe pubblicate”.
Il recensore tuttavia sembra non aver letto con attenzione l’Introduzione alla monografia (vol. I, pp. IX-XVI), quando scrive che le schede
“dalla n. 1 alla n. 135 erano già pronte per essere edite, salvo, anche in questo caso, i controlli del caso, correzioni (erano comunque delle bozze), eventuali integrazioni e aggiunte in bibliografia, mentre dalla 136 alla 251 esse sono dovute alla sola Simonetta Prosperi Valenti Rodinò.”
In realtà nella citata Introduzione viene chiaramente specificato che le schede derivano dai testi della Rudolph, quelle dal cat. 1 al cat. 135 già dattiloscritte in italiano, quelle successive redatte integralmente in prima stesura in inglese. Tutte le schede sono state aggiornate bibliograficamente e limitatissime sono quelle nuove, peraltro basate su expertises della studiosa, presenti in cataloghi d’asta, cataloghi di mostre e nel suo archivio fotografico. [4]
Secondo l’esame critico mancherebbero nell’opera approfondimenti sui rapporti con il mercato, il contesto storico, i pontefici e le grandi casate, le relazioni con l’Accademia di San Luca e la scultura contemporanea, indagini sull’organizzazione della bottega e sugli allievi, sulle opere perdute e sulle attribuzioni respinte, un regesto documentario e persino un’antologia critica. In realtà nei saggi questi punti sono toccati e c’è un lungo capitolo dal titolo La Fortuna critica (vol. I, pp. 149-171).
Ma se fossero stati inseriti tutti questi inutili approfondimenti, peraltro ben presenti in tutta la sterminata bibliografia sull’artista, compresi gli scritti della Rudolph e due convegni (Maratti e l’Europa, a cura di L. Barroero, S. Prosperi Valenti Rodinò, S. Schütze, 2015; Maratti e la sua fortuna, a cura di S. Ebert-Schifferer, S. Prosperi Valenti Rodinò, 2016), invece di due volumi e 1255 pagine complessive ci sarebbe voluta un’enciclopedia su Maratti!
In effetti quello veramente necessario e atteso da anni era il catalogo dei dipinti e dei disegni ad essi connessi, compresi quelli per opere non rintracciate, e questo c’è. Mancano alcune nuove attribuzioni, ma il libro, come premesso, segue al 99% l’impostazione e le scelte della Rudolph.
Anche il sottoscritto, leggendo meticolosamente tutte le schede in catalogo, avrebbe alcune precisazioni da fare e potrebbe esprimere qualche differente punto di vista come avviene peraltro in tutti i repertori monografici, ma si tratta di aspetti marginali e valutazioni soggettive da sviluppare in ambiti specialistici, non in una recensione generale sull’opera.
L’attento esaminatore eccepisce inoltre sulla scansione cronologica delle opere in catalogo, che porterebbe a suo avviso “a un risultato sotto certi versi alquanto confusionario”. Ma tale scelta è dovuta alla stessa studiosa americana, che peraltro aveva consegnato sin dal 1994 il catalogo ragionato a Patrizio Busiri Vici, all’epoca responsabile della casa editrice romana, salvo poi ritirarlo per approfondimenti senza più riconsegnarlo. Questo mi riferiva il compianto Patrizio, zio di Ulrico.
Infatti, come noto, sebbene quelli del sottoscritto siano tra i pochi studi monografici con opere divise per tipologia, gran parte delle monografie di artisti, anche recenti, sono basate su un impianto cronologico.
Si tratta di una scelta soggettiva dell’autore che privilegia l’evoluzione stilistica rispetto alla tipologia delle opere, come hanno fatto Giuliano Briganti in Pietro da Cortona (Firenze 1962, 1982), Ann Sutherland Harris in Andrea Sacchi (Oxford 1977), Alessandro Brogi in Ludovico Carracci (2001), Herwarth Röttgen in Il Cavalier Giuseppe Cesari D’Arpino (2002), Patrizia Tosini in Girolamo Muziano (2008), Guendalina Serafinelli in Giacinto Brandi (Torino 2015), Nicholas Turner in The painting of Guercino (Roma 2017), Nicola Spinosa in Francesco Solimena (Roma 2018), Maria Grazia Bernardini in Bernini. Catalogo delle sculture (Torino 2021) e molti altri.
Mancherebbe inoltre un’appendice documentaria, ma tutti sappiamo che la Rudolph non era una cultrice di archivi e una ricercatrice di materiale documentario, come gran parte degli storici dell’arte della sua generazione. Era più interessata al riconoscimento dell’opera d’arte, alla sua lettura iconografica e stilistica, al suo inserimento nel contesto storico e committenziale.[5]
Tuttavia ripubblicare tutti i documenti che si sono accumulati negli anni, da Vincenzo Golzio a Giovan Battista Fidanza, compresi quelli resi noti dal sottoscritto, sarebbe stato un appesantimento di scarsa utilità, facendo lievitare ulteriormente gli enormi costi di una pubblicazione che ha richiesto un grande impegno editoriale e finanziario.
Certamente ulteriori scandagli negli archivi delle grandi casate romane potrebbero portare a nuove acquisizioni documentarie, soprattutto quello Altieri, una casata legata da rapporti di mecenatismo con l’artista le cui carte sono praticamente inesplorate. Ma tutto questo avrebbe richiesto tempi lunghi e opportunità allo stato attuale mancanti, facendo slittare a un futuro incerto una monografia già attesa da decenni!
Il recensore entra poi nel merito di alcune attribuzioni, che tuttavia, come premesso, sono dovute, salvo rarissime eccezioni, proprio a Stella Rudolph, definita dallo studioso
“storica dell’arte di primo livello, alla quale mi ha legato una profonda amicizia, e una stima incondizionata”,
affermando enfaticamente nel titolo del suo necrologio – ove la dice “nata in Inghilterra nel 1642”, mentre era americana – “si è spenta una Stella”![6]
Tra le opere contestate l’Immacolata Concezione della Pinacoteca Nazionale di Palazzo Arnone a Cosenza, che viene riferita alla bottega considerandola di bassa qualità e riduttivamente “un vero e proprio montaggio delle sue invenzioni” (fig. 1).[7]
In realtà il dipinto, un autentico capolavoro proveniente dalla prestigiosa collezione del Duca di Marlborough a Blenheim Palace, era stato attribuito a Maratti da Giuliano Briganti e dalla stessa Stella Rudolph, che diede assistenza alla redazione della scheda nel catalogo della mostra tenuta nel 1991 presso la galleria Bigetti, cui il dipinto apparteneva, annunciandone l’inserimento nella monografia “di prossima pubblicazione presso l’editore Ugo Bozzi, Roma”.[8]
La scheda in catalogo è tratta peraltro integralmente da un suo scritto e la foto era nel suo archivio.
Agresti contesta anche la probabile provenienza originaria del dipinto dalla collezione del Marchese del Carpio, ambasciatore a Roma e Viceré a Napoli, nel cui inventario del 1682 era descritto “Un quadro, che rappresenta La Concettione col Bambino Giesù, che ammazza il serpente con gloria di Angioli, di mano di Carlo Marati, di palmi 10. e 8.”, sollevando dubbi su pochi centimetri di differenza.[9]
Ma chi studia gli antichi inventari sa bene l’approssimazione delle misure, soprattutto per grandi tele collocate in alto, tanto che negli inventari Chigi, che ben conosco, le misure raramente corrispondono con precisione a quelle delle opere reali!
A riguardo, a conferma di tale corretta ipotesi di provenienza, è da rilevare che nella stessa collezione del Duca di Marlborough confluì sempre dalla collezione del Marchese del Carpio la copia della Fontana dei Fiumi di Bernini, poi montata nel parco di Blenheim Palace.[10]
Si tratta in effetti di un unicum, rispetto alle numerose derivazioni desunte in termini letterali dalla celebre pala della Cappella De Sylva in Sant’Isidoro (fig. 2), motivato dalla strenua difesa da parte della corona spagnola del culto immacolistico, come sottolinea Leticia de Frutos.[11]
Lo storico dell’arte definisce replica con varianti di bottega da un perduto originale l’Adorazione dei Magi delle collezioni della Banca d’Italia (fig. 3), pubblicata invece come autografa dalla Prosperi – in questo caso autrice della scheda e responsabile dell’attribuzione -, rilevando che la composizione differirebbe per numerose varianti rispetto all’incisione in controparte di Louis Dorigny derivata dal prototipo marattesco.[12]
Un’osservazione corretta, ma se il dipinto documentato dalla stampa è perduto, questo non significa che la tela romana sia di bottega. Il modo di dipingere con una materia corposa e potentemente costruttiva, in evidenza di pennellata, ma soprattutto la qualità molto alta, ne giustificano la piena autografia, come ha correttamente proposto la studiosa romana. Forse si tratta di un modello per la versione finale poi incisa, cui furono aggiunte piccole variazioni, alcune ad opera dello stesso incisore come testimoniava Mariette.
La precedente attribuzione della tela a Giuseppe Bartolomeo Chiari, ritenuta quasi probante dal recensore, si basava sull’esistenza di due dipinti firmati dall’allievo in parte ispirati al modello del maestro, rispettivamente a Dresda, Staatliche Kunstsammlungen, e a Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, ma completamente diversi nella composizione, nella disposizione delle figure e soprattutto nella pittura (figg. 4, 5).[13]
Giudicare il lavoro degli altri è compito difficile e improbo, soprattutto quando si tratta di studiosi/e autorevoli, del calibro delle autrici di questa notevole monografia: bisognerebbe andarci in punta di piedi. Per questo il sottoscritto l’ha fatto raramente e solo quando sollecitato dagli autori.
Se tuttavia guardiamo la pubblicazione del recensore sullo stesso artista: Carlo Maratti. Eredità ed evoluzioni del classicismo romano, De Luca Editori d’Arte, Roma 2022, sorgono proprio qui non pochi dubbi su molte attribuzioni.
Appare arbitraria l’idea di voler dare un nome alle numerose copie di opere del Maratta, genericamente riferibili alla bottega, che presupporrebbe capacità sensitive e rabdomantiche estranee allo stesso maestro. Il piccolo formato e la riproduzione in bianco e nero delle opere le rende ingiudicabili, considerando che l’autore nella recensione in esame scrive:
“Ci saremmo in realtà aspettati da un libro di questo livello – la monografia Bozzi – quasi tutte le immagini a piena pagina e con dettagli”
(in verità tutte le immagini di opere importanti sono pubblicate a colori, tra schede e saggi nel primo volume, peraltro di ottima qualità).
Viceversa omologare le due redazioni della Visione del venerabile Juan de Palafox, cioè il prototipo già in collezione privata a Siviglia, ricomparso in asta Durán a Madrid nel 2018, proveniente probabilmente dalle collezioni di Carlo III di Spagna (figg. 6, 7) e la copia in collezione privata romana resa nota nel 2017, a “Carlo Maratti e bottega”, appare altrettanto fuorviante, vista l’enorme differenza qualitativa tra le due, come peraltro recepito da Simonetta Prosperi nella monografia.[14]
Ricordo che la versione in collezione privata romana, apparsa in asta da Christies’ a Londra il 15 giugno 2005 con riferimento a Felice Torelli raffigurante La Madonna appare a san Giovanni Nepomuceno (stima di 12,00-18,00 £, lot 665), che tutti abbiamo avuto modo di vedere in esposizione da Christie’s a Londra il 6 luglio 2018 con attribuzione a Maratta, ha una qualità modesta e caratteristiche proprie di una copia, rimanendo invenduta come era prevedibile (stima 50,000-80,00 £, lot 211). È rimasta invenduta anche all’asta Christie’s di Londra del 5 luglio 2019, sebbene avesse dimezzato la stima (25,00-35,00 £, lot 224), fino ad essere esitata al minimo della valutazione all’asta Bonhams del 7 luglio 2021 (stima 15,00-20,00 £, lot 65).
Sembrano scarsamente attendibili in questo volume del 2022 alcune attribuzioni al grande caposcuola, a partire dalla modesta copia tagliata in formato orizzontale del Riposo durante la Fuga in Egitto recuperata nei depositi di Palazzo Pitti, derivata dalla pala della Cappella del Voto del Duomo di Siena (1663-64. Roma, Galleria Nazionale d’Arte Antica, Palazzo Barberini).[15]
Anche l’affermazione che la pala senese sia “la più ambiziosa committenza papale fino a quel momento espletata dal Pittore”, non tiene conto di una commissione precedente ben più prestigiosa: la grandiosa Adorazione dei pastori sulla principale testata della Galleria di Alessandro VII nel Palazzo del Quirinale (1657), ove il giovane talento assunse un ruolo primario rispetto a tutti i pittori ben noti prescelti dal papa e dal Cortona per il ciclo della galleria (fig. 8).[16]
Il Ritratto di Innocenzo X in collezione privata, ritenuto autografo di Carlo Maratti, è una delle tante copie derivate dal ritratto a figura intera di Giusto Sustermans della Galleria Palatina di Palazzo Pitti eseguito nel 1645,[17] mentre sembra molto debole, perlomeno a giudicare dalla foto, l’Aronne in collezione privata (fig. 9).[18]
L’ennesima versione del Bagno di Diana con ninfe e Atteone in collezione privata, messa addirittura in copertina, per lo sfumato e la morbidezza della pittura appare essere cosa settecentesca vicina a Frans van Bloemen (così peraltro era considerata in precedenza). Come noto il prototipo di tale caposaldo, dipinto in collaborazione con Gaspard Dughet, è la tela conservata a Chatsworth, Devonshire Collection (fig. 10), di superiore qualità rispetto a tutte le altre numerose versioni – Agresti stranamente parla di “precario stato conservativo”, non corrispondente alle ottime condizioni del dipinto, come mostra la foto pubblicata nel catalogo Bozzi -, identificabile con l’opera commissionata dal principe Lorenzo Onofrio Colonna (1660 ca.), poi passata nella collezione del Marchese Pallavicini, acquistata da William Cavendish 4° Duca di Devonshire nel ‘700, ricordata da Giovan Pietro Bellori.[19]
Un’interessante derivazione di bottega del Bagno di Diana in formato orizzontale mi è stata segnalata per un parere da Sotheby’s il 17 luglio di quest’anno (fig. 11, olio su tela, cm. 71 x 96).
Si tratta chiaramente di un riassemblaggio delle ninfe, spostate e ricomposte a gruppi, presenti nella famosa composizione di Chatsworth. Se l’attribuzione a Dughet del paesaggio sembra corretta, le figure, pur essendo di buona qualità e sciolte nell’esecuzione, devono riferirsi alla bottega del Maratta, forse ad uno stretto e valido collaboratore dei primi anni come Niccolò Berrettoni (1637-1682).
Il dipinto sembrerebbe poter corrispondere alla versione già nella collezione Falconieri, che aveva un formato orizzontale (erroneamente si ritiene, in questo e altri scritti, che fosse simile a quella Colonna), ricordata assieme ad un “Narciso alla fonte” nell’inventario dei quadri di casa Falconieri del 1717:
“2 Paesi, grandi, di Gasparo Pusino, con le figure del Cavalier Carlo Maratti, rappresentano Diana al bagno con Atheone, e l’altro Narciso al fonte”.
Tuttavia la composizione, il formato e le dimensioni erano diverse, come si evince dalla dettagliata descrizione del quadro Falconieri quando fu venduto in asta a Parigi il 19 aprile 1825 presso Augustin Lapeyrière, con attribuzione a Gaspard Dughet e per le figure a Pietro da Cortona.[20]
Per concludere sul volume di Agresti, non entrando nel merito delle numerose attribuzioni ad allievi e seguaci, alcune veramente discutibili, appare arbitrario il riferimento ad una collaborazione con Giuseppe Passeri del Ritratto del cardinale Giovan Francesco Albani, opera firmata e datata 1669 resa nota dalla Rudolph, peraltro documentata negli inventari Albani (fig. 12).[21]
Il suo calo di qualità è determinato solo da un cattivo stato conservativo della tela, che fu soggetta ad un lungo difficile restauro sotto la direzione della stessa studiosa americana, come lei stessa mi riferiva, quando apparteneva al compianto Gian Ludovico Masetti Zannini per discendenza Albani.
Anche il proposto riferimento a Guglielmo Cortese del Ritratto di dama esposto come Maratta da Colnaghi a Londra nell’aprile-maggio 1971 (fig. 13), secondo l’occhio infallibile di Ferdinando (Nando) Peretti allora proprietario con Jacob Rothschild di quella che è la più antica galleria antiquaria del mondo, pubblicato poi dal sottoscritto nel 2008, non corrisponde alla fluidità pittorica del francese, ma ha la solidità materica e il senso plastico del pittore marchigiano, cui corrisponde anche la posa di scorcio con il braccio destro posto a squadra di traverso, quasi un’invariante nei ritratti del suo vero autore.[22]
Avevo pensato che la ragazza, vista una certa familiarità fisiognomica con le donne di casa Rospigliosi, potesse identificarsi con Caterina Banchieri, confrontando con i suoi ritratti di Pierre Ronche.
Oggi sono orientato a credere che possa trattarsi della sorella Maddalena Rospigliosi Panciatichi, proprio al confronto con il suo ritratto in tela d’imperatore di Maratta, a mio avviso databile qualche anno dopo durante il pontificato dello zio Clemente IX (1667-69), noto in più repliche tra le quali a mio avviso spicca per il vivo pittoricismo la versione ex Salander O’Reilly Galleries (fig. 14).[23]
In questo caso la donna sarebbe molto più giovane, simile al suo ritratto nella “galleria della belle” di Ariccia, forse all’epoca del fidanzamento nel 1664, quando aveva 19 anni.[24]
Se tale ipotesi è giusta, il dipinto in grande formato potrebbe corrispondere a “Un Ritratto in tela d’Imperatore dell’Ecc.a S.a D. M.a Madalena Rospigliosi”, come riportato nella monografia Rudolph-Prosperi, mentre il secondo sarebbe “Un Ritratto della S.a D. M.a Madalena Rospigliosi in tela da testa”, entrambi presenti nell’inventario Rospigliosi del 1713.[25]
Sempre in merito al volume del 2022, è destituita di qualsiasi fondamento stilistico l’attribuzione a Giovan Battista Gaulli del Ritratto di giovane conservato a Shropshire, Attingham Park (The National Trust Collections), già riferito a Carlo Maratti o a Jacob Ferdinand Voet (fig. 15). A mio avviso si tratta di un dipinto fiorentino, non lontano, come mi suggerisce Francesca Baldassari, dai modi di Anton Domenico Gabbiani.[26]
Concludo questa rapida disamina sui due volumi recentemente editi, citando il pregevole articolo sulla committenza marattesca del cardinale Antonio Barberini, appena pubblicato da Giovan Battista Fidanza, uno studioso che ha fornito negli ultimi anni i maggiori contributi documentari al catalogo del maestro marchigiano.[27]
Esso prende in esame La Virtù trionfa sul Tempo (fig. 16, olio su rame, cm. 51 x 42), che pubblicai con attribuzione al Maratta per motivi stilistici e in base al disegno preparatorio dell’Albertina di Vienna reso noto da Simonetta Prosperi Valenti Rodinò (Graphische Sammlung, inv. 929).[28]
Lo straordinario rame, un tempo frontespizio di un orologio notturno, è stato donato con rara generosità da Matteo Peretti, figlio del compianto Ferdinando nostro mecenate, a Palazzo Chigi in Ariccia il 12 luglio 2024.
Ebbene Fidanza ha rintracciato il pagamento al pittore del 30 dicembre 1662 a “servitio dell’eminentissimo Signor Cardinale Antonio Barberini” per vari quadri tra cui
“una mostra d’orologio dipinta con molte figure rappresentante il Tempo che consuma il tutto eccettuatone la Virtù”,
pagata la cospicua somma per un piccolo rame di ben 80 scudi. Si tratta evidentemente della mostra d’orologio oggi ad Ariccia.[29]
Francesco PETRUCCI Ariccia, 22 dicembre 2024
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