di Claudia RENZI
L’UNICO “MAFFEO” BARBERINI DI CARAVAGGIO
Dallo scorso 23 novembre in Palazzo Barberini, Sala dei Paesaggi, è possibile ammirare il Ritratto di monsignore Maffeo Barberini di Caravaggio (1598-9, coll. priv. – Fig. 1) esposto per la prima volta grazie all’impegno, profuso da molti, concretizzatosi nell’evento intitolato “Caravaggio. Il ritratto svelato”.
Il dipinto, proveniente dalla collezione Barberini – la donazione fatta dal neo papa Urbano VIII nel settembre 1623 in favore del fratello Carlo cita infatti “Un ritratto del signor Cardinal Barberino Chierico di Camera con cornice nere”[1] –, andò quasi certamente disperso negli anni ’30 del secolo scorso, quando la famiglia ottenne il regio consenso ad alienare parte della propria collezione, e pervenne quindi poi sul mercato antiquario dove lo individuò Giuliano Briganti, il quale, come risulta dal carteggio tra lui e Roberto Longhi, concesse a quest’ultimo di pubblicare l’opera; Longhi dunque rese noto il dipinto, dopo un inevitabile restauro, nel 1963 in un contributo dal titolo dal sapore spiccatamente polemico: il “vero” Maffeo Barberini[2].
La provocatoria specifica si doveva al fatto che, al tempo, un altro dipinto di sicura provenienza barberiniana, il cosiddetto Ritratto di prelato con caraffa di fiori (1595 ca., coll. priv. Corsini – Fig. 2) – restituito a Caravaggio da Venturi nel 1912[3] dopo un periodo nel quale era stato attribuito a Scipione Pulzone o meglio alla sua scuola, e come tale esposto nella Mostra del Ritratto italiano: dalla fine del secolo XVI all’anno 1861 tenutasi a Firenze del 1911 – contendeva a Maffeo sia l’autografia caravaggesca che l’identità dell’effigiato.
Citato in un Inventario di casa Barberini del 1655 – “351. Un quadro con dentro un prelato con caraffa con fiori dentro con un libro aperto, che tiene la mano sopra e sta a sedere”[4] (ma già citato nel suddetto Inventario del 1623 al n. 111) – l’apprezzabile somiglianza del Prelato con il futuro Urbano VIII combinata all’incontestabile provenienza e qualità del dipinto costituirono un problema insormontabile per Longhi, il quale lo aveva fortemente avversato già anni prima che riemergesse Maffeo[5]; quando poi il Prelato era stato esposto, stavolta come di Caravaggio, nella celebre Mostra del Caravaggio e dei caravaggeschi svoltasi al Palazzo Reale di Milano nel 1951, il suo disappunto fu enorme, ma nel 1963, forte della scoperta del Maffeo, stroncò il concorrente liquidandolo come “povero dipinto”[6], sostenendo che il Prelato non poteva essere di Caravaggio perché convinto che il maestro avesse licenziato su commissione di Maffeo Barberini un unico ritratto, che quell’unico ritratto ritraesse Maffeo, e che fosse ovviamente quello pubblicato da lui.
A leggere con attenzione fonti e documenti è tuttavia chiaro che invece Caravaggio licenziò per Maffeo più di un ritratto, non necessariamente ritraente lui soltanto.
Da Giulio Mancini, che del futuro Urbano VIII fu medico personale, sappiamo che Caravaggio “fece ritratti per Barbarino”[7] [grassetto mio], ovvero più di uno, effigianti persone diverse, laddove se il biografo avesse voluto intendere che Caravaggio aveva eseguito per Maffeo più ritratti effigianti soltanto lui avrebbe scritto altrimenti “gli fece più di un ritratto”. Tra questi ritratti fatti per Barbarino è possibile annoverare sia il suddetto Ritratto di prelato con caraffa di fiori che il Ritratto in esame, contemplando però che il Prelato non ritrae Maffeo Barberini ma piuttosto, come ho già proposto su queste pagine e come approfondirò oltre in questa sede, il monsignor Francesco Barberini senior, suo zio e benefattore[8].
Bellori sembra confermare che Caravaggio dipinse un unico ritratto effigiante Maffeo:
“Al cardinale Maffeo Barberini, che fu poi Urbano VIII Sommo Pontefice, oltre il ritratto, fece il Sacrificio di Abramo, il quale tiene il ferro presso la gola del figlio che grida e cade”[9]:
dunque il Prelato raffigura qualcun altro; ma Bellori affermò anche che il maestro licenziò altre opere, oltre il ritratto personale, per Maffeo, come del resto confermano i documenti: nel 1603 il Sacrificio di Isacco (Firenze, Galleria degli Uffizi), che risulta saldato nel gennaio 1604 per la somma totale di 100 scudi: “Sc. venticinque moneta buoni a signori Doni per tanti che di mio ordine hanno pagato a Michelagnolo di Caravaggio per a buon conto di un quadro”[10], saldo comprensivo di altri dipinti dei quali non è specificato il soggetto: “Scudi 50 […] a Michelagnolo da Caravaggio per resto di pitture avute da lui sin al presente giorno”[11].
Dunque in totale, allo stato attuale degli studi, sembra potersi ricavare che Maffeo Barberini commissionò a Caravaggio almeno tre dipinti: il Ritratto di mons. Francesco Barberini senior (altrimenti noto come Ritratto di prelato con caraffa di fiori), il suo ritratto in esame cioè il Ritratto di mons. Maffeo Barberini e, qualche anno dopo, Il sacrificio di Isacco.
Nella biografia di Caravaggio Bellori apostrofò Maffeo “cardinale”; in realtà Maffeo venne creato cardinale soltanto l’11 settembre 1606, quando il pittore era già purtroppo lontano da Roma in seguito alla tragica uccisione di Ranuccio Tomassoni, dunque per Caravaggio Maffeo Barberini non fu mai “Eminenza”, ma soltanto monsignore.
Il Ritratto di Maffeo Barberini mostra dunque il monsignore Maffeo seduto su uno scranno – quasi una prefigurazione di quel trono su cui siederà oltre vent’anni dopo – contro il quale è poggiata una “memoria”, ovvero una custodia per pergamene o documenti, colto nell’atto di alzare la mano dx a indicare qualcosa o qualcuno fuori campo che l’ha distratto (Fig. 3), mentre nell’altra stringe una lettera piegata (Fig. 4).
Imponente, statuaria, la figura è iresa ancor più solenne dalla luce, cadente da sx verso dx, che ne esalta i tratti marcati ma non privi di una certa qual grazia (Fig. 5) e, come in altri ritratti noti licenziati da Caravaggio, lo sfondo è neutro, dato che l’attenzione deve essere rivolta al soggetto.
L’occasione per questo dipinto è stata quasi certamente la nomina a Chierico di Camera, titolo ottenuto, grazie allo zio monsignore Francesco senior, nel marzo 1598 (e divenuto effettivo nel marzo 1599)[12]: l’effigiato è infatti qui ancora giovane – essendo Maffeo nato il 5 aprile 1568, ha circa trent’anni – il dipinto va dunque datato tra 1598 e 1599; in generale, inoltre, non risulta esasperatamente scuro, tanto che persino dalle foto amatoriali emerge una chiarezza di tavolozza (Fig. 6) che ne impone la collocazione necessariamente prima dell’esecuzione dei laterali Contarelli, raffiguranti la Chiamata e il Martirio di san Matteo, licenziati tra 1599 (post luglio) e 1600 (entro luglio) quando, com’è noto, Caravaggio iniziò a “ingagliardire gli oscuri”[13].
In un ritratto, oltre ai tratti somatici, anche l’abbigliamento e gli attributi hanno spesso un ruolo significativo, latore di un messaggio per lo più in chiave allegorica che l’effigiato voleva comunicare a chi avrebbe visto l’opera: Maffeo Barberini è vestito da protonotaro apostolico – carica che lo zio Francesco gli aveva generosamente ceduto nel 1593 e che altrimenti Maffeo avrebbe dovuto comprare, posto che ne avesse avuta la possibilità, per almeno 7.000 scudi d’oro – e indossa perciò talare nera con bordi, occhielli e fodera color rubino, biretta nera e cotta bianca semplice.
La custodia tubolare o “memoria” poggiata contro lo scranno allude e contiene probabilmente la tale carica (Fig. 7).
Il Ritratto di mons. Maffeo Barberini è caratterizzato da un certo dinamismo; il soggetto appare affabile, pronto ad affrontare con pazienza le sedute di posa necessarie eppure anche sicuro di sé e volitivo, almeno a giudicare da come stringe la lettera, magari per dissimulare il dispetto di essere stato disturbato durante la seduta.
Secondo gli osservatori papa Barberini era “pronto di motti, alle facetie e all’argutie”[14]; dotato di
“moltiloquio naturale, erudito tanto che parla di tutte le cose con quell’esquisitezza che genera una lingua eloquente”[15];
a volte spregiudicato ma capace di stare allo scherzo come quando Giulio Mancini, ormai suo archiatra, con una battuta diventata poi virale cercò forse di farlo ragionare – senza successo – circa i bronzi del Pantheon:
“Il signor Giulio Mancini medico secreto del Papa ragionando l’altro giorno con Sua Santità sopra li travi di bronzo che si levano dal tempio della Rotonda con cancellare sì bella memoria dell’antica grandezza de’ Romani, disse motteggiando che quello che non avevano fatto i Barbari, facevano i Barberini”[16];
eppure anche facile all’ira – “È di natura proclive alla collera e facile all’accensione”[17] – che tuttavia riusciva la maggior parte delle volte a trattenere: Caravaggio sembra insomma aver colto, già anni prima del suo papato, la natura complessa del facoltoso, eccentrico committente.
Per fare un ritratto del resto è indispensabile una buona dose di empatia, oltre ovviamente all’attitudine, ma non sempre un grande artista è anche un valido ritrattista: valga per tutti l’esempio di Michelangelo Buonarroti che non eseguiva volentieri ritratti né accettava commissioni in tal senso.
Mancini distinse tra:
“ritratti assomigliantissimi ma senza alcuna sorte d’arte e senza disegno, e altri di buonissim’arte ma senza similitudine che così ha fatto il Caravaggio”[18].
Va notato che, prima di tutto, Mancini afferma implicitamente che Caravaggio padroneggiava arte e disegno, per poi affermare che, pur facendo ritratti, i suoi erano da inquadrare fra quelli “senza similitudine”.
A parere di Longhi questa frase andrebbe interpretata come “Caravaggio non poteva, meglio non voleva fare ritratti somiglianti”[19], ma di una simile presa di posizione non si capisce il senso, né corrisponde al vero perché se illustri personaggi hanno continuato a chiedere al maestro anche ritratti (alcuni dei quali confrontabili con i busti ritratto eseguiti per alcuni medesimi committenti, tra i quali Maffeo stesso, anni dopo da Gian Lorenzo Bernini, al cui accostamento la somiglianza risulta talmente puntale da non ammettere dubbi in merito all’identità dell’effigiato e quindi alla qualità del ritratto in sé), evidentemente li sapeva fare; le fonti parlano inoltre di diversi ritratti non pervenuti, eseguiti per amici e conoscenti, dunque l’attività di ritrattista per Caravaggio era importante, pur non essendo la principale.
La frase di Mancini potrebbe essere letta come tendenza all’incuranza, da parte del maestro, circa la somiglianza fisiognomica: lettura che cozza però con lo scopo stesso del ritratto, cioè fissare i lineamenti di uno specifico individuo nel modo più verosimile possibile rendendolo quindi riconoscibile tra milioni, ma trova un senso se si considera che i ritratti di Caravaggio noti non costituiscono soltanto mere registrazioni dei tratti di un individuo ma anche, e soprattutto, celebrazioni di un concetto che quell’effige ha da tramandare (in quest’ottica il fatto che siano anche fisiognomicamente somiglianti è un gradito plus) come è il caso del Maffeo in esame o anche dello Scipione Caffarelli (1598-1600 ca., Montepulciano, Museo Civico Pinacoteca Crociani) avvolto nella toga avvocatizia che avrebbe continuato a indossare se nel 1605 suo zio Camillo non fosse divenuto papa facendogli piovere in testa la berretta cardinalizia; del Paolo V (1605, Roma, coll. priv. Borghese), del Cavaliere di Malta (1608-9, Firenze, Galleria Palatina); del maestro Alof de Wignacourt (1607-8, Parigi, Musée du Louvre, con accanto il paggio che probabilmente è Alessandro Costa, figlio del banchiere Ottavio, quindi un ulteriore ritratto); di Fillide Melandroni (1604 ca., già Berlino) o dell’ancora ignoto committente della Madonna del Rosario (1607, Vienna, Kunsthistorisches Museum) che ivi compare sul lato sx (mentre sul lato dx è riconoscibile il domenicano Tommaso Campanella, la cui presenza allude probabilmente al fatto che la devozione del Rosario è stata istituita da San Domenico, al cui ordine appunto Campanella apparteneva), ecc.; ritratti tutti per certi versi “allegorici” poiché alludenti a specifiche contingenti circostanze di vita dei ritrattati[20], caratteristica presente probabilmente anche nei perduti o non concordemente identificati ritratti dell’amico Onorio Longhi (di cui Caravaggio ritrasse anche la moglie Caterina Campana) o dell’ “ospedaliero” siciliano che lo aiutò quando era ricoverato all’Ospedale della Consolazione, di Melchiorre Crescenzi, di Virgilio Crescenzi, del cardinale Benedetto Giustiniani ecc., i quali, c’è da scommettere, contenevano (o magari contengono ancora, accantonati chissà dove) un’allusione al loro lavoro o alla loro dedizione a una missione.
Longhi si era interrogato, non a caso, sia sull’abbigliamento che in merito agli accessori caratterizzanti Maffeo ma, ignorando biografia e legame dello zio Francesco senior con il nipote, non era stato in grado di giustificare né risolvere il loro significato, pur intuendo che, ad esempio:
Il “Rotolo di pergamena […] che Maffeo sembra aver appoggiato per un momento sul fianco del seggiolone” costituiva “un particolare così spiccante da non potersi credere casuale o incongruo”[21].
Che il Ritratto in esame attualmente in mostra ritragga Maffeo Barberini lo conferma anche il colore chiaro degli occhi (Fig. 8).
Da ritratti eseguiti in seguito da altri artisti nel corso del suo papato (fra cui anche Bernini che dipingeva) è noto che Urbano VIII aveva gli occhi chiari, di colore celeste/azzurro; il cortigiano Taurelli di lui declamò, tra le altre cose, circa la “lo splendore sidereo degli occhi” [grassetto mio][22].
Tra i motivi che inducono a scartare l’ipotesi che il Prelato potesse, pur essendo autografo, raffigurare Maffeo Barberini ho addotto, nel precedente summenzionato contributo, proprio il colore degli occhi, che il soggetto ha decisamente scuri (Fig. 9),
così come scuri li aveva lo zio di Maffeo, mons. Francesco senior, come risulta dal Ritratto di mons. Francesco Barberini senior di Anonimo (1595 ca., coll. priv. Corsini – Fig. 10)
che lo immortala in età avanzata: anche questo è di sicura provenienza barberiniana – nello stesso suddetto Inventario Barberini del 1655, alla c. 564, si legge:
“Un quadro con un retratto di prelato vecchio, che sta a sedere con un memoriale in mano Francesco Barberino con cornice d’albuccio tinta di nero rotta alto palmi sei e largo cinque”[23] –
e non si può non notare come l’abbigliamento dell’effigiato sia identico, anche nei colori, a quello del coevo Prelato col quale viene spesso “appaiato” nelle esposizioni, da ultima L’immagine sovrana. Urbano VIII e i Barberini tenutasi lo scorso anno presso Palazzo Barberini in occasione del quadricentenario dell’elezione al soglio pontificio di Maffeo come Urbano VIII.
La visione ravvicinata del Ritratto di Maffeo Barberini consente oggi di confermare che il colore dell’iride qui non è, come nei due suddetti ritratti effigianti Francesco senior – cioè il Prelato di Caravaggio e Ritratto di Anonimo – scuro, ma tendente al chiaro, nel caso specifico al verde oliva: da tanto vicino sembra potersi stabilire che Caravaggio, per rendere gli occhi di Maffeo, non ha usato un celeste ma più probabilmente un blu e/o un verde oliva poi incupitosi, ossidatosi col tempo. L’alterazione cromatica, che può imputarsi a ossidazione atmosferica – va ricordato che il dipinto non è sempre stato conservato in condizioni ottimali e che ha subito un primo restauro già nel 1962 –, fa apparire gli occhi di Maffeo di una tonalità più fosca dell’azzurro o del verde ma, comunque, mai scuri: dunque nel dipinto in esame è certamente ritratto Maffeo Barberini.
La scelta di un colore verdastro anche per gli occhi si sposa d’altro canto con il resto della palette, dominata dal verde che interessa abito e scranno, verde mitigato dal bianco candido della cotta e dal rosso – che nella rosa dei colori complementari è il colore opposto al verde, quindi quello che, abbinatogli crea, esaltandosi a vicenda, il cosiddetto “contrasto vibrante” – che orla discretamente la veste (Figg. 11, 12).
Un guizzo di celeste o azzurro, per quanto limitato alle sole iridi, dunque a una porzione minima del quadro, ne avrebbe potuto turbare l’equilibrio cromatico? Probabilmente sì; dev’essere per questo che Caravaggio non ha riportato il colore reale degli occhi di Maffeo, pur dipingendoli chiari: tra rimanere fedele nonostante tutto alla Natura dipingendo gli occhi del loro vero più chiaro colore alterando in tal modo l’equilibrio del dipinto, dominato da una consonanza di verdi, e ricorrere a un compromesso che alla fine avrebbe comunque assolto al principale dovere del ritratto (cioè rendere inequivocabile l’identità dell’effigiato), Caravaggio sembra aver optato per la seconda soluzione.
Ecco dunque il probabile vero senso del “senza similitudine che così ha fatto il Caravaggio” di Mancini e il perché il maestro ha usato un colore di tonalità diversa dal reale per gli occhi di Maffeo pur rimanendo comunque sul chiaro (cioè non distante dal vero) e il perchè, nel Prelato, abbia ritratto non Maffeo bensì suo zio mons. Francesco senior ben più giovane di quanto fosse al momento della realizzazione del dipinto (nel 1595 ca.): anche il Prelato esula infatti dalla somiglianza più rigorosa – rientrando quindi nel corpus dei ritratti caravaggeschi – perché è un ritratto ideale, il più allegorico di tutti, che immortala monsignor Francesco Barberini senior (nato nel 1528) giovane come era ai tempi della carica di Protonotaro Apostolico (che rivestiva da prima del 1563), quella stessa carica che nel 1593 passerà al nipote Maffeo, quel nipote sulla cui scorta dei lineamenti il pittore lo ringiovanirà (ovvero Maffeo ha prestato, per rendere la giovinezza dello zio, i propri lineamenti come base dalla quale il pittore è partito per realizzare il “particolare” ritratto); quel nipote che si farà ritrarre, stavolta personalmente, sempre da Caravaggio non prima di quel medesimo 1598 quando cioè avrà avuto in dono – dallo zio – l’esosa carica di Chierico di Camera.
Longhi era nel giusto quando osservò che “Il ritratto [di Maffeo] appare qui, e forse per la prima volta, come di realtà atteggiata”[24]: perché qui in effetti Maffeo è ritratto, come si è detto, negli stessi panni, o nella stessa carica, ereditata dallo zio Francesco senior, zio del quale aveva commissionato tempo prima, allo stesso Caravaggio, un ritratto (il Prelato) ringiovanito – quindi ideale – in quei medesimi panni; carica evocata dalla “memoria” poggiata al suo fianco: una realtà “atteggiata” che corrisponde e rimanda al “senza similitudine” di Mancini.
Ma perché Maffeo Barberini avrebbe dovuto volere un ritratto dello zio benefattore da giovane anziché accontentarsi di fargliene fare da Caravaggio uno all’età corrente nel 1595 (circa 67 anni)?
Com’è noto Maffeo Barberini era estremamente superstizioso e scaramantico: non è un segreto la sua inclinazione per l’esoterismo, che lo porterà a fare amicizia con l’abate Orazio Morandi – curatore di una singolare biblioteca in Santa Prassede – sebbene questi fosse uomo dei Medici, della famiglia cioè che aveva fatto assassinare il prozio Antonio in via Giulia nel giugno 1559; che abbia commissionato – ma mai ammesso – a Guercino l’enigmatico Et in Arcadia ego (1618-1622, Roma, Gallerie Nazionali d’Arte Antica Palazzo Barberini) e ad Andrea Sacchi – facendo figurare però come committente il nipote Taddeo – l’apotropaica allegoria della Divina Sapienza (1629) nel salone di Palazzo Barberini alle Quattro Fontane, affresco per la cui elaborazione Maffeo si era avvalso della “consulenza” di padre Tommaso Campanella che proprio lui, in barba a condanne e ostacoli, aveva tirato fuori dopo ventisette anni dalle prigioni napoletane per averlo a Roma al suo fianco proprio guarda caso nel 1628, quando cioè Sacchi stava elaborando il programma iconografico della Divina Sapienza, per poi salvarlo ancora una volta dalle grinfie delle autorità spagnole aiutandolo a fuggire in gran segreto, per sempre, dallo Stato Pontificio alla volta di Parigi, ecc.[25]. Né va dimenticato che Maffeo fu membro attivo dell’Accademia degli Insensati, dunque incline ad apprezzare tutto un repertorio di sofisticate allegorie poetiche suscettibili di sensazionali trasposizioni visive nelle arti figurative.
In altre parole Maffeo avrà fatto più che caso, sin da giovane, a circostanze e coincidenze: sensibile com’era a un certo tipo di stimoli potrebbe avere perciò, per gratitudine, chiesto a Caravaggio, attorno al 1595 ca., di ritrarre nel cosiddetto Ritratto di prelato con caraffa di fiori suo zio Francesco al quale doveva tutto nei panni della stessa carica (protonotaro apostolico) passata a lui ma giovane come era ai tempi in cui egli vestiva tali panni (ante 1563), ovvero meno che trentacinquenne, senza dimenticare di registrare il tratto degli occhi scuri che Francesco, a differenza di Maffeo, aveva.
Altri elementi “simbolici”, oltre all’abito, sono la caraffa con fiori e il libro aperto presenti nel Prelato e le lettere in mano a Maffeo e al Mons. Francesco Barberini senior di Anonimo: i fiori e il libro alludono probabilmente alla sensibilità e cultura dell’effigiato (Francesco senior si era addottorato in legge a Pisa nel 1552 e si sa di almeno un suo scritto erudito, Discorso dell’Huomo ovvero Dottrina Christìana con altre cose da insegnarsi ai nobili fanciulli, scritto prima di trasferirsi a Roma); il Mons. Francesco Barberini senior stringe nella sinistra una lettera piegata, che torna nel ritratto di Maffeo, che pure amava l’arte e la bellezza … un circolo di sofisticati rimandi che lega in qualche modo i tre dipinti – due di Caravaggio e uno di ignoto – effigianti zio e nipote.
Il Prelato è da sempre negli Inventari dei beni di Maffeo, eppure non è mai identificato con lui, segno che anche gli estensori sapevano che non era un suo ritratto: perché però Maffeo non ha mai specificato chi ritraeva il Prelato o, volendo, che ritraeva lo zio Francesco senior? Poteva il monsignore poi cardinale Maffeo ammettere che aveva fatto fare attorno al 1595 un così inusuale ritratto dello zio mancato nel 1600 e, soprattutto, poteva ammetterlo una volta divenuto Papa, quando le sue bizzarrie scaramantiche gli avrebbero attirato senz’altro critiche?
Longhi non ammetteva che Caravaggio avesse licenziato più ritratti per Maffeo, come attestano fonti e documenti, e che tra questi uno potesse ritrarre quindi non necessariamente lui ma un suo parente; men che meno contemplava che il soggetto del Prelato potesse essere un “idealizzato” mons. Francesco Barberini senior: un concetto troppo distante dalla sua visione delle opere Caravaggio che tuttavia, non va dimenticato, era un pittore cresciuto e formatosi a fine Cinquecento, in un’epoca imbevuta di simbolismo che si manifestava nella realizzazione di opere iconograficamente complesse.
Anche se negli Inventari Barberini non si fa il nome di Caravaggio per il Prelato, diversi studiosi ne sostennero l’autografia anche dopo la pubblicazione del Maffeo da parte di Longhi, continuando tuttavia a ritenerlo effigiante Maffeo Barberini; ma nel già menzionato Inventario relativo alla donazione del 1623, al n. 113 si legge circa
“Un ritratto del signor Cardinal Barberino quando era Chierico di Camera con cornice nere”;
la specifica può riferirsi solo ed unicamente a Maffeo[26], dato che suo zio Francesco senior non fu mai cardinale, dunque l’estensore del 1623 si riferiva chiaramente al cardinale Maffeo Barberini, da pochissimo papa… Il dipinto va identificato, vista la specifica dell’abito (Chierico di Camera) con quello reso noto da Longhi nel 1963 e ora in mostra, e va evidenziato come di ritratto Maffeo si parli al singolare quindi, anche per questo, non è possibile che il Prelato ritragga Maffeo, dato che nel 1623 se ne sarebbe altrimenti chiaramente riconosciuto il soggetto aggiungendo allora il Prelato all’elenco dei ritratti di diversi artisti raffiguranti, a vario titolo, Maffeo non a caso qualificato ovunque come cardinale:
al n. 48: Ritratto del S. C. barberino fatto da Innocenzo Taccone senza cornice; al n. 70 Una testa del Cardinal Barberino senza cornice; al n. 93 Doi ritratti del S. C. Barberini del Leonelli differenti senza cornice; al n. 113 Un ritratto del S. C. Barberino quando era Chierico di Cam.a cò cornice nere; al n. 172 Un ritratto in rame del S. Car.le Barb.o quando era secolare con cornice e coperta di noce quadretto piccolo[27].
In tutti i suddetti ritratti – ai quali si possono aggiungere “Due ritratti di sua signoria Ill.ma”, senza attribuzione citati in un inventario dei beni di Maffeo risalente al 1608[28] – Maffeo è chiaramente indicato con la sua qualifica di cardinale, che lo distingue da suo zio Francesco, che invece porporato non fu mai. Infine che l’estensore del ’23 sapesse distinguere tra zio e nipote risulta dalla voce n. 114, dove si legge: “Ritratto di Mons.r Franc.o Barberino senza cornice”.
Fuori dal coro Cesare D’Onofrio che, nel 1967, rigettò l’autografia caravaggesca sia per il Prelato che per Maffeo (e in questo stesso numero di About Art alla stesa stregua si pronuncia, con argomentwazioni diverse, anche Clovis Whitfeld), credendo di individuare i due dipinti in un pagamento spiccato da Maffeo in data 3 luglio 1604 al pittore Nicodemo Ferrucci, allievo di Passignano:
“A mons. Nicodemo Ferrucci pittore scudi 10 moneta per l’intero prezzo dei duoi ritratti che egli m’ha fatti”[29].
Secondo D’Onofrio il pagamento riguarderebbe due ritratti raffiguranti Maffeo che andrebbero individuati nel Prelato e nel Maffeo ma, considerata l’irrisoria cifra pagata e l’epoca, risulta palese che i dipinti pagati a Ferrucci fossero invece copie o comunque opere di modesta qualità; né “duoi ritratti che egli m’ha fatti” si può interpretare come “due miei ritratti/ritratti effiggianti me” dato che “duoi ritratti che egli m’ha fatti” significa “due ritratti che egli ha fatto per me”, e non “di me”[30].
C’è da chiedersi inoltre se, nel 1604, il facoltoso monsignore Maffeo Barberini – che nel 1600, alla morte dello zio Francesco, aveva ereditato una fortuna – non disponesse già di più che floride sostanze per commissionare, eventualmente, a un pittore molto più valido un suo ritratto, se l’avesse voluto, permettendosi di pagarlo per ben più che miseri 10 scudi.
Circa il Ritratto di mons. Francesco Barberini senior di Anonimo, D’Onofrio ritenne che esso fosse ricondotto alla stessa mano degli altri due (quindi, a suo dire, di Ferrucci) [31] sebbene qualche riga sopra aveva sostenuto che questi aveva licenziato “duoi dipinti” raffiguranti soltanto Maffeo … in pratica ai dipinti pagati pochissimo di Ferrucci ci sarebbe da aggiungere il Ritratto di mons. Francesco Barberini senior di Anonimo, che è in realtà un dipinto di notevole qualità, sebbene la scrivente non colga in esso la stessa mano del Prelato e del Maffeo[32].
Pur di sconfessare l’autografia del Prelato e soprattutto del Maffeo, D’Onofrio giunse a sostenere che nei registri di Maffeo Barberini “il nome di Caravaggio appare soltanto e unicamente a proposito dell’Abramo”, quando nella nota da lui stesso pubblicata si parla chiaramente di più dipinti fatti da Michelangelo per Maffeo: “A Michelagnolo da Caravaggio per resto di pitture avute da lui sino al presente giorno”! Questo pagamento, per inciso, conferma quanto scritto da Mancini e Bellori, cioè che Caravaggio fece per Maffeo Barberini più dipinti. Infine, circa la caraffa di fiori presente nel Prelato, D’Onofrio ipotizzò che Ferrucci avesse copiato il dettaglio da Caravaggio e che questo preciso dettaglio nel dipinto aveva addirittura indotto Bellori in errore facendogli attribuire a Caravaggio un fantomatico ritratto raffigurante Maffeo[33]…
In realtà non c’era bisogno di scornarsi sull’autografia del Prelato e del Maffeo nell’erronea convinzione che raffigurassero entrambi Maffeo Barberini, perché la soluzione più semplice è quasi sempre quella giusta: il Prelato è autografo di Caravaggio, come il Maffeo, ma non ritrae Maffeo; parafrasando Arthur Conan Doyle:
“Tolto l’impossibile [cioè che un fenomenale pittore caravaggesco nel 1595 ca. abbia licenziato il Prelato alla precisa maniera di Caravaggio in quel momento per poi sparire nel nulla] quello che resta, per quanto improbabile [cioè che l’estroso Maffeo Barberini abbia voluto far dipingere un ritratto “allegorico” dello zio benefattore, ma non tanto improbabile conoscendo Maffeo] deve essere la verità”.
Il Prelato ovvero Ritratto di mons. Francesco Barberini senior è da ritenere precedente al Ritratto di mons. Maffeo Barberini non soltanto per lo stile, ma anche per via della presenza di peculiari caratteristiche “tecniche”: nel Prelato sono presenti segni di insistenza in alcuni punti (biretta, profilo del viso) ma anche ripensamenti visibili a occhio nudo (nei pressi dell’orecchio cfr. Fig. 9) mentre in Maffeo, dove pure c’è l’incisione a ribadire il disegno ben visibile soprattutto attorno alla testa (Fig. 13), non ci sono ripensamenti o riprese, indizio che qui Caravaggio è andato sul sicuro, poiché stava probabilmente ripetendo un modulo disegnativo già collaudato.
Oltre il colore degli occhi comunque, a differenziare Francesco da Maffeo c’era la costituzione: Francesco senior sembra avesse lineamenti più affilati rispetto al paffuto nipote: “vecchio e secco di natura tenace” viene definito in una biografia[34]; anche questa, forse sulle prime impercettibile, differenza – che però Caravaggio registra – porta a ritenere che Prelato e Maffeo ritraggano due individui diversi, seppure somiglianti poiché parenti.
Che il Ritratto di mons. Maffeo Barberini proposto da Longhi venga dalla collezione Barberini (e sia quindi quello citato negli Inventari con la specifica “cardinale Barberini quando era chierico di camera”) sembra confermarlo un ritratto postumo di Maffeo – ormai Urbano VIII – conservato nella Galleria degli Arazzi nei Musei Vaticani. Tra i tanti manufatti illustranti, sul lato dx della galleria, episodi della vita di papa Barberini, quello intitolato La bonifica del lago Trasimeno (Fig. 14) sembra evocare infatti il Maffeo di Caravaggio: qui il giovane monsignore Maffeo Barberini è raffigurato nell’adempimento dell’incarico, ricevuto nel 1602, di risolvere il problema delle frequenti esondazioni del lago Trasimeno.
L’arazzo, come gli altri della serie, fu realizzato a Roma negli anni ’70 del Seicento, quasi trent’anni dopo la morte di Urbano VIII, sulla base di un cartone di Antonio Gherardi risalente al 1665 ca., conservato in Palazzo Barberini (Fig. 15):
nel cartone mons. Barberini è vestito da Protonotaro Apostolico (come nel ritratto suo e dello zio Prelato) e, soprattutto, sta indicando qualcosa con la destra, proprio come nel Maffeo di Caravaggio (l’arazzo riporta l’immagine del cartone ribaltata specularmente, ecco perché appare mancino); quindi va presunto che Gherardi per ritrarre un Maffeo giovane si sia servito del ritratto di Caravaggio e che questo perciò sia quello citato negli Inventari.
Unico gap è che, sia nel cartone che nell’arazzo, Maffeo ha occhi color nocciola: come si spiega? Gherardi non ha conosciuto personalmente Maffeo, probabilmente non sapeva l’esatto colore dei suoi occhi e, se si è servito del Maffeo per ritrarlo da giovane, non si sarà fatto troppe domande in merito dato che lì Caravaggio, come si è detto, ha usato un colore più cupo per le iridi che non il reale celeste e che nell’arazzo il dettaglio non sarebbe stato certo dirimente.
Si può in conclusione sostenere oggi, senza tema di errore, che il vero, unico Maffeo Barberini di Caravaggio è questo ora visibile a Roma: la speranza è quella di rivederlo presto, esposto magari stavolta a fianco dell’altro Barberini ritratto da Caravaggio, il Mons. Francesco Barberini senior.
©Claudia RENZI Roma, 22 dicembre 2024
NOTE
[1] Un Inventario dei beni di Maffeo era stato redatto già in data 3 dicembre 1604, Roma, Archivio di Stato (d’ora in poi ARS), Atti Rug. Ferracuti notaio A. C., vol. 22, c. 682 e segg., pubblicato da Cesare D’Onofrio, Roma vista da Roma, Roma, 1967, Appendice III, pp. 424-431, in favore, in caso di sua morte, del fratello Carlo, padre dei nipoti Francesco, Antonio, Taddeo e Maria. La donazione del 1604 fu resa esecutiva in data 23 settembre 1623, nemmeno due mesi dopo che Maffeo era diventato Urbano VIII, cfr. Donazione fatta da Papa Urbano VIII all’Eccsm.o Sig. Don Carlo Barberini con Inventario delle cose donate adì 22 7mbre 1623, in: ASR, Chrisantes Rosciolus, not. A.C., vol. 26, c. 96 e segg. e Biblioteca Apostolica Vaticana (d’ora in poi BAV), Archivio Barberini, cr. II, cas. 29, mazzo IV, lett. C, nr. 3.
[2] Roberto Longhi, Il vero «Maffeo Barberini» del Caravaggio, in: «Paragone», 165, 1963, pp. 3-11.
[3] Lionello Venturi, Opere inedite di Michelangelo da Caravaggio, in: «Bollettino d’arte», VI, 1912, pp. 1-18 pp. 1-2. Seguono Venturi, accettando l’autografia del Prelato ma ritenendolo un ritratto di Maffeo Barberini: Matteo Marangoni, Il Caravaggio, Firenze, 1922, p. 23; Denis Mahon, Addenda to Caravaggio, in: «The Burlington Magazine», XCIV, 586, 1952, pp. 3-23, p. 19; Robert Hinks, Michelangelo Merisi da Caravaggio. His life, his legend, his work, Londra, 1953, pp. 99-100; Walter Friedläender, Caravaggio Studies, NY, 1969 [1955], p. 219; Luigi Salerno, Caravaggio e i caravaggeschi, in: «Storia dell’Arte», n. 7-8. 1970, pp. 234-248, p. 236; Alfred Moir, Caravaggio, Milano, 1982, pp. 34-5; Catherine Puglisi, Caravaggio, Londra, 1998, p. 199; Marco Bona Castellotti, Il paradosso di Caravaggio, Milano, 1998, p. 59; Francesco Petrucci, Pittura di ritratto a Roma: il Seicento, Roma, 2008, 3 voll., II, pp. 294-7. Keith Christiansen, Ritratto di Maffeo Barberini (scheda), in: Gianni Papi (a cura di), Caravaggio e i caravaggeschi a Firenze, Firenze, 2010, pp. 100-103; Soltanto Fritz Baumgart, Caravaggio: Kunst und Wirlichkeit, Berlino, 1955, pur accettando l’autografia del Prelato dubita ritragga Maffeo Barberini.
[4] BAV, Archivio Barberini, Armadio 155, Inventario Guardaroba Principe Maffeo 1655, c. 599, pubblicato da C. D’Onofrio, op. cit., p. 62. Nel 1975 Marilyn Aronberg Lavin ripubblicò la stessa voce con l’aggiunta della frase “cornice d’albuccio tinta di nero alto palmi sei e un quarto largo cinque”; il dipinto torna negli Inventari del 1648-9 al n. 464 e del 1672 al n. 506; per questi documenti cfr. M. Aronberg Lavin, Seventeeth Century Barberini Documents and Inventories of art, New York, 1975, pp. 68, 209-10, 281, 383.
[5] Roberto Longhi, Ultimi studi su Caravaggio e la sua cerchia, in: «Proporzioni», I, 1943, pp. 5-63, pp. 37-8.
[6] R. Longhi, op. cit., 1963, p. 4.
[7] Adriana Marucchi, Luigi Salerno (a cura di), Giulio Mancini. Considerazioni sulla Pittura, 1617-21, Roma, 1956-57, 2 voll., I, p. 227.
[8] Claudia Renzi, Da Caravaggio a Bernini: sarebbe di Mons. Francesco Barberini senior il noto ritratto di coll. Corsini, https://www.aboutartonline.com/da-caravaggio-a-bernini-sarebbe-di-mons-francesco-barberini-senior-il-noto-ritratto-di-prelato-di-coll-corsini/ su «About Art online» del 30.07.2023.
[9] Giovanni Pietro Bellori, Le vite de’ pittori, scultori et architetti moderni, Roma 1672, p. 224.
[10] BAV, Archivio Barberini, Mons. Maffeo Giornale 1600-1604, c. 86, 20 maggio 1603; idem c. 88, altri 10 scudi in data 6 giugno 1603; idem c. 90, altri 12 scudi in data 12 luglio 1603; documenti in: C. D’Onofrio, op. cit., p. 61.
[11] BAV, Archivio Barberini, Mons. Maffeo Giornale 1600-1604, c. 102v, in: C. D’Onofrio, op. cit., p. 61.
[12] Maurizio Marini, Caravaggio pictor praestantissimus, Roma, 2005, pp. 188-9, pp. 423-4 (scheda) Ritratto di mons. Maffeo Barberini, già precedentemente aveva accolto la proposta longhiana circa il Maffeo derubricando il Prelato a opera di Nicodemo Ferrucci come proposto invece da C. D’Onofrio, op. cit.
[13] G. P. Bellori, op. cit., p. 204.
[14] Così l’Ambasciatore veneto Renier Zeno (1630 ca.) in: Nicolò Barozzi, Guglielmo Berchet, Relazioni degli Stati Europei lette al Senato dagli Ambasciatori Veneti nel secolo Decimosettimo Raccolte ed Annotate da Nicolò Barozzi e Guglielmo Berchet, Serie III, Italia, Relazioni di Roma, Vol. I, Venezia, 1811, p. 148.
[15] Così l’Ambasciatore veneto Giovanni Pesaro (1632) in: N. Barozzi, G. Berchet, op. cit., p. 329.
[16] Avviso del 20 settembre 1625, in: BAV, Cod. Urb. Lat. 1095, c. 570, anche in: C. D’Onofrio, op. cit, p. 24
[17] Così gli ambasciatori veneti Girolamo Corner, Girolamo Soranzo e Francesco Erizzo nelle loro relazioni (1625), in: N. Barozzi, G. Berchet, op. cit., p. 226.
[18] A. Marucchi, L. Salerno, op. cit., II, p. 226.
[19] R. Longhi, op. cit., 1963, p. 7.
[20] Per i ritratti di Fillide Melandroni come “fidanzata” e quello di Scipione Caffarelli non ancora Borghese come avvocato rimando ai miei contributi su «About art online»: C. Renzi, Caravaggio e il ritratto femminile: Fillide Melandroni. Una storia di modelle e riconoscimenti, https://www.aboutartonline.com/caravaggio-e-il-ritratto-femminile-fillide-melandroni-una-storia-di-modelle-e-di-riconoscimenti/ su «About Art online» del 06.08.2023; C. Renzi, Per Scipione Caffarelli Borghese: il ritratto (qui riconfermato) di Caravaggio e il doppio busto di Bernini, https://www.aboutartonline.com/per-scipione-caffarelli-borghese-il-ritratto-qui-riconfermato-di-caravaggio-e-il-doppio-busto-del-bernini/ su «About Art online» del 27.08.2023.
[21] R. Longhi, op. cit., 1963, p. 9.
[22] Andrea Taurelli, De rebus gesti in sacru principati Urbani VIII pont. opt. max. panegyricus, Bologna, 1639, p. 7, in: C. D’Onofrio, op. cit., p. 24.
[23] BAV, Archivio Barberini, Arm. 155, Inventario Guardaroba Principe Maffeo 1655, c. 564; anche in: C. D’Onofrio, op. cit., p. 63, n. 32.
[24] R. Longhi, op. cit, 1963, p. 9.
[25] Per il coinvolgimento di Campanella nell’elaborazione del programma iconografico della Divina Sapienza si veda Georg Lechner, Tommaso Campanella and Andrea Sacchi’s Fresco Divina Sapienza in the Palazzo Barberini, in: «Art Bulletin», 58, 1976, pp. 97-108.
[26] Marilyn Aronberg Lavin, Seventeeth Century Barberini Documents and Inventories of art, New York, 1975, p. 470 identifica il dipinto elencato in inventario col n. 113 con il Maffeo di Longhi.
[27] C. D’Onofrio, op. cit., pp..
[28] BAV, Archivio Barberini, Arm. 136, Barb. Lat. 10068. Inventario Generale di tutte le Robe attinenti all’Ill.mo Sig.r Card.e Barberino stato fatto da me Franc.o de Fil.o In comp.a del Sig.r Bartolomeo Dogliotti q.to dì xbre 1608 in Casa del Sig.r Marchese Salviati in Roma, c. 6v, in: M. Marini, op. cit., 2005, p. 463.
[29] BAV, Archivio Barberini, Armadio 2, Mon.r Maffeo Barberini – Giornale delle spese degli anni 1600-1604, c. 117, 3 luglio 1604, in: C. D’Onofrio, op. cit., p. 62.
[30] Concorde M. Marini, op. cit., 2005, p. 424: “Duoi ritratti […] da interpretare come «che egli ha fatto per me» non indicando necessariamente due ritratti personali”.
[31] C. D’Onorio, op. cit., p. 63, n. 32.
[32] Cosa invece sostenuta da M. Marini, op. cit., p. 463, che quindi ritiene il Prelato e Mons. Francesco Barberini senior di mano di N. Ferrucci; H. Voss, op. cit., invece, che accettava l’autografia caravaggesca del Prelato, cercò di attribuire al maestro anche il Ritratto di Mons. Francesco Barberini senior che tuttavia, allo stato attuale degli studi, va considerato di autore Ignoto.
[33] C. D’Onofrio, op. cit, p. 62.
[34] Vita di Urbano VIII di Anonimo, custodita in BAV, Vat. Lat. 8891, pubblicata da Isidoro Carini, Il conclave di Urbano VIII, in: «Spicilegio Vaticano di Documenti Inediti e Rari», I, 1890, pp. 333-375, p. 337.
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