di Vitaliano TIBERIA
PATINE, VERNICI, SPOSTAMENTI DELLE OPERE D’ARTE. LA TEORIA DEL RESTAURO DI CESARE BRANDI. IL CASO DELLA SCULTURA DI SANTA BIBIANA DEL BERNINI
I- In tempi di frequenti celebrazioni ricorrenziali, anche di avvenimenti o di personaggi di circoscritta importanza, in pochi si sono ricordati che sono trascorsi poco più di sessant’anni dalla pubblicazione (1963) della Teoria del restauro di Cesare Brandi (Siena, 1906 – Vignano , 1988), che pur è stata ed è un’opera cardine per l’estetica contemporanea e riferimento sostanziale per la conservazione delle opere d’arte, d’archeologia e d’architettura[1]. Un’opera che, attribuendo valenza tecnico-scientifica e polimorficamente filosofica all’atto del restauro, ha oltrepassato la prassi tradizionale dei diffusi interventi empirici fondati sul convincimento, talvolta evocatore del miracoloso, del recupero di un’opera d’arte come era in origine.
Brandi, prima alla guida dell’Istituto Centrale del Restauro e poi con il suo alto magistero dalla cattedra universitaria, sgombrava con la Teoria del Restauro il campo dagli equivoci ed apriva una nuova pagina sull’argomento, che avrebbe avuto anche seguito in sede di pubblica amministrazione, stabilendo, fin dalla prima pagina di quel suo Trattato, la fondamentale distinzione fra il restauro di «manufatti industriali» e quello delle opere d’arte, così che
«se il primo finirà per porsi come sinonimo di risarcimento in pristino, il secondo ne differirà né solo per le operazioni da compiere».[2]
In altre parole, veniva chiarito che il restauro industriale rivolto ad oggetti d’uso ristabilisce legittimamente la «funzionalità del prodotto», essendo estraneo al concetto di immagine artistica, il cui restauro ha tutt’altra valenza, perché rivolto ad una costruzione della spiritualità umana, che può muovere anche da finalità prammatistiche, come nel caso delle architetture.
Brandi, rivendicando la specificità dell’opera d’arte, le attribuiva nel restauro un ruolo primario rispetto alla conservazione materica, perché il restauro era il
«momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte, nella sua consistenza fisica e nella sua duplice polarità estetica e storica in vista della sua trasmissione al futuro».[3]
Una concezione articolata che postulava la conservazione di un’opera d’arte come struttura costituita di varie componenti interne ed esterne, concettuali, materiche, ambientali, secondo il pensiero kantiano degli schemi trascendentali ripreso da Brandi nella sua speculazione estetica, ma soprattutto in Segno e Immagine edito per la prima volta nel 1960; schemi ritenuti di natura intellettuale e quindi omogenei ai concetti e di natura sensibile in quanto omogenei ai fenomeni[4].
In tale contesto filosofico, in cui riecheggiano sia l’epoché della speculazione fenomenologica husserliana[5] sia universali significati morali, Brandi riservava un’attenzione particolare ad un argomento apparentemente secondario ma sostanziale, pertinente la materia e l’immagine di pittura e di scultura che vivono nel tempo, anche se lo sospendono nella propria circoscrizione estetica: le patine e le velature, date dagli artisti fin dall’antichità come trattamento finale delle superfici artistiche; un trattamento che non si esauriva semplicemente nella ricerca della brillantezza delle cose nuove, ma che definiva con vari risvolti concettuali e con la fisicità apparentemente impalpabile ma presente la struttura unitaria dell’opera, essenziale, per esempio, nella scultura del Bernini.
Di conseguenza, affermava Brandi, in un restauro la rimozione delle patine, sia quelle del tempo che quelle date inizialmente dagli artisti sulle loro opere, costituisce, nei confronti delle istanze estetica e storica di un’opera d’arte, un abuso dettato dal «dominio del gusto e dell’opinabile», come pure da una moda o, aggiungo, da esigenze di mercato, per cui si cerca di presentare le opere in uno stato conservativo per quanto possibile simile all’originale riducendo le tracce del tempo o di patine originali talvolta danneggiate.[6]
E la rimozione è ancor più incongrua qualora si tratti non di patina del tempo ma di quello strato sottile, che l’artista, come nel caso della statua della Santa Bibiana, per finalità luministico-cromatiche e scenografiche in rapporto ad un determinato contesto ambientale e architettonico strutturalmente determinato per di più da un’edicola di contenimento, volle depositare sulla materia finita, compresa l’edicola, così che il fine fosse il “trionfo” dell’immagine rispetto al suo supporto materico. Insomma, la patinatura berniniana contribuiva a definire la scultura in forma artistica dotata di una sua spazialità, una sua luminosità, un suo colore, che non doveva coincidere con quello del marmo “non trattato”.
In tal senso, Brandi sottolineava un concetto estetico fondamentale nella sua speculazione sul restauro:
«[…] posto che il ruolo della materia è d’essere trasmittente, la materia non dovrà mai avere la precedenza sull’immagine, nel senso che deve scomparire come materia per valere solo come immagine […]. Pertanto la patina, dal punto di vista estetico, è quella impercettibile sordina posta alla materia che si vede costretta a tenere il suo rango più modesto in seno all’immagine»,
e concludeva con un sofisma, per cui, se, al contrario, si ammettesse che è la materia a «dover fare aggio sull’immagine […] l’arte somma sarebbe l’oreficeria».[7]
Chiamava quindi in causa le pratiche classiche della ganosis e dell’atramentum, usate come trattamenti finali delle sculture per
«spengere la iattanza della materia, per favorire quella che noi chiameremmo la inconsustanzialità dell’immagine. Nella ganosis infatti si affievoliva la crudezza del marmo e del bronzo con le varie miscele, mentre la lucidatura finiva per rendere questa materia ammortizzata come trasparente e immateriale. Nella pratica dell’atramentum, secondo che Plinio la descrive per Apelle, la volontà di spengere la eccessiva vivacità dei colori per ridurli ad un più pacato equilibrio, anticipazione di quello che si opererà nel trapasso del tempo, risulta inequivocabilmente nelle parole esplicite “ne claritas colorum aciem offenderet…».[8]
Ricordo marginalmente che Antonio Canova ricorse alla pratica della ganosis documentata in Prassitele, come trattamento finale delle sue sculture, per esempio, nell’Amore e Psiche e nella Stele dell’incisore Giovanni Volpato.
La posizione di Brandi sulle patine, che non era riferita solo alle sculture ma anche alle pitture, ebbe il consenso di un altro grande della critica d’arte, Ernst Hans Joseph Gombrich, in occasione della dura polemica sostenuta dallo studioso italiano a proposito di alcune «puliture» (il virgolettato è di Brandi) di dipinti della National Gallery di Londra. Gombrich, riferendosi alle patine del tempo, che sul piano della loro conservazione non differiscono concettualmente dalle patinature date dagli scultori, ne sottolineava l’aspetto visivo sotto il profilo psicologico unitamente all’esigenza di conservare le interne relazioni dei pigmenti (E. H. J Gombrich, Art and illusion, ed. Pantheon Books, New York 1960, pp. 54-55).
L’altro argomento fondamentale per Brandi nella conservazione delle opere d’arte, che abbiamo appena ricordato, è la tutela della spazialità dei monumenti, che coesistono con lo spazio-ambiente fisico in cui sono stati destinati, e che non devono subire stravolgimenti proprio perché strutturalmente concepiti consustanziali all’opera:
«L’opera d’arte, in quanto figuratività, si determina in una autonoma spazialità che è la clausola stessa della realtà pura. Questa spazialità arriva allora ad inserirsi nello spazio fisico che è il nostro stesso spazio in cui viviamo, e arriva a insistere in questo spazio, senza tuttavia parteciparne, non diversamente da quello che accade per la temporalità assoluta che realizza l’opera e che pur rappresentando un presente extratemporale s’inserisce in un tempo vissuto della nostra coscienza, in un tempo storico, datato, cronometrato addirittura».[9]
Dal pensiero di Brandi, apprezzato e avversato ad un tempo, scaturì consequenzialmente un documento amministrativo di ricapitolazione dell’argomento: la Circolare del Ministero della Pubblica Istruzione, n. 117 del 6 aprile 1972, che sintetizzava, precisandola e ampliandola, tutta la trattatistica ideologica, teorica e pratica del pensiero italiano sulla conservazione delle opere d’arte, dell’archeologia e dell’architettura a partire dalla Carta Italiana del Restauro, del 1932, che riprendeva la Carta di Atene dell’anno precedente, fino alla fondamentale Carta di Venezia del 1964, costituita di sedici articoli e ispirata, oltre che dagli architetti Roberto Pane e Piero Gazzola, proprio da Cesare Brandi. Di quest’ultimo documento giova ricordare un passo cruciale per quanto stiamo argomentando, l‘articolo 7:
«Il monumento non può essere separato dalla storia della quale è testimone, né dall’ambiente in cui si trova: Lo spostamento di una parte o di tutto il monumento non può quindi essere accettato se non quando la sua salvaguardia lo esiga o quando ciò sia giustificato da cause di eccezionale interesse nazionale o internazionale».
Otto anni dopo, ancor più lapidariamente, la ricordata Circolare 117, denominata Carta del Restauro 1972[10], riprendeva con prescrizioni descrittive e restrittive, attribuendole un profilo dottrinale sia pure di ambito ministeriale, la materia della conservazione delle opere d’arte: all’articolo 6, comma 5, proibiva ogni «alterazione o rimozione delle patine» dopo aver vietato al comma 3 la «rimozione, ricostruzione o ricollocamento (scil. delle opere d’arte) in luoghi diversi da quelli originari; a meno che ciò non sia determinato da superiori ragioni di conservazione».
Purtroppo, come spesso avviene nel nostro Paese, «Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?» (Purgatorio, c. XVI, v. 97) e gli spostamenti di monumenti e le “spatinature” per motivi di maquillage sono continuati, con sfalsamenti delle prospettive critiche.
Brandi, per dimostrare che la patina delle opere d’arte, come le velature sui dipinti, non fa parte di un concetto opinabile o di natura romantica, la cui conservazione non è indispensabile, ne ripercorse la storia nelle testimonianze di antichi storici dell’arte. Chiamava pertanto in causa Filippo Baldinucci, che nel 1681 definiva la patena delle pitture
«[…] quella universale scurità che il tempo fa apparire sopra le pitture, che anche talvolta le favorisce»;[11]
e subito dopo Giorgio Vasari, il quale, nel capitolo IV del trattato Della Scultura, così descriveva il trattamento delle patine sulle sculture in bronzo:
«Questo bronzo piglia col tempo per se medesimo un colore che trae in nero, e non in rosso, come quando si lavora: Alcuni con olio lo fanno venir nero, altri con l’aceto lo fanno verde, ed altri con la vernice gli danno il colore di nero; tale che ognuno lo conduce come più gli piace»[12].
Citava quindi, a proposito delle velature sui dipinti, il Milizia, che affermava essere la velatura
«[…] uno strato di colore leggero che si applica specialmente alla pittura ad olio per velare e far trasparire la tinta che vi è sotto».[13]
Brandi concludeva la rassegna con una interrogazione retorica riguardante sia la scultura che la pittura:
«Se la sensibilità degli artisti del Rinascimento rifuggiva per il bronzo dalla lucentezza del nuovo, da quella prepotente iattanza della materia nuova, è mai possibile che non si cercasse ugualmente di attutire la virulenza sfacciata del colore, lo sfarzo troppo appariscente delle terre, delle lacche, degli oltremare?».[14]
E questo perché la sua difesa in chiave esteticamente unitaria, come nella figura filosofica del sinolo, era rivolta a sostenere nella pittura e nella scultura il primato della forma sulla materia, senza rinnegare quest’ultima ma interpretandola unicamente come tramite dell’immagine; era dunque una realtà estetica in cui il ruolo della patina diveniva presenza imprescindibile e inalienabile: il marmo della Santa Bibiana scolpito dal Bernini non ha più le caratteristiche di dato materico naturale ma è veicolo di un’immagine artistica rilevata plasticamente e rifinita pittoricamente con la patinatura lavorata in differenziate stesure per realizzare quegli effetti teatrali essenziali nella poetica berniniana tanto apprezzati in età barocca. Insomma, la patina, da non scambiare, grazie ad analisi mirate, con le sovrammissioni di polvere o di inquinanti, è parte originale di un’opera di pittura o di scultura, che si ha il dovere di conservare perché è anch’essa testimonianza della vita di un’opera d’arte nella storia.
La speculazione brandiana respingeva pertanto sia il determinismo positivistico, secondo il quale la materia determinerebbe lo stile di un artista, sia il pensiero idealistico, che sottovalutando la materia rispetto all’immagine riteneva secondarie le componenti reali che le sono invece pertinenti, come la qualità dell’atmosfera e della luce in cui si trova un’opera d’arte; dunque, proprio perché fondata su di un postulato qualitativo e non su un’esigenza quantitativa, il principio dell’unità potenziale di un’opera d’arte, con l’eccezione di necessità di forza maggiore per la sua conservazione, ne esclude la manomissione o il prelievo di alcune parti o della parte principale rispetto alla sua struttura complessiva.
In sostanza, l’opera d’arte ha una sua intangibile unitarietà materico-formale, altrimenti, avvertiva Brandi con il suo consueto rigore intellettuale:
«Sarà come leggere delle parole in un dizionario, quelle stesse parole che il poeta aveva raggruppato in un verso, e che, sciolte dal verso, ritornano dei gruppi di suoni semantici e nulla più».[15]
In tale visione estetica, un capolavoro come la scultura della Santa Bibiana, strettamente collegata all’identità storico-culturale e religiosa del suo contesto ecclesiastico, non è solo una di varie componenti fra loro separabili: la sua figuratività artistica le attribuisce un’autonoma dimensione spaziale non coincidente con la fisicità dello spazio in cui si trova a vivere, così che non può, pena l’incomprensibilità, fare a meno del luogo di sua destinazione, «clausola stessa della realtà pura» dell’opera d’arte.[16] Questa vive sì nella storia ma con una sua specificità artistica che la sospende dal giudizio d’esistenza delle cose, come avviene nell’epoché di Husserl, uno dei riferimenti fenomenologici essenziali per Brandi, secondo il quale l’utilitarismo del mondo è messo tra parentesi. Di conseguenza, lo smontaggio senza necessità conservative di una scultura dalla sua specifica sede d’appartenenza strutturale e il rimontaggio sono atti traumatici ingiustificabili sul piano dell’estetica e della corretta conservazione.
II-
Alla luce di queste considerazioni, è negativamente esemplare il caso della Santa Bibiana, che, rimossa nel 2017-18 dalla nicchia di pertinenza nell’omonima chiesa, anch’essa berniniana, per essere esposta in una mostra nella Galleria Borghese, ha riportato nella movimentazione anche la frattura di un dito. E non giustifica questa operazione l’aver avuto la possibilità di ricollocarla nella chiesa di pertinenza, dopo la mostra, sull’asse originario del basamento da cui era sfalsata di circa tre/quattro centimetri; uno sfalsamento che non influiva significativamente sull’illuminazione naturale prevista dal Bernini per realizzare la sua scenografia. E neppure è giustificativa la constatazione da parte della Soprintendenza che il dito di Bibiana è stato riattaccato da valenti restauratori senza problemi, mentre, in realtà il segno della frattura è visibile (fig. 7).
Fortunatamente non si è pensato di trasportare alla Galleria Borghese anche l’edicola marmorea facente parte dell’opera realizzata dal Bernini scalzandola dall’altare maggiore della chiesa di Santa Bibiana.
Sull’inscindibilità di un’opera d’arte dal suo luogo di destinazione determinato dal suo artefice, Brandi si espresse chiaramente parlando di contesto ambientale di un’opera d’arte da non considerare solo come dato materico, perché una certa atmosfera, una determinata luce sono strutturali all’opera «a non minor titolo del marmo e del bronzo o di altra materia».[17] Sarebbe pertanto inesatto sostenere, prosegue Brandi, che
«per il Partenone è stato usato come mezzo fisico il solo pentelico, perché non meno del pentelico è materia l’atmosfera e la luce in cui si trova. Donde la rimozione di un’opera d’arte dal suo luogo d’origine dovrà essere motivata per il solo e superiore motivo della sua conservazione».[18]
Nel caso della Santa Bibiana, l’averla inserita, sia pure temporaneamente, nel 2017/18 nel contesto a lei affatto estraneo della Galleria Borghese, illuminandola con luci incompatibili con la sua immagine artistica concettualmente collegata al culto del martirologio, ha ignorato i princìpi consolidati sulla conservazione delle opere d’arte. E non si è neppure tenuto conto della sua identità storica comune da cui scaturì lo stesso pensiero del Bernini, autore per di più del rimaneggiamento della chiesa voluto da Urbano VIII in occasione del Giubileo del 1625, consapevole che l’antica chiesa era inserita fin dall’VIII secolo in uno strumento socialmente rilevante come l’Itinerario di Einsiedlen, guida sintetica per i pellegrini nella Roma altomedievale.[19]
Riguardo al pensiero del Bernini sull’impresa, è facile osservare che non poteva non esser stato preliminarmente condiviso sia con il committente Urbano VIII che con il “direttore ideologico” di quel progetto religioso, monsignor Domenico Fedini, canonico di Santa Maria Maggiore. Da ultimo, si è agnosticamente trascurato un dato sociale non secondario, e cioè la profonda devozione popolare di cui la Santa Bibiana gode da secoli, secondo una tradizione che in pieno Seicento quella scultura testimoniava sotto il profilo religioso e politico; infatti, in polemica con i protestanti contrari al culto delle reliquie, la Santa Bibiana fu ideata per uno spazio pubblico ecclesiale, del tutto estraneo al nobile spazio laico, quale è sempre stato l’interno della palazzina Borghese. Significativo per quanto stiamo dicendo è un testo letterario a firma dello stesso Fedini, sul ritrovamento nel 1624 delle reliquie di Bibiana, della sorella Demetria e della loro madre Dafrosa sotto l’altare maggiore nell’antica chiesa; un testo che documenta in età barocca il pensiero ancora di indirizzo neopaleocristiano della Curia pontificia urbaniana in tema di venerazione delle reliquie dei martiri, come l’aveva sostenuto in piena Riforma cattolica il cardinale Cesare Baronio (1538-1607), storico autorevole della Chiesa e revisore del martirologio per volontà di Clemente VIII, che volle ridare vigore alle memorie dei martiri dopo la bufera della lacerazione dei Protestanti, avversi al culto dei santi e delle reliquie[20].
Fu dunque a seguito del ritrovamento delle reliquie delle tre martiri che fu chiesto a Bernini di costruire un’edicola con la statua commemorativa della santa proprio sopra l’altare maggiore, il luogo alto per antonomasia della chiesa, su cui la statua sarebbe dovuta essere perennemente esposta alla venerazione dei fedeli.
Sul piano della dottrina in materia di conservazione delle opere d’arte, la vicenda della scultura della Santa Bibiana del 2017-18 si è verificata ignorando la Teoria del restauro brandiana del 1963, la Carta di Venezia del 1964 e la Carta italiana del Restauro del 1972, statuita, per altro, amministrativamente con la ricordata Circolare n. 117 del Ministero della Pubblica Istruzione del 6 aprile 1972.[21] Va inoltre ricordato che quella scultura vent’anni prima, nel 1997-8, era stata restaurata su mio progetto e direzione per incarico della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Roma e Lazio.[22]
In realtà, fu quello un intervento di pulitura di tipo scientifico realizzato da Marcello Castrichini a seguito di indagini chimico-fisiche a cura di V. Berlucchi e M. Fabretti, per cui fu conservata la patina berniniana, e di cui fu dato conto in apposito volume, contenente anche i preliminari dati analitici e i risultati del restauro degli affreschi di Pietro da Cortona e di Agostino Ciampelli nella navata di Santa Bibiana e di molte altre opere presenti in quella chiesa[23].
Per ineludibili motivi personali, non ho potuto commentare a suo tempo la vicenda dello spostamento della scultura di Santa Bibiana e la frattura del dito anulare della sua mano destra, ma sono intervenuti in quell’occasione il restauratore Marcello Castrichini e diversi colleghi, fra i quali ricordo in particolare il Prof. Tomaso Montanari, il quale correttamente ha ricordato i risultati soddisfacenti dell’intervento che progettai e diressi.
In questa sede pertanto darò sinteticamente conto delle indagini chimico-fisiche eseguite nel 1998, perché queste, oltre a far parte del consueto protocollo analitico propedeutico ad ogni restauro, hanno dimostrato un dato incontrovertibile, per altro già noto, e cioè che Bernini, come era tradizione nella scultura, sia quella antica che quella a lui contemporanea, sottoponeva ad un trattamento finale le superfici marmoree delle sue sculture; trattamento che in altre occasioni, scambiato per depositi di polvere e di altre sostanze incongrue, è stato rimosso in occasione di restauri con la messa in vista del marmo nella sua piena luminescenza materica. Non ho potuto confrontare i referti analitici del 1997-98 con quelli dell’intervento eseguito in occasione della mostra del 2018, perché non ne ho trovato menzione nella scheda critica sulla Santa Bibiana nel catalogo della mostra. Forse si è trattato di una manutenzione, anche se la Santa Bibiana attualmente sembra presentare un’omogenea luminosità (fig. 1) diversa da quella variegata su toni più bassi (fig. 1 bis) , che qui si vede in alcune foto prima e dopo il ricordato restauro degli anni Novanta del secolo scorso e dopo l’intervento del 2017-18.
Dunque, in ossequio alla Carta italiana del Restauro del 1972, che raccomanda la documentazione dei restauri delle opere d’arte (art. 8) e dunque la loro pubblicizzazione, presento anche in questa sede per un più ampia platea di lettori una sintesi dei dati sull’intervento del 1997-98, già pubblicati nel citato volume sui restauri nella chiesa di Santa Bibiana.
Già l’esame ravvicinato permise, sia pur sommariamente, di distinguere la differenza fra la patinatura originale e lo strato di polvere e di particellato atmosferico localizzati soprattutto nella parte superiore dell’edicola (fig. 2).
Per l’analisi microchimica furono prelevati due campioni minimi della patina dalla scultura e dal timpano dell’edicola; rimossi i depositi di polvere, la composizione della patina risultò di proteine, caseina, uovo, latte e colle animali; sostanze organiche consonanti con le patine in superfici lapidee, realizzate talvolta in altri casi plastici anche con olio di nafta, trementina, sandracca, come è attestato fra XVII e XVIII secolo da André Félibien e da Filippo Bonanni e ancor prima, da Ludovico Dolce nel XVI secolo, il quale sottolineò la differenza fra il colore fisico e quello dell’immagine artistica ottenuto talora con la velatura realizzata con olio di nafta sul colore già dato[24]. L’accertamento della presenza con varia intensità della patina sulla superficie dimostrava la volontà di Bernini di ottenere variazioni e gradazioni cromatiche differenziate, più riflettenti nelle parti lisce, satinate invece nelle zone di valore luministico-cromatico più “basso”. Dopo piccoli saggi di pulitura riemerse la patinatura di colore ambrato chiaro presente con varia intensità su pressochè tutta la superficie, ad eccezione di alcune parti in profondità più chiare perché prive di patina ed offuscate dalla polvere. Era la prova della tesi di Brandi, e cioè che Bernini aveva voluto evitare con la patinatura l’arresto dell’immagine artistica sulla soglia di una scontata resa naturalistica del marmo, che avrebbe imposto il suo splendore naturale in modo omogeneo e in contraddizione con la visione spettacolare carica di variegati effetti luministico-cromatici dell’estetica barocca. Per raggiungere questi resultati, la patina non fu stesa in modo omogeneo ma fu lavorata dal Bernini sulla superficie con un panno per alzare o abbassare gli effetti del colore soprattutto nelle zone di esposizione plastico-luministica, come la fronte, le labbra, il naso, le gote, il collo (figg. 3- 4- 4 bis).[25]
Un procedimento berniniano che lo Chantelou documentò molti anni dopo l’impresa di Santa Bibiana nello straordinario ritratto di Luigi XIV (1665).
La volontà di Bernini di ottenere con la patinatura contrasti cromatico-luministici nell’assenza di questo procedimento nelle pieghe più profonde del panneggio e nelle incisioni degli occhi, mentre è presente anche sulla parte superiore marmorea dell’edicola di contenimento della scultura.
In particolare, il viso, il collo, le mani, il piede destro esibivano valori cromatici più intensi, pigmentati di scuro, mentre la veste presentava un colore ambrato e le gote, il mento, il bordo del labbro superiore, parte del collo e le dita si presentavano lucidati con accentuazione dell’incidenza luministica (figg. 3, 4, 4 bis, 5, 6).
Un modo di procedere che richiama l’aspetto alabastrino della patinatura sovrammessa dal Bernini sul contemporaneo busto di Urbano VIII, eseguito verso il 1625 per la chiesa romana di San Lorenzo in Fonte (fig. 7), anch’esso restaurato su miei progetto e direzione.
Preso dunque atto di questa situazione, si decise di fare solo l’asportazione della polvere grassa e dal particellato atmosferico con blande applicazioni di pochi secondi di carbonato d’ammonio in acqua deionizzata, così che la patinatura non venisse compromessa. Il risultato fu pari alle aspettative: la Santa Bibiana si presentava senza la brillante luminosità marmorea tipica degli sbiancamenti, ma con la velatura della patina berniniana secondo la tradizione artistica proveniente dal mondo antico, dove le sculture erano non solo patinate ma spesso dipinte; dipinture purtroppo spesso perdute nel corso del tempo per far posto talvolta a ricoperture di vernice scura. Un fatto questo che ho riscontrato anche su statue lignee, come nel caso del restauro che progettai e diressi nel 2001 della Madonna con Bambino, scultura lignea della metà del XIV secolo, nella chiesa di Santa Maria a Fiume, a Ceccano (FR), di cui pubblico in questa sede le foto prima e dopo il restauro (figg. 8- 9).
Roma Epifania 2025
Vitaliano TIBERIA Roma Gennaio 2024
Note