di Giovanni PAPI
Il tempo (difficile) del Futurismo
I leoni già impavidi e oscuri col loro peso specifico di nero-bronzo, ora invecchiati e passatisti, abbandonati da diversi anni sulla scalinata della Galleria (GNAM/C) riflettono sornioni sul titolo imposto all’esposizione. Sì, tempi duri e difficili per la mostra sul Futurismo nel modo in cui è stata presentata, condotta, allestita, criticata, stroncata, commentata, difesa, protetta. Ma il Futurismo non ha “un tempo“: è per sempre. Un’utopia totale che esce fuori dallo spazio del quadro ed esplode nel vissuto reale con un progetto di rigenerazione che coinvolge ogni cosa, con lo sconfinamento dell’arte in ogni dove, a cominciare dalla vita quotidiana e dallo spazio urbano. È il movimento che ha scosso l’Europa e che più ha influenzato (nell’identità) tutte le avanguardie artistiche nelle diverse espressioni estetiche. Berlino, Parigi, Milano, Roma, Mosca, Londra… In quegli anni e negli animi si abbracciava l’idea di un’intensa sperimentazione e visione sull’arte: l’unità delle arti, la loro compenetrazione e un fronte unitario contro l’accademismo. (La mia comunicazione è centrata sull’esposizione, indipendentemente dal catalogo, ndA).
Filippo Tommaso Marinetti aveva acceso la scintilla a Parigi nel 1909 con il suo personale manifesto rivoluzionario, intuendo da subito che “la comunicazione era la modernità”, inviando costantemente manifesti, opere, pubblicazioni e scritti futuristi (realizzati via via con i suoi sodali) agli indirizzi di riviste, giornali e intellettuali di tutta Europa e oltre, ottenendo così un’istantanea e fulminea diffusione del loro dinamismo creativo. (D’altronde la sua rivista “Poesia” – poi “Poesia Futurista” – edita dal 1905, era già una pubblicazione internazionalmente nota, ospitando numerosi interventi in varie lingue). In breve, il movimento di Marinetti, estremamente vitale, incontra e si intreccia con tutte le avanguardie europee che in un modo o nell’altro ne rimangono influenzate e ne traggono ispirazione: Picasso e i cubisti a Parigi; van Doesburg e il movimento De Stijl in Olanda; i numerosi artisti del Cubo-Futurismo e Costruttivismo in Unione Sovietica: Malevič, Lissitzkij, Tatlin, Rodchenko; il Bauhaus di Gropius in Germania; il contro-futurismo/Vorticismo in Gran Bretagna; il Dadaismo del Cabaret Voltaire di Tzara e Duchamp; la scrittura automatica dei Surrealisti di Breton e ancora Stati Uniti, Messico, Giappone…
Nella promozione della mostra “Il tempo del Futurismo” si era detto più volte e in più occasioni, a partire dall’ex-ministro Sangiuliano che l’aveva fortemente voluta sin dalla sua nomina, e ciò ribadito alla presenza del suo successore Giuli anche in conferenza stampa, esaltando e rimarcando trionfalmente in vari modi il carattere internazionale del movimento italiano che si era poi diffuso in tutto il mondo.
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Di tutto questo aspetto, però, di fondamentale importanza oggi per far capire al grande pubblico anche le ragioni e le motivazioni di una mostra così impegnativa e di un tema ancora poco noto, non c’è nessuna traccia nel lungo percorso espositivo delle ventisei sale in cui esso è articolato; nessuna indicazione nelle sette macro-sezioni in cui è stata suddivisa la mostra, se non per la presenza del “Nudo che scende le scale no.1″ del 1911 di Duchamp e quella di “Box-R-Bila” del 1921 di Kurt Schwitters. Quello che doveva essere uno dei temi centrali, cioè le relazioni e le influenze internazionali del Futurismo con le avanguardie europee, dalle dichiarazioni d’intenti, non appare in nessuna delle numerose sezioni proposte. Non ci sono nemmeno esempi fra i tanti protagonisti, oltre a Marinetti, del ruolo di mediazione svolto da alcune notevoli figure come Gino Severini fra i cubisti e i futuristi a Parigi, oppure il gran lavoro di attività culturale di Enrico Prampolini svolto in seguito, presso diverse sedi di avanguardia europea.
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A onor del vero va anche ricordato che, da quando nel 1925 Marinetti si trasferì nella nota abitazione di piazza Adriana 30 a Roma, la città si impone come un centro internazionale di avanguardia, diventando ufficialmente il nuovo fulcro d’azione del movimento. Così come non figurano, dispersi e dimenticati, altri temi come quello della Musica Futurista: non basta piazzare al centro di una sala delle ricostruzioni, “falsi” Intonarumori sovra-ingombranti e muti (il Gorgogliatore, l’Ululatore, il Rombatore, lo Stropicciatore, il Sibilatore, lo Scoppiatore, il Crepitatore) a rappresentare il mondo mistico di Russolo composto da vibrazioni e pura sensibilità.
La cronofotografia di fine Ottocento che influenza la pittura futurista di movimento, inesistente come la Fotografia Futurista, il fotodinamismo. Sottotono il Cinema Futurista e ancor più le poche opere dedicate alla visionaria Architettura Futurista (che insieme a quella dechirichiana preludono entrambe alla fervida stagione del Razionalismo architettonico). Insomma, la famosa interdisciplinarità futurista è quasi assente e ancora: il teatro, la scenografia, la moda, il design, l’illustrazione, l’immaginismo, ecc.
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Altre sezioni, al contrario, sono affollate da numerose opere, contraddistinte da una bulimia autarchica. Rare sono le opere di alcuni, nonostante il loro massimo protagonismo fin dalla prima ora: Boccioni, Carrà, Severini. L’allestimento realizzato, dove il presunto “dialogo” visivo tra scienza, tecnica e opere d’arte, semplicemente, non funziona: non c’è relazione, risulta incomprensibile, sballato, impallato. “L’automobile ruggente… che sembra correre sulla mitraglia” non ruggisce e sta ferma, in posa, come in vetrina.
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Basta attraversare il salone del “Futurismo eroico” con al centro la minuscola e solitaria scultura di Boccioni: Sviluppo di una bottiglia nello spazio (una ricostruzione su foto mediante ricomposizione di frammenti raccolti nel 1927), abbandonata a sé stessa nel grande spazio; per poi osservare la Maserati rossa (1934) e il trittico di Previati (1913). Assenti pannelli esplicativi o un’idea di comunicazione didattica rivolta a tutti durante il cammino. Poi una su tutte: mi sono imbattuto improvvisamente, mentre camminavo lungo il percorso, in una forma avvolta dalla semioscurità, quasi inciampando e andando a finire inavvertitamente col piede contro la base di quell’ostacolo.
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L’opera posta quasi al buio e al centro del percorso era con mia somma sorpresa la scultura più iconica del secolo in cui venne realizzata: “Forme uniche della continuità nello spazio” del 1913 di Boccioni. Cioè il capolavoro assoluto del Novecento, conosciuto in tutto il mondo, si poteva, incidentalmente, finanche “abbracciare”. (Come è noto la scultura, in seguito, è stata ritirata dal prestatore Bilotti, per varie incomprensioni con la direttrice della Galleria in merito alla didascalia “falsata” e anche per ovvi motivi di sicurezza, appunto!). Collocato lateralmente all’opera un fastidioso, anche agli occhi, mini-tunnel di luci colorate con la pretesa folle e insensata di continuità narrativa tra “l’uomo nuovo” di Boccioni e l’A.I. La presenza della sala dedicata a Marconi con le sue strumentazioni e apparecchiature, ovviamente interessanti, rimane equivoca, in quanto il suo genio visionario appartiene alla scienza e non al Futurismo, o meglio il “telegrafo senza fili” e “l’immaginazione senza fili” appartengono sì alla stessa temperie di ricerca temporale, ma non “viaggiano insieme”. Nel manifesto “LA RADIA” (1933), nome declinato al femminile dato da Marinetti alle “grandi manifestazioni della Radio” (non menzionato in mostra), si parla di
“Superamento delle arti, dell’amore, del patriottismo… e del Superamento della Terra con l’intuizione dei mezzi escogitati per realizzare il viaggio nella Luna“.
(Famose rimarranno le sue sintesi radiofoniche, radiodrammi avanguardisti).
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Il Futurismo è una costellazione di eventi, di personaggi, di linee, di idee, di fremiti, di energie, di rigenerazioni, di trasmissioni, di contaminazioni che per più di tre decenni attraversano l’Italia e l’Europa. Circa 350 sono le opere provenienti sia dalla GNAM/C stessa, che da musei nazionali, collezioni private e da alcuni musei internazionali, con lavori molto significativi che meravigliano ancora oggi per la loro arditezza e invenzione.
La mostra è decisamente da vedere con quello che c’è da apprezzare, studiare, osservare, capire: Balla, Boccioni, Prampolini, Cappa Marinetti, Severini, Carrà, Depero, Drudeville, Fillia, Russolo, Romani, Tato e tanti altri. Opere fondamentali per la nostra storia e il nostro Novecento.
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Comunque, credo che le stesse strutture istituzionali e politiche che hanno proposto il progetto, ovvero gli uffici della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea insieme alla Direzione Generale Musei del MiC, si siano trovate impreparate e spiazzate – non pronte – nell’affrontare, soprattutto perché per la prima volta, gli indirizzi di una tematica così vasta, complessa, discussa come quella dell’avanguardia più importante del Novecento, già oggetto fin dagli anni ’50 di numerosi studi, ricerche, analisi, mostre, indagini, incontri via via sempre più frequenti. Ricordo ancora nelle aule universitarie e in quelle delle accademie d’arte che il “Futurismo”, innominabile, veniva appena citato come “movimento provinciale“. Giulio Carlo Argan, massima intelligenza e conoscenza applicata alla storia dell’arte italiana, già docente dal ’56 e poi negli anni ’70 di fatto Ministro della Cultura, si rifiutò sempre di scrivere sul movimento marinettiano.
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Ma questo, contrariamente, giovò alla cultura italiana dato che un illustre maestro quando vuole oscurare un tema (strabordante in ogni direzione), di rimando, tutta una schiera di giovani talentuosi e rilevanti studiosi inevitabilmente fanno propria quella cancellazione. Maurizio Calvesi (che nei suoi anni giovanili aveva già conosciuto Marinetti) su invito di Argan realizzò una considerevole rassegna su Boccioni e fin da allora, dal 1953, avviò e fu promotore pioneristico e penetrante interprete di notevoli e approfonditi studi sul Futurismo e i suoi maggiori protagonisti.
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Inizia da qui una lunga rivalutazione e riabilitazione storica del movimento, senza riserva ideologica, contestando anche fortemente e filologicamente la tesi che il Futurismo fosse legato o addirittura “sovrapposto” al Fascismo; laddove l’impianto visionario, eretico ed estetico del movimento marinettiano era di 13 anni prima e aveva già conquistato culturalmente l’Europa (e il mondo). Poi di mezzo ci fu anche una guerra mondiale. Il Futurismo continua, nonostante le sue gravissime perdite: Boccioni, Sant’Elia, Erba. Ha un corpus molto lungo: dal 1909 al 1944 primato impensabile per altri movimenti e saldamente rimane sempre in mano al suo ideatore con esiti e produzioni ancora esilaranti come la straordinaria stagione dell’Aeropittura.
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Ovviamente continua in modo e forme più problematiche in considerazione dei nuovi eventi e del nuovo regime. Inevitabile la necessità di vivere vari compromessi per difendere il movimento e i suoi sodali: anche se da incendiario si trasforma in accademico, la vera fede di Marinetti rimane quella futurista, sempre, fino alla fine. Comunque, altro tema: “Fascismo e Futurismo” (quest’ultimo già apprezzato nel suo nascere dalle arcinote considerazioni coeve di Gramsci e Gobetti e già oggetto di varie indagini storiche) è assente in mostra. Va anche ricordato che Marinetti fu l’unico intellettuale italiano a protestare vivacemente sulla stampa per i provvedimenti razziali contro gli ebrei.
Sono trascorsi sette decenni da quella prima influente rivisitazione, costellati da tante iniziative, tappe, ricerche, pubblicazioni, progetti, mostre. Straordinaria quella curata da Enrico Crispolti (altro fondamentale studioso) “Ricostruzione futurista dell’universo” alla Mole Antonelliana di Torino del 1980, e quella memorabile “Futurismo e Futurismi” curata da Pontus Hultén nel 1986 a Palazzo Grassi a Venezia, grande mostra che segnò una decisa e rinnovata apertura al Futurismo in Italia e all’estero annullando riserve ideologiche con una prima considerevole ricognizione sulle sue relazioni internazionali annunciate già nel titolo.
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Allora venne però trascurata l’Aeropittura futurista ispirata al dinamismo del volo e al successo dei trasvolatori: alle nuove prospettive visive offerte dall’aviazione con la relatività di spazio e tempo. Tema ampiamente colmato in questi ultimi anni da numerose iniziative comprese le più recenti. Le celebrazioni del centenario del Manifesto di fondazione 1909-2009, mal organizzate, non hanno avuto particolari esiti e riscontri. Pessima anche la mostra parigina, poi trasferita a Roma, curata da Ester Coen molto criticata dallo stesso Calvesi. Con quest’ultimo Coen aveva firmato il catalogo ragionato “Umberto Boccioni. L’opera completa” del 1983. Il gran lavoro di ricerca è stato poi portato a termine viste le novità emerse: più di centocinquanta opere dell’artista futurista venute alla luce, quindi la necessaria compilazione aggiornata dell’opera, affidata ad Alberto Dambruoso, redatta in sei anni di ricerche; il nuovo catalogo fu pubblicato nel 2016 coronando peraltro l’enorme mole di studi e approfondimenti costanti portati avanti da Calvesi nel corso della sua vita e dal titolo: “Umberto Boccioni. Catalogo generale” di M. Calvesi e A. Dambruoso.
Dambruoso figurava anche come co-curatore insieme a G. Simongini della mostra istituzionale “Il tempo del Futurismo” a cui aveva lavorato per più di un anno e mezzo. Alcuni mesi prima dell’inaugurazione, prevista inizialmente per ottobre, veniva “epurato” insieme ad altri membri del comitato scientifico. Rimando alla sua recensione della mostra del 16 dicembre dopo l’apertura avvenuta il 2 dicembre. Immagino la soddisfazione dello studioso quando all’uscita nel bookshop trovava in quei giorni il suo catalogo sulle opere inedite di Boccioni, edito nel 2022 da Maretti, quando ancora il catalogo stesso della mostra “Il tempo del Futurismo” era inspiegabilmente e scandalosamente assente.
Faccio qui presente che, occupandomi del Novecento e facente parte del Centro Studi Roma, conduco da molti anni incontri e convegni su vari temi del mondo dell’arte e della cultura (vd. “Classico-Contemporaneo”); avevo già promosso fin dall’estate scorsa, in previsione della mostra annunciata alla GNAM, due giornate di studio sul Futurismo grazie all’ospitalità della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Quella del 6 giugno vedeva la partecipazione di Dambruoso con una relazione su Boccioni, massimo esponente della compagine futurista. Nel secondo convegno, quello del 26 settembre, avendo già interpellato il noto storico dell’arte, Fabio Benzi veniva invitato ad aprire la seconda giornata di studio, avendo realizzato la straordinaria mostra dell’anno precedente al Kröller-Müller Museum: “Futurism & Europe: The Aesthetics of a New World” (tr. it. “Il Futurismo e l’Europa: Estetica di un Nuovo Mondo“, 29 aprile – 3 settembre 2023, Otterlo, Paesi Bassi). Mostra tesa a smentire tanti luoghi comuni e ad analizzare la reale portata dell’influenza del Futurismo evidenziando quanto fosse stato un punto di emanazione estremamente vitale per tutte le avanguardie europee, dimensione mai indagata realmente prima di allora, nelle varie sue articolazioni e così a fondo, in circa 30 anni della sua storia. Con documentazione, indagini, raffronti. Altra giornata straordinaria condotta come sempre con la partecipazione di relatori di rilievo.
Tutto inizia dalla mostra del 1912 alla Galerie Bernheim-Jeune di Parigi, ovvero il momento in cui i futuristi si fanno conoscere in tutta Europa.
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Curiosamente in questa ci fu l’esclusione di Giacomo Balla per mano dei suoi stessi “allievi” Boccioni e Severini dalla seminale mostra e di conseguenza anche l’assenza dalla celeberrima foto dei futuristi in bombetta. Secondo gli “allievi” il loro maestro non era ancora pronto per affrontare le nuove idee futuriste.
Il primo periodo di influenza del Futurismo avviene già dal 1913 con la scultura di Boccioni e nel 1914 con le sculture di Balla e di Depero, astrattisti futuristi, astrazione con primogenitura di Balla, che vengono pubblicate nel 1915 nel loro manifesto della “Ricostruzione Futurista dell’Universo”. Sezione importante in mostra che apre con i tre quadri interventisti di Balla e il Paesaggio guerresco di Depero. Complessi plastici astratti.
“Complessi plastici che girano, si scompongono, parlano, rumoreggiano, suonano simultaneamente, appaiano e scompaiono…“,
nel manifesto appaiono e viaggiano insieme le prime sculture completamente astratte mai concepite, le cui immagini (omesse nell’esposizione) arriveranno immediatamente in tutta Europa.
“Troveremo degli equivalenti astratti di tutte le forme e di tutti gli elementi dell’universo, poi li combineremo insieme, secondo i capricci della nostra ispirazione”.
In loro però non c’è una trasformazione della “macchina” in entità sensibile alle necessità umane. Opere che influenzeranno, quasi replicate, Tatlin, Pevsner, Gabo, riprese per di più da Schlemmer e altri. Del primo Manifesto dell’arte meccanica futurista del 1922 di Vinicio Paladini e Ivo Pannaggi però non c’è traccia: sarà poi subito ripreso e ampliato assieme a Enrico Prampolini.
In seguito, proprio negli anni tra le due guerre, fu più intenso il dialogo tra i futuristi e le avanguardie europee, tutti guardavano ai futuristi come gli iniziatori di un nuovo sistema dell’arte oltre l’arte, rinnovando tutte le discipline delle arti tradizionali e quelle moderne fino alla grafica, al cinema, al teatro, alla città. Una grande eredità. Durante la comunicazione poi il curatore Benzi spiega in anteprima nazionale al pubblico in sala che la sua mostra doveva essere esposta al MAXXI con tutta la vicenda paradossale legata a quel mancato buon fine ad accordi già chiusi: vicenda subito ripresa dai giornali, amplificata e diffusa qualche settimana dopo dalla trasmissione Report.
La mostra “Il tempo del Futurismo” forse nasce sicuramente dalle buone intenzioni di mostrare ed evidenziare finalmente in modo puntuale come il Futurismo esercitò la sua influenza sull’universo artistico dell’Europa e fu vitale per tutte le avanguardie. Questa è la vera fondamentale e principale novità storica in assoluto delle ultime ricerche sul Futurismo. Magistralmente però già rappresentata al Kröller-Müller Museum, nel cuore dell’Europa. Strada facendo all’impianto internazionale (totalmente inesistente alla mostra GNAM/C) viene “sostituito” in corsa con quello della “scienza e tecnica” in rapporto all’arte. (Addirittura, ho letto fra le tante bestialità sulla mostra – che se ne potrebbe fare un’enciclopedia – che quella della GNAM/C andava a colmare la “dimensione internazionale” non considerata nella mostra di Otterlo. L’onestà della “buona” informazione).
A onor del vero l’impianto originario del concept del progetto espositivo e il titolo erano già scritti nella ricorrenza stessa: l’ottantesimo anniversario della morte del fondatore del movimento futurista Filippo Tommaso Marinetti (Alessandria d’Egitto, 22 dicembre 1876 – Bellagio, 2 dicembre 1944). Nulla sarebbe stato più interessante che dedicare la mostra al genio di Marinetti, per capire l’espansione e lo straordinario successo del Futurismo in Italia e in Europa: un fenomeno culturale dovuto alla capacità vulcanica, alla strabiliante abilità, all’energia e alla genialità intuitiva del suo unico fondatore e ideatore (insieme ad altri fattori, avendo pure la fortuna di disporre di denaro di famiglia). Il tema e il titolo erano sotto gli occhi di tutti. Il “taglio” su Marinetti avrebbe inoltre fatto capire meglio il personaggio, le sue relazioni, il poeta, l’organizzatore, il promotore, le sue motivazioni: dotato di una formidabile presenza scenica capace di magnetizzare ogni tipo di pubblico. Alla capacità indiscussa di “arruolare” nel corso del tempo e delle vicende storiche i migliori spiriti creativi fra i suoi sodali. (“La radice del dinamismo era generata dai sentimenti” aveva scritto Boccioni). Anche in relazione al fatto di essere un “modello” di riferimento culturale europeo come altre personalità con cui era in contatto: Apollinaire, Majakovskij e altri. Poi dai suoi primi scritti fino agli ultimi si legge perfettamente attraverso il percorso letterario, il suo destino e le vicende della sua incrollabile fede futurista.
L’ultima sezione: “Eredità del Futurismo” non ha ragione di essere. Il Futurismo non ha eredi. Tutti gli artisti annoverati in questa rassegna non hanno nulla a che fare con lo spirito culturale di quel tempo (zeitgeist). O meglio, in quelle stagioni precedenti, dove si era fatto realmente “tutto” in teoria e opere non si poteva che esserne influenzati. Da quelle personalità che volevano “uccidere – anche – il chiaro di luna” avendo dato vita a un movimento globale fino alla vita creativa tutta, compresa la morte e oltre… ancora più in là fino alle stelle.
“Dalla bellezza della velocità della macchina… alla conquista dello spazio cosmico. Ritti sulla cima del mondo noi scagliamo la nostra sfida alle stelle!”:
messaggio universale che generò timore e tremore ma infinite fascinazioni.
Ma non esistono “eredi”. Insulsa trovo, proposta dai più, la relazione dell’Arte Povera come continuità e legame con l’eclettismo, il polimaterismo, l’installazione, ecc. Ma siamo negli anni del boom economico con tutto quel che significa e le installazioni dei futuristi erano solo sulla scena. E poi soprattutto dopo la sciagurata catastrofe e schiacciante tabula rasa del secondo conflitto bellico. Ricordo che in parte questo tema emerse con Piero Dorazio quando parlando di Balla, suo riferimento artistico insieme a Prampolini (a me più vicino), raccontava di quest’ultimo come fosse stato punito dalle istituzioni quando, dovendo affidargli una cattedra dopo la fine della guerra, gliene avevano assegnata una nel nord Italia e lui, che viveva a Roma, era costretto, già anziano, con la sua Cinquecento, ogni volta a interminabili viaggi nell’ultima parte della sua vita. E questa era, essendo in accordo, la reale parte in negativo dell’eredità del “tempo difficile del Futurismo” che colpì anche la stragrande maggioranza di personalità impegnate nelle arti. Se diciamo che il Futurismo è “vivo” va inteso come è “vivo” e attuale il Rinascimento, il Barocco e così via, in un’idea di ricerca di umanesimo moderno facente parte della “polvere di stelle” depositata sulla nostra pelle. Parafrasando Galimberti, siamo tutti cristiani, pure chi magari non sa di esserlo e tutti noi, di rimando, abbiamo ugualmente uno spirito futurista, che aleggia nella contemporaneità sempre in espansione.
Il movimento marinettiano con il suo eclettismo, la sua “immaginazione senza fili”, le sue tessiture e intersecazioni nazionali e internazionali ha salvato culturalmente l’Italia e insieme alle altre avanguardie l’Europa stessa, da quei periodi dissennati contraddistinti da spaventosi e devastanti conflitti mondiali: catastrofi che hanno spazzato via definitivamente “il leone Europa”. Il Futurismo non ha “un tempo” e non può averlo. Né era “…diventato il canto della società industriale, l’arte applicata all’epoca del capitalismo”, come qualcuno ha scritto, o che amavano l’industria o altre facce della tecno-scienza come ho sentito. Al contrario, esso rappresenta l’incarnazione della perenne ricerca leonardesca nell’invenzione del futuro, in un nuovo umanesimo.
Giovanni PAPI Roma 12 Gennaio 2025