Documenti inediti su alcuni importanti affreschi al Teatro Olimpico di Vicenza scoperti da una studiosa giapponese.

di Mayu FUJIKAWA

Mayu Fujikawa, dopo aver conseguito il dottorato di ricerca presso la Washington University in St. Louis nel 2008, ha insegnato negli Stati Uniti. Dal 2105 è a Firenze come fellow dell’European University Institute e dell’Harvard University Center for Italian Renaissance Studies (Villa I Tatti). Ha pubblicato saggi sull’Opera della Sacra Cintola a Prato, sulla storiografia dei gesuiti in Giappone e sulle immagini europee di personaggi orientali e africani. Attualmente sta scrivendo un libro sulle rappresentazioni visuali degli ambasciatori giapponesi nei secoli XVI e XVII. A partire dal prossimo aprile insegnerà all’Università di Meiji a Tokyo. Con questo articolo inizia la sua collaborazione con About Art.

 

Presento qui alcuni risultati delle mie ricerche originali che conduco dal 2011 nella Biblioteca Civica Bertoliana (BCB) per scrivere il libro, European Visualization of the Japanese Embassy, 1582-1590 (di prossima pubblicazione). Vorrei ringraziare i bibliotecari della Bertoliana e Mariano Nardello, Maria Elisa Avagnina e Stefano Bodinetti dell’Accademia Olimpica. Un ringraziamento speciale va a Veronica Vestri. (M.F.)

L’orazione per gli ambasciatori giapponesi nel Teatro Olimpico a Vicenza (1585)

Fig. 1: Alessandro Maganza (attr.), Il ricevimento degli ambasciatori giapponesi nel Teatro Olimpico, c.1596

Nel Teatro Olimpico a Vicenza, c’è un affresco che rappresenta l’immagine di Livio Pagello, un membro dell­’Accademia Olimpica, mentre viene tenuta un’orazione agli ambasciatori giapponesi. Dopo aver reso obbedienza al pontefice a Roma, questi convertiti viaggiarono per l’Italia, arrivando a Vicenza il 9 luglio nel 1585; partirono la mattina successiva. Durante il loro breve soggiorno, gli accademici olimpici li ricevettero onorevolmente, in parte perché così richiese il doge veneziano Nicolò Da Ponte nella sua lettera.[1] Di seguito si riporta quanto Pagello disse agli ospiti, pronunciando la sua orazione.[2]  Egli Considerò questi convertiti dall’Oriente come i nuovi Magi:

“Nato il Salvator del Mondo in Betleeme, Città di Giuda, vennero dall’Oriente pietosi regi, guidati da una stella ad adorarlo; et fu ben ragione che le stelle s’adoprassero per mostrar quel divin sole dal quale esse da principio erano state create; ma poiché egli con gli accesi raggi suoi hebbe purgato et illuminato il mondo lasciò, ascendendo in cielo, con maravigliosa impressione di se stesso un altro sole in terra, nel quale mirando i mortali fossero scorti alla patria celeste. Ecco providenza eterna, popoli remotissimi et incogniti, a quali non pervenne forse prima giammai la felice nuova dell’evangelio, in spirito rinati et divinamente inspirati, sono venuto hora a questa chiara luce, a questa risplendente imagine di Dio. Voi illustrissimi principi ambasciatori di christianissimi regi, comparsi hora quasi nuovi magi, guidati da nove stelle di Giesù, vi sete inchinati al vicario suo, et con profonda humiltà adorandolo; gli havete offerti pretiosissimi doni di viva fede. Voi sete quelli che havendo con la venuta vostra rallegrato questo (per dir così) nostro mondo, rallegrate sommamente la christianità, et singolarmente la Italia, ove il capo de’ christiani rissiede. Et certo che non sarebbe humanità in quegli huomini, i quali non sentissero allegrezza, vedendo nelle nobilissime persone vostre rappresentarsi quasi infiniti della loro specie. Gode ciascuno, quando intende che si trovi un’istrumento, o un’arte che da lui prima conosciuta non fosse; o quando vede una pianta, o un animale, ch’egli non sapeva che la natura prodotto havesse. Ma quando più dobbiamo goder noi, conoscendo hora chiaramente che non è così deserta la terra, che in tutta la circonferenza del suo globo habitata non sia? Allegrezza adunque, allegrezza a noi, e gloria all’altissimo iddio, il quale tanto maggiormente dobbiamo lodare, quanto che non solo habbiamo in cospetto huomini, a quali la natura ci ha congiunti, ma christiani huomini, co’ i quali la religione ci ha uniti, et fatti un stesso corpo con loro. Conviene particolarmente che si rallegri la compagnia nostra Olimpica, tanto favorita da voi, sendovi dognati di visitarla, e d’honorarla con la presenza vostra.”

Fig. 2: Alessandro Maganza (attr.), L’emblema dell’Accademia Olimpica, 1596

Pagello poi spiegò le origini e gli scopi dell’accademia a cui apparteneva, aiutandoci a capire come gli accademici interpretarono l’emblema della loro istituzione. L’emblema mostra il gioco olimpico che Ercole (il patrono dell’accademia) istituì; alcuni aurighi girano attorno al palco sollevato, su cui sorgono un obelisco, altari, e metae (3 cippi in ogni estremità del palco). Nel corso di una vita pericolosa e difficile come il “circo olimpicoPagello sottolineò l’importanza di “esser prudenti e giusti” e di avere “la fortezza et la temperanza”—è necessario essere aurighi accorti e ragionevoli:

“Ma perché la letitia nostra si scoprirà per aventura più facilmente da se stessa nei nostri volti, di quello che da me si possa con parole esprimere, non mi affaticherò per far questo; ma rivolgerò il parlar mio a nararvi quello che forse desiderate di intendere dell’instituto della compagnia nostra, che con antico nome chiamiamo Accademia. Erano i primi filosofi così intenti alla consideratione della cose naturali, che sprezzando i proprij costumi, pareva che non curassero se medesimi, quando Socrate, quello che dall’oracolo fu giudicato sapientissimo, incominciò mostrar agli huomini quanto bella fosse l’anima ragionevole, ornata di virtù, e quanto ella fosse deforme ripiena di vitij; di costui fu discepolo Platone, il quale insegnò la dottrina del maestro nella sua scuola, che Accademia fu detta, e con questo nome, fino a tempi nostri sono stati appellati quei luoghi, ove l’arti liberali s’insegnano. Quindi è avenuto, che alcuni ritiratisi insieme per virtuosamente vivere, hanno anch’essi chiamato i privati loro ridotti Accademie, nel numero de’ quali sono gli Olimpici Vicentini, che già molt’anni elessero virtuoso otio, pensandosi in questo modo d’ingannar il senso, il qual difficilmente obedisce alla ragione, se da lei difficili, e faticose imprese gli sono proposte. Fattasi ella poi alquanto forte, vollero i nostri maggiori mostrarsi alla scoperta inimici del senso, togliendo per duce il famoso Hercole distruggitor de’ vitij (quello che perciò finsero i poeti domator de’ mostri) e per insegna i giuochi olimpici dall’istesso Hercole instituiti; ove per il corso delle carrette intorno alle mete, altro non ci è dimostrato che ’l pericoloso corso di questa vita mortale, nel quale, come accorto auriga, la parte nostra ragionevole deve guidarci. Questa dunque signori, è la profession nostra, questi sono i nostri instituti. Doviamo noi essercitarci in questo circo olimpico, non per parer saggi, ma per esser buoni; et se tal’hora ci inalciamo a considerar dall’una parte l’essere, et la mirabile dispositione delle creature, impariamo ad esser prudenti e giusti; se dall’altra consideriamo l’incertezza, et la instabilità loro, impariamo la fortezza, et la temperanza.”

Pagello continuò a lodare i giapponesi che avevano viaggiato per gran distanza in ragione della loro fede e sperò che il loro ritorno stimolasse i popoli non ancora convertiti ad essere cristiani:

“A queste considerazioni, oltre gli essempi dei santi, c’hanno militato soto le gloriose insegne di Christo, ci invitato anchora molti gentili, le operationj de’ quali, benché per non esser informate di carità, non si possono chiamar assolutamente virtuose, sono però buone, come dettate dalla ragione. Ma io mi accorgo che mentre tendo di mostrar le vie, per le quali gli olimpici creano la virtù, la hanno già essi ritrovata negli animi di Vostre Signorie Illustrissime ove regna quella tranquillità, et quella pace, la quale fa l’huomo grandemente amico di Dio, e di se stesso. Quindi havranno non solo dignissimo essempio da imitare, ma honorevolissima occasione, anchora d’impiegar gli studi loro in lodare, che sebbene non sono io atto a celebrar con la chiarezza del sangue le heroiche virtù vostre, et stupisco solo imaginandomi la carità, et la divotione, che v’ hanno dato ardire di solcar tanti mari, di passar tanti monti, di cercar tanti paesi, per veder quel vello d’oro, che rappresenta il divino, et immaculato agnello Giesù Christo, saranno per aventura degli altri che tenteranno di farlo. Questo, questo olimpici miei è soggetto da esser cantato nel superbo theatro vostro, dalle vostre lingue, di tali gloriose voci deono rissuonar questi ornati pareti. Loderete negli ambasciatori che vi sono presenti, i nobilissimi signori che gli hanno mandati che se giudicò Homero così degna fatica il cantar l’ira d’Achile, quanto dovrà stimarsi il celebrar la mansuetudine, onde sono fregiate le tante, et così eccellenti opere loro? Et se Virgilio vergò tante carte lodando il pietoso Enea, che dovranno far coloro che si propongono la pietà vera, che riluce in quegli animi, i quali per far guadagno di Christo, hanno posto in bando ogni utile, ogni honore, et ogni mondana grandezza? Anzi di quelli, che non gloriandosi tanto di esser nati nei palagi regali, quanto di esser renati nei fonti battismali, colmi di zelo di vero honore sono pronti a sparger il sangue per propagar quella santa legge, della quale hanno fatto professione. O viva fede, o fortissimi campioni di Giesù, o salde collone della sua Chiesa. Portate adunque Olimpici alla posterità le gloriose lodi di questi heroi; rappresentateli la allegrezza, che oggi sente la città vostra, et il giubilo di questo theatro, fateli udir le mie voci, che con tanta attentione da tanto popolo sono ascoltate, non per altro, se non perché parlano di loro. Et io intanto Illustrissimi Signori, poiché altro non posso honorerò sempre, et ammirerò il nome vostro, et pregherò la Divina Maestà, che sicome ha voluto consolar il Pastor suo, et tutta la sua greggia con la vostra presenza, così co’l felice ritorno rallegrij i cuori dei religiosissimi Prencipi, che con ardente desiderio aspettano di raccogliervi nelle braccia, et inspiri tutti i regi, et tutti i popoli che non hanno anchora cognitione della vera luce, a seguitar le vestigie vostre.”

Mayu FUJIKAWA  Firenze Gennaio 2019

NOTE

[1] L’accademia inviò a Venezia una responsiva sul ricevimento il 11 luglio; BCB, Archivio Storico dell’Accademia Olimpica (AO), fasc. 1, libro A, c.67, 71-72. Si confrontino le altre trascrizioni dei periodi tardi in AO, fasc. 10, libro L, c.39v-40v; AO, fasc. 11, libro M, c.42v-43r; AO, fasc. 13, libro O, c.84r-v; Bartolomeo Ziggiotti, Memorie sull’Accademia Olimpica, BCB, ms. 2916, c.55. Il testo di Ziggiotti è citato da Luigino Trevisan, “Il Teatro Olimpico: Gli anni del silenzio (1585-1618)” (tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, 1972-1973), 25-27.
[2] “Oratione agli Illustrissimi Ambasciatori Giaponesi venuti al Sommo Pontefice con la guida de’ Padri Gesuiti, recitata nell’Academia di Vicenza da Livio Pagello,” BCB, ms.171, 45r-46r. Le altre copie in BCB, ms.171, 47r-50v; ms.2534, 16r-18v; citato in Trevisan, “Il Teatro Olimpico,” 27.