P d L
Dopo aver raccolto il parere di molti studiosi -tra i maggiori esperti della figura e dell’opera di Caravaggio, tutti piuttosto concordi a riconoscere nell’Ecce Homo presentato in un’asta spagnola la mano del genio lombardo (a cui oggi aggiungiamo il parere – più cauto- del Prof. Keith Sciberras) era giusto ridare la parola a Massimo Pulini che sul quadro si è espresso per primo con un saggio su About Arte lo scorso 7 aprile il quale -oltre a chiarire alcuni passaggi della vicenda relativi alla ‘scoperta’ del dipinto- ribadisce i suoi punti di vista ed inserisce nuovi argomenti e nuovi spunti di discussione che riteniamo di grande interesse.
A colloquio con Massimo Pulini
-Iniziamo con una ricostruzione per quanto possibile esauriente di quanto è accaduto da quando il dipinto raffigurante Ecce Homo è stato esposto in asta.
R: La foto del dipinto è stata inserita nel catalogo on line intorno al 20 marzo 2021, il 24 marzo alle 21 e 48 io la ricevo da Giancarlo Ciaroni della Galleria Altomani (Pesaro-Milano), senza nessuna parola di aggiunta nella email e alle 21 e 54, appena la vedo, rispondo con un’imprecazione “C….! E’ Caravaggio, e forse è il vero Caravaggio del concorso Massimi. Ma dove l’hai trovato?”. Ci sentiamo subito al telefono e per un’ora gli spiego perché ho questa convinzione, parliamo subito dei confronti possibili e della bellezza del quadro e da lì parte tutta la questione. Io mi metto a scrivere subito e in qualche giorno compio il saggio che ho poi dato a te, chiamandoti il giorno 30 marzo per ‘prenotare’ un’uscita dopo la battuta d’asta, che era prevista per l’8 aprile.
Facendo un doveroso passo indietro e dicendo cose che ho saputo più tardi, Ciaroni aveva ricevuto la foto da un piccolo antiquario lucano, Antonello Di Pinto, che abitualmente fornisce a lui e ad altri dei passaggi in asta che possono interessare a colleghi più grandi, ma questi non aveva idea di cosa si trattasse e non aveva menzionato alcuna attribuzione né dove si trovasse il quadro. Ciaroni il 25 marzo lo chiama, gli dice che l’opera gli interessa e si accorda per un compenso di segnalazione, ma ovviamente gli chiede riservatezza, Di Pinto invece manda il giorno stesso la foto a Vittorio Sgarbi che gli risponderà il 26, il giorno dopo. E da lì parte un’altra storia che posso solo immaginare. Quella che invece conosco riguarda la famiglia di Giancarlo Ciaroni, Chicca Altomani e il loro figlio Andrea, il quale il giorno 26 marzo è già a Madrid, a fotografare il quadro (in decine di particolari e a luce radente come gli avevo consigliato) e soprattutto a iniziare un avvicinamento alla trattativa pre-asta e al contatto con la proprietà. Viene subito a sapere che i proprietari sono tre fratelli e che uno di questi avrebbe voluto tenere per sé il quadro, ma non riuscendo ad accordarsi con gli altri due si erano decisi a metterlo in asta. Andrea Ciaroni chiede alla casa d’aste un incontro ma è difficile riunire i tre, i Ciaroni avanzano comunque un’offerta nella convinzione che se l’opera fosse giunta in asta avrebbe fatto una cifra che ne avrebbe impedito l’esportazione in Italia. Intanto, da quel che so, Sgarbi tenta di costituire una cordata coinvolgendo Berlusconi e altri suoi amici e ritengo sia stata quella la zona di diffusione ‘virale’ della notizia nel mondo antiquario nazionale e non solo. I Ciaroni spuntano un incontro con la proprietà, ma essendoci di mezzo le festività pasquali viene fissata al 5 aprile, a tre giorni dalla data prevista per l’asta. Nell’attesa di quell’appuntamento Giancarlo Ciaroni raccoglie i denari necessari grazie ad alcuni imprenditori marchigiani, ma i giorni passano e la galleria Altomani non è più la sola a essere interessata all’acquisto ‘pre-asta’, è però la sola ad avere un incontro, ma quando arriva a Madrid il giorno 5 aprile, alla casa d’aste erano giunte due offerte telefoniche (di tre milioni di euro), che inducono il direttore e i proprietari a ritirare il dipinto dall’asta.
L’incontro tra i Ciaroni-Altomani e i proprietari si svolge ugualmente, ma alla galleria italiana viene semplicemente detto che l’interesse dimostrato sul quadro ha spinto la proprietà a farlo studiare meglio. Giancarlo Ciaroni capisce che ormai la trattativa è saltata, ma per rimanervi ancora aggrappato chiede un quarto d’ora di tempo. Esce dall’incontro, mi telefona e in accordo con me va al primo server e fa stampare le 16 pagine del mio saggio e ritorna nella casa d’aste, mette loro in mano quei fogli e gli dice che lo studio lo ha già fatto fare lui, da uno studioso italiano. Strabiliato da un fatto come questo, mai accaduto, il direttore legge in italiano, davanti a tutti, il mio scritto con i proprietari che dopo le prime righe letteralmente sbiancano – così mi è stato riferito-. I Ciaroni poi lasciano l’incontro proponendosi come collaboratori internazionali per una futura esportazione, legittima, dell’opera (ora non più possibile, ma la notifica dello stato spagnolo arriverà solo due giorni dopo, il 7 aprile). A questo punto mi sento di chiedere un contatto diretto con la proprietà perché vorrei continuare a studiarlo e non vedo l’ora di vederlo restaurato.
-Ecco, ma tu hai avuto subito l’impressione che fosse un eccezionale Caravaggio.
R: Io ho avuto rapidamente in mano delle fotografie che su mia precisa indicazione ha fatto Andrea Ciaroni: con una definizione che può raggiungere la grandezza naturale, nei particolari, alcune anche a luce radente e questo mi ha consentito un’analisi precisa del quadro. Certamente l’impatto è stato fulmineo, come se finissi dentro un vortice in pochi secondi e subito ho avuto l’impressione netta dell’autografia di Caravaggio e precisamente il Caravaggio della ‘gara Massimi’.
-Perché subito hai pensato al quadro della gara Massimi?
R: Proprio perché è un Ecce Homo e perché conosco bene quello oggi a Genova e quanto fosse precaria quella attribuzione; quell’Ecce Homo del resto è uno dei dipinti più documentati tra quanti ha realizzato Caravaggio, se pensiamo che ci sono la nota di contratto e il pagamento firmata dallo stesso artista, e inoltre Bellori ci dice che era finito in Spagna. Queste due cose, sommate alla tesi della cosiddetta ‘gara’ con Passignano e con Cigoli, mi hanno indirizzato a quella soluzione.
-Quindi sei del parere che l’Ecce Homo fosse finito in Spagna?
R: Si, ed ho elaborato due possibili spiegazioni: in primo luogo potrebbe essersi trattato di un caso di damnatio memoriae perché l’autore di un dipinto che, nel volere di Massimo Massimi, intendeva rappresentava la condanna più ingiusta dell’umanità, di lì a un anno si sarebbe dimostrato eseguito dalla mano di un omicida; l’altra uscita possibile potrebbe essere collegata alla nomina del cardinale Innocenzo Massimi quale nunzio apostolico a Madrid, avvenuta nel 1623, il quale potrebbe aver portato in Spagna l’opera; per me la prima ipotesi è la più probabile, ma non escludo l’altra.
-Dalla inchiesta che abbiamo fatto su About Art e dagli interventi degli studiosi più accreditati, a quanto sembra l’ipotesi di una datazione pertinente al periodo napoletano di Caravaggio è quella che prevale, mentre tu dateresti il quadro al 1605; come risponderesti?
R: Intanto che il periodo napoletano è immediatamente successivo all’ultimo tempo romano dell’artista e di conseguenza collocando, come faccio io, il quadro a questo momento non mi sembrano molto differenti le due posizioni. Il dipinto dichiara la piena maturità del pittore, per cui ci sta che assomigli al Caravaggio del periodo napoletano, essendo così vicini i due momenti; alla fine insomma non mi pare una questione così determinante. Peraltro i due confronti che trovo più calzanti sono con la Madonna dei Palafrenieri, che per l’appunto è del 1605 – e l’Ecce Homo sarebbe dello stesso anno secondo me- e con il David con la testa di Golia della Borghese che invece è un dipinto più tardo, confronto questo che ho visto essere fato anche da David M. Stone; quello che escluderei senz’altro è la possibilità di una datazione ulteriormente più tarda, per capirci del tempo maltese o siciliano.
-Vorrei ritornare un attimo alla domanda iniziale, cioè perché sei arrivato subito all’idea che si trattava del capolavoro di Caravaggio.
R: Che dire? Non possiamo definire bene quello che accade in certi momenti quando ti arrivano in una frazione di secondo richiami mentali e riflessioni repentine; non vorrei essere frainteso, non sto vantandomi di chissà cosa, ma è precisamente una questione di sinapsi del riconoscimento che sono a volte lente, ma assai più spesso istantanee perché istintive, e mi pare che anche Rossella Vodret si sia riferita al suo istinto nel raccontare le sue prime impressioni alla tua rivista.
-D’accordo però vorrei insistere su questo punto perché se è vero che la Vodret ha richiamato il suo istinto nell’approccio al dipinto, poi però lei come tutti quelli che si sono espressi e che riconoscono assai probabile l’autografia caravaggesca – e si tratta di alcuni tra i massimi esperti del Merisi- tuttavia hanno chiarito che occorre aspettare il restauro del quadro –che effettivamente pare assai opportuno- per un giudizio finale.
R: E’ giusto, ed è assolutamente legittima la prudenza; devo chiarire tuttavia che io, per una decina di giorni, ho sottoposto l’opera, a scandagli e comparazioni, ad un processo cognitivo che ho potuto realizzare anche tramite immagini eccellenti e ad altissima definizione che credo nessun altro ha potuto avere a disposizione, visto che già il 26 marzo mi sono state inviate – e tu puoi confermare perché è il giorno in cui ti telefonai per dirti della scoperta raccomandandoti una assoluta discrezione- e ti dissi che Andrea Ciaroni aveva fatto le foto del dipinto a luce radente, su zone particolari, a distanza ravvicinata, a dimensione naturale, seguendo a puntino ogni mia indicazione. Grazie a questo materiale ho potuto individuare bene, oltre ai pentimenti già visibili ad occhio nudo, ulteriori elementi determinanti a cominciare dalle varie incisioni; insomma per fartela breve ho potuto disporre di un apparato fotografico unico e decisivo. Il che, voglio chiarire anche questo punto, non è che mi ha consentito di elaborare standomene a casa, cosa che invece è dipesa dal covid, però mettendo assieme tutto quello che avevo sono arrivato alla conclusione che il quadro fosse bellissimo e giusto; a questo aggiungi il fatto che in anni e anni ho visto migliaia di dipinti sporchi, ossidati, da restaurare, dal vivo o su foto, e anche questo significa qualcosa.
-Significa anche, in sostanza, che hai un tuo metodo personale di analizzare e valutare, che in una certa misura richiama anche la circostanza che, com’è noto, operi anche come artista figurativo, anche parecchio apprezzato aggiungo io; è così?
R: Io parto sempre dall’idea che ogni dipinto sia di per sé un oggetto significante e che con questo intento sia stato realizzato, per cui l’impasto tra pensiero e materia cromatica che l’artista attua ci dice delle cose, in una certa misura parlano, ovviamente in modo più o meno evidente, a qualcuno più direttamente a qualcun altro meno, resta però che il dipinto è una vera fonte di informazioni, di sensazioni, di richiami. E questa è la magia dell’arte fatta per immagini, cioè che ti arriva tutta insieme, in un istante, non c’è scorrimento temporale come può accadere per una musica, per un libro e così via, e questo fa si che sia possibile, in una frazione di secondo, che il tuo filtro mnemonico la recepisca per intero sollecitando richiami, ricordi e anche immagini che potremmo definire dei deja vù ancorché siano nuove e tuttavia è come se fossero già acquisite e meditate.
-E dunque parliamone dell’iconografia di questo Ecce Homo; tutti gli studiosi hanno sottolineato la genialità dell’invenzione, in particolare si è fatto riferimento all’uso dello spazio che volutamente è costruito per mettere in evidenza un Pilato ambiguo, che non vorrebbe prendere la decisione fatale, quasi lasciandola a noi spettatori …
R: Scusami se ti interrompo perché qui secondo me si può osservare il punto stesso che ci fa parlare di un vero colpo di genio; certamente in effetti, posso essere d’accordo nel riferire a Pilato (ancorché non sia così agevole, pensa allo strano copricapo …) il personaggio in primo piano, però non sta indicando il Cristo, vedi bene che le sue mani sono entrambe una di qua e una di là dal mantello rosso, che è il simbolo del potere e quel colore era appannaggio dell’imperatore; è come se stesse rivolgendosi agli spettatori fuori scena invitandoli a vedere precisamente il mantello col quale veniva ricoperto il “re dei giudei”, ed è una rappresentazione che non ho riscontrato in nessun altro dipinto. Quali sono gli elementi di quel potere che viene deriso? La corona, lo scettro e il mantello, ma mentre la corona è di spine e lo scettro è una canna di fiume, seguendo una logica di derisione diminutiva, il mantello invece è rosso ed è quello di un re, e il soffermarsi di Pilato su questo aspetto a mio parere è il fulcro dell’invenzione. Inoltre, guardiamo al personaggio in primo piano, dipinto in controluce, alle sue spalle entra diagonalmente una luce naturale sul corpo di Cristo che mette in ombra anche il personaggio retrostante; quel ragazzino appare come stupito, facendoci immaginare che sotto la balaustra ci sia una folla e lui la osserva. Insomma che accade? Credo che ogni volta Caravaggio si ponesse di fare una scelta radicale, eliminando ogni retorica e allo stesso tempo cercasse di semplificare la scena riducendo come in questo caso, riducendo al minimo il numero di personaggi.
-Una sorta di rappresentazione teatrale?
R: Meglio ancora, una spoliazione del racconto; la luce che si concentra sul corpo di Cristo e sul suo silente reclinarsi in mezzo a due volti che invece ci guardano, evidenzia questa spoliazione nel modo più chiaro: è difficile riuscire ad esprimere una densità di significato così pregnante in un’iconografia tanto spoglia; sono cose che delineano il genio.
-E che mi dici invece di questa fiammella che appare in alto alla nostra destra, a ridosso della corona di spine che mi pare solo Alessandro Zuccari ha messo in risalto?
R: Ah certo, ho letto; è bellissima, davvero complimenti ad Alessandro, si tratta effettivamente di una lingua di fuoco, straordinaria invenzione che –devo ammetterlo- all’inizio non avevo capito cosa fosse, magari una ridipintura o qualcosa del genere, ed invece è una fiammella di luce di straordinaria importanza ed ammetto che è una cosa che ho mancato di sottolineare.
-Cosa che peraltro confermerebbe, come sempre Zuccari ha sottolineato, che Caravaggio era del tutto interno al contesto anche spirituale del tempo, tanto più considerando che in questo caso l’Ecce Homo in ogni caso fu realizzato per una collezione privata e non come pala d’altare per una chiesa.
R: Certamente, sono d’accordo; si tratta, a veder bene, quasi di un elemento pentecostale: una fiammella che richiama il momento in cui si rovescia la condanna biblica di Babele: l’antidoto alla Babele delle lingue è appunto la fiammella pentecostale che viene concessa agli apostoli i quali, attraverso la discesa dello Spirito Santo, sottoforma di fiammella, giungono alla conoscenza di tutte le lingue: capisci che è un’invenzione straordinaria che apre ad interpretazioni che però lascio agli esperti di iconologia che sicuramente hanno capacità di analisi più solide delle mie, come ha dimostrato Alessandro Zuccari.
-Ti chiederei adesso cosa ne pensi della tecnica compositiva dell’Ecce Homo; ad esempio Rossella Vodret ha messo in risalto gli abbozzi di biacca ed altre particolarità compositive che a suo parere possono riscontrarsi soprattutto in altre due opere certe di Caravaggio, cioè Il San Gerolamo di Monserrat e il san Gerolamo della Borghese.
R: Effettivamente mi ha molto colpito quel punto della spalla con punti di luce molto materici e consistenti che non sono precisamente una regola in Caravaggio; questo potrebbe essere un tema a discapito ma in realtà non lo è, nel senso che siamo di fronte al raggrumarsi in un punto luce che l’artista sa chiaramente di poter gestire; mi spiego meglio: la crescita della materia più chiara che si può notare è segno di come che stia gestendo la realizzazione dell’incarnato, ed è per me ulteriore segno della modernità di quest’opera.
-Torniamo un attimo indietro, perché c’è un punto che mi pare abbastanza importante da chiarire; tu, come si è visto e come hai sostenuto subito, propendi per il fatto che l’Ecce Homo sia quello del cosiddetto concorso Massimo, ma come sai le dimensioni non sono uguali; inoltre, se capita che in fase di restauro emergano novità importanti che possano far pensare ad altro, quanto della tua tesi si potrebbe ridiscutere?
R: Beh certo non sono di quelli che restano monolitici qualora emergessero novità dirimenti; invece la questione che mi sono posto in relazione alle dimensioni che appaiono nei documenti è che tanto il quadro di Caravaggio che quello del Cigoli, al tempo delle note di pagamento e caparra, dovevano essere ancora realizzati per cui genericamente si dice ‘grandi come’ e nella nota di Caravaggio si dice ‘grande come la Incoronazione di spine’ che io dubito sia quella di Prato e non perché dubiti dell’autografia, ma perché non è affatto sicuro che appartenga al periodo romano dell’artista; in ogni caso al di là di ciò quello di Cigoli sembra che sia stato realizzato ‘grande’ come quello di Caravaggio, ma per l’appunto, come dicevo, doveva ancora essere fatto, e poi nulla vieta che l’Ecce Homo del Merisi sia stato tagliato in basso, tanto è vero che la balaustra potrebbe essere stata più ampia e visibile e di conseguenza le misure potevano ben essere differenti; ma il restauro potrà dirimerlo. Vedremo.
-Avrai anche saputo che c’è anche una versione dell’Ecce Homo al castello di Roccaverdina presso Messina come nota Stefania Macioce nel suo intervento (in questo numero pubblichiamo due interventi molto interessanti di Annalisa Stancanelli e di Valentina Certo sulla pista siciliana degli Ecce Homo NdR)
R: Si me ne aveva fatto cenno Carlo Falciani che mi ha detto come fosse stato pubblicato da Longhi e mi pare che sia stato anche riproposto nella mostra sui Caravaggeschi in Sicilia; però tieni conto del pochissimo tempo a disposizione che avevo, del fatto che biblioteche ed archivi erano inaccessibili e quindi non ho potuto fare lavori di verifica generale di tutta la letteratura pertinente.
-Te lo dico perché è una questione che si sta ponendo relativamente alla provenienza della tela madrilena nonché della sua possibile datazione.
R: E’ vero, e comunque ribadisco che a mio parere la datazione 1605 regge anche in considerazione del fatto che la figura del Cristo richiama la Madonna dei Palafrenieri con gli stessi tagli di luce ed anche le altre due figure richiamano modelli già usati a Roma da Caravaggio.
-Una delle conseguenze di questo ritrovamento dell’Ecce Homo significa che il dipinto genovese finisce derubricato ad anonimo …
R: Secondo me, come ho scritto, potrebbe essere un caravaggesco oltremontano operante in Sicilia, ma credo sia da prendere in seria considerazione anche l’ipotesi che sia spagnolo.
-Keith Christiansen suggerisce con cautela il nome di Borgianni e su questo quadro genovese afferma che potrebbe trattarsi perfino di una intelligente e fantasiosa risposta a questo riemerso a Madrid. Può essere?
R: Certamente si, considerata la genialità dell’originale può essere stata questa una risposta; in ogni caso se ora, come mi pare di poter registrare, si è determinata una notevole concordia sull’autografia del dipinto –che sia romano o napoletano- dovremo rileggere tutti gli altri Ecce Homo successivi, alla luce di questa nuova potente immagine iconografica che sicuramente deve aver influenzato altre produzioni; personalmente ho citato le versioni di Fetti e di De Ferrari che, come sarà capitato ad altri artisti, si può ritenere abbiano potuto conoscere il dipinto rimanendone influenzati ed ora sono curioso di indagare nel campo spagnolo per conoscere bene che tipo di immagine iconografica si sia realizzata a partire dal secondo decennio, perché quando si aggiunge un nuovo elemento visivo alle nostre conoscenze inevitabilmente possiamo analizzare certe immagini con un occhio diverso rispetto a come facevamo prima. E questo, credo di poter dire, apre una pagina nuova anche negli studi caravaggeschi.
-Dunque si può pensare che si arriverà anche ad una convergenza sulla questione della datazione dell’opera dove si registrano le maggiori distanze?
R: capisco che tu insista su questo punto ma ti rispondo che questo quadro per me rappresenta un esempio di coerenza; mi spiego meglio: noi siamo abituati ad aspettarci da Caravaggio una sorta di rivoluzione permanente, senza tener conto di quanto sia pertinente con un pensiero già espresso, e nel caso sub judice, al di là della genialità dell’invenzione, la iconografia è assolutamente funzionale alla spiritualità che emana dalla radicalità di altre opere, come ad esempio nella seconda versione della Caduta di San Paolo dove spazza via ogni retorica tardomanierista; è di una potenza sconvolgente quella solitudine di Saul sotto il ventre del cavallo che si apre ad una nuova nascita, e l’artista fa di quella essenzialità il punto focale del racconto. Se pensi a come altri artisti hanno raccontato l’evento come tema da battaglia, quasi per battaglisti di professione, tema manierista per eccellenza, mentre Caravaggio lo sradica letteralmente da quel contesto di rumore visivo e lo fa diventare tutt’altra cosa; così per l’Ecce Homo : ci potrebbe essere una folla di persone davanti, o anche una serie di soldati ai lati o dietro, mentre la vicenda viene concentrata sui protagonisti essenziali; è questo che io intendo per spoliazione formale, e, aggiungo, una spoliazione di tipo oratoriano, come avrebbe detto Maurizio Calvesi.
-A questo punto ti farei notare una osservazione che sia Zuccari che Ebert – Schifferer hanno fatto più o meno con le stesse parole circa il posizionamento delle mani … sei d’accordo?
R: Si molto; sono osservazioni oltremodo corrette e interessanti e lasciami dire che è fantastico che simili osservazioni possano nascere su un medesimo dipinto; ce ne verranno certamente altre, ma per ora mi paiono tra le più acute e condivisibili. Dopo di che ci sarà o già c’è chi la pensa diversamente e magari non ritiene che l’autore del quadro sia il Merisi ed anche di questi pareri credo occorra tener conto in sede di studio, certo è però che dopo oltre quarant’anni mi pare che questo sia il dipinto che ha attirato il maggior consenso tra quanti studiano l’opera del genio lombardo, pur senza aver visto l’opera dal vivo; ecco un dato che mi pare se non dirimente certo molto significativo.
-Che pensi di fare a questo punto? Magari hai in mente una pubblicazione specifica?
R: Come ti ho detto all’inizio, mi auguro di poter vedere il dipinto al più presto; un domani forse finirà in un museo, magari al Prado che mi pare si sia fatto avanti e comunque sai bene che io non ho una visione, come dire, nazionalista quindi non mi dispiace più di tanto se avverrà così, perché il dipinto ha radice storica sia per l’Italia che per la Spagna; certo è che il tentativo fatto dai Ciaroni di riportarlo in Italia è stato molto generoso, del resto posso testimoniare direttamente, sulla base di tanti episodi, che vi fosse anche un ideale etico nel loro agire e ci tengo a sottolineare che la loro speranza era quella di venderlo allo stato italiano e vorrei che tu lo segnalassi.
-Tralasciamo comunque perché davvero insignificante il gioco di chi è arrivato primo a scoprire la mano di Caravaggio.
R: Assolutamente, non interessa a nessuno credo questa patente, del resto io credo alla totale indipendenza di giudizio dei tre studiosi, Cristina Terzaghi, Vittorio Sgarbi e il sottoscritto che hanno attribuito il quadro – anche se in tempi diversi- prima ancora che la notizia fosse di dominio pubblico; per me personalmente è un onore essere arrivato alla stessa idea con altri studiosi e ricevere oggi dei consensi da altri specialisti della materia.
-Ecco, un’ultima domanda: hai avuto modo di confrontarti con loro o con altri caravaggisti?
R: No per ora con nessuno; né con la Terzaghi che non conosco personalmente ma che apprezzo e stimo e neppure con Vittorio che invece conosco bene, anche se in qualche occasione ci ho litigato.
P d L Roma – Rimini (via Skype) 18 aprile 2021