di Beatrice BUSCAROLI
Palazzo Bentivoglio
Felicissimo Giani
a cura di Tommaso Pasquali
fino al 25 febbraio 2024
«Con l’ideale, intendo ciò che si vede solo con l’immaginazione, e non con gli occhi»
Raphael Mengs, con questa affermazione, sembra indicare uno dei cardini del Neoclassicismo: l’artista deve sollevarsi al di sopra dell’accidentale, dell’universo fisico soggetto ai mutamenti. Deve attraverso lo studio della classicità, individuare l’idea di una forma costante, di un modello capace di selezionare e di combinare le “parti più perfette” della natura.
Programma certamente complesso e di non facile risoluzione che tuttavia – al di là degli aspetti propagandistici sempre in agguato in età napoleonica – sembra trovare una via d’uscita nella distinzione tra l’idea di “copia” e quella di “imitazione”. Copiare la natura produce effetti deleteri, come la pittura di genere, mentre l’imitazione esalta le qualità inventive dell’artista: l’imitazione è un superbo esercizio dello spirito. Aderire allo spirito classico, disegnare e modellare con perseveranza e dedizione, come avrebbero fatto Mengs, Joshua Reynolds, Antonio Canova e Bertel Thorvaldsen.
Ebbene, il nostro Felice Giani, lavoratore febbrile, disegnatore vulcanico, rientra in questa profonda e ambigua temperie ideale?
Nato nel 1758 a San Sebastiano Curone (Alessandria), Felice Giani si avvia alla pratica dell’arte a Pavia, con il pittore Carlo Antonio Bianchi e l’architetto Antonio Galli Bibiena, e a Bologna, dal 1778, presso i pittori Domenico Pedrini e Ubaldo Gandolfi e l’architetto Vincenzo Mazza.
Pittura e architettura sono dunque i pilastri della sua formazione. Una relazione strettissima, che Giani mantiene viva con estrema determinazione. E Felicissimo Giani, la mostra bolognese allestita a Palazzo Bentivoglio, è occasione importante per cogliere quel nesso inestricabile. Un nesso che nel corso degli anni permetterà a questo inesauribile sperimentatore di avventurarsi in quel tratto “moderno” dell’utilizzo della pratica pittorica nella decorazione d’interni.
Dal 1780 al 1786 è a Roma, sotto la protezione del principe Andrea Doria Pamphili: frequenta l’Accademia di San Luca, prosegue gli studi presso Pompeo Batoni, Cristoforo Unterperger e l’architetto Giovanni Antonio Antolini. Lo studio dell’arte classica è documentato dai suoi taccuini e dai disegni della Domus Aurea, di Villa Adriana, delle Terme di Tito (solo più tardi, nel 1792, visiterà anche Napoli, Ercolano e Pompei).
Ma a Roma, ha l’occasione di frequentare lo studio cosmopolita di Angelica Kauffmann, e ha modo non solo di stringere relazioni d’amicizia con Mengs e con Canova, ma anche di sondare “dal vivo” la potenza espressiva di Michelangelo, la compostezza delle decorazioni degli interni delle Logge Vaticane, l’inquietudine dei cicli narrativi di Pietro da Cortona, ma, altresì, di apprezzare la grafica lineare di John Flaxman e i cupi simbolismi di Johann Fuessli.
Nel 1786 la sua prima vera commissione lo porta a Faenza, a dipingere la Galleria dei Cento Pacifici e poi la Galleria di palazzo Conti. Conclusi i lavori, è eletto a Bologna “accademico clementino”. Tornato a Roma, le imprese decorative di palazzo Altieri definiranno compiutamente il suo percorso artistico, ma anche una progressiva immersione nello “spirito del tempo”, che assume le proteiformi fattezze dell’impresa napoleonica.
La relazione con Faenza è la prova di questo mutamento di spirito che investe il gusto e la moda tra la fine del Settecento e primi anni del nuovo secolo. Nel 1794 è impegnato nella decorazione della Galleria di palazzo Laderchi, questa volta supportato da una organizzatissima bottega che lo seguirà, d’ora in poi, in ogni sua impresa. Ne faranno parte Gaetano Bertolani, Antonio Trentanove, i fratelli Ballanti Graziani, Pietro e Marcantonio Trefogli.
Qui sta la novità: Giani progetta, anzi, ripensa l’intero ambiente, la sua è una concezione globale che guarda, con la stessa attenzione, allo spazio architettonico come ai singoli elementi: ornato, stucchi, ebanisteria, arredo, disegna tutto nei dettagli per poi lasciare la realizzazione ai suoi collaboratori; mentre lui, su volte e pareti innesta una decorazione neoclassica indubbiamente, ma affatto convenzionale. Come sottolinea Tommaso Pasquali, curatore della mostra bolognese:
«Giani seppe essere neoclassico e anticlassico, neo manierista e preromantico, accademico e antiaccademico, copista dall’antico e nemico delle precisioni filologiche, genio bizzarro e interprete delle élite napoleoniche».
Una decorazione figlia di «abbozzi fulminei» come ha scritto Anna Ottani Cavina, cui si devono forse le pagine più intense a lui dedicate
«quasi “andanti con fuoco”, in un crescendo di soggettività e irriverenza verso la topografia e la rappresentazione prospettica».
Come si può cogliere già nelle opere giovanili esposte: da Apollo affida a Fetonte il carro del Sole del 1787, al Baccanale con Dante e Beatrice del 1791.
Colori vivaci e splendenti, dinamismo estroso, citazione (l’imitazione di cui parla Mengs) e slittamenti della fantasia, diventano la cifra dei grandi cicli decorativi – dove figura e ornato devono accordarsi armonicamente – che impegnano Giani. Magari anche giocando sui contrasti, vivacissimi, che impegnano gli architetti. Basti pensare al caso, tutt’altro che unico, di Palazzo Milzetti a Faenza, la cui progettazione architettonica passa dal neoclassicismo “sperimentale” di Giuseppe Pistocchi a quello più “moderato”, archeologico, di Giovanni Antolini.
La vena narrativa di Giani – interprete intelligente dei gusti e delle aspirazioni di una classe dirigente in ascesa – riesce a convivere con quelle tensioni; i suoi ambienti esibiscono soggetti iconografici misurati alla destinazione d’uso dell’ambiente o su interessi ed inclinazioni del committente. Le decorazioni per la sala da pranzo del palazzo che ospita la mostra – ora, in via d’eccezione, visitabili – ne sono una riprova eccellente.
Protagonista di un tempo inquieto, precario, a dispetto della grandeur napoleonica, Felice Giani sembra essere un “accordatore” delle incertezze che accompagnano quel tempo pieno di speranze e gravido di delusioni. Basti osservare in controluce i suoi paesaggi esposti a Palazzo Bentivoglio: dal Tempio di Venere a Lesbo, a Dante e Virgilio, ma, soprattutto, gli “appunti”, le annotazioni vedutistiche della Villa Aldini a Montmorency, o quella dedicata al Passo del Sempione.
Ecco che il principio neoclassico dell’imitazione consente a Giani, felicemente, di estrarre dal “modello” potenzialità che lo fanno rivivere sull’instabilità del presente.
La stagione creativa di Giani, tra il capolavoro di grazia di Palazzo Milzetti (le cui decorazioni sono ultimate nel 1805) e le iconografie ispirate ai Programmi di Belle Arti di Giuseppe Parini per il bolognese Palazzo Filicori, dove campeggiano le allegorie della caccia, della pesca e della pastorizia, intercalate dalle storie di Ercole e di Ulisse (ultimate nel 1820), prosegue ininterrotta e ricca di successi. A Roma decora l’appartamento neoclassico di Palazzo di Spagna e quello al Quirinale, destinato a Napoleone, con i Trionfi della guerra e della pace. Temi che saranno presenti anche nei progetti bolognesi per l’antica residenza senatoria di Palazzo Aldini a Bologna.
E con Aldini, segretario di Stati del Regno Italico, il rapporto sarà duraturo: Giani accompagnerà – tra il 1811 e il 1813 – il conte nella Francia imperiale, a Montmorency, dove avvolgerà gli interni della residenza con i programmi iconografici legati ancora alla interpretazione del mito classico.
A Bologna lavora poi per la contessa Cornelia Rossi Martinetti, animatrice di un salotto letterario, frequentato, tra gli altri, da Vincenzo Monti, Ugo Foscolo, Giuseppe Mezzofanti, Stendhal, Giacomo Leopardi, lord Byron, re Luigi di Baviera, François-René de Chateaubriand, Antonio Canova, Pietro Giordani. Per la sua abitazione realizza decorazioni ispirate alle Avventure di Saffo poetessa di Mitilene, romanzo di Antonio Verri (1781). Al primo libro dell’Eneide si ispirano invece le immagini per la dimora di Ferdinando Marescalchi.
Ma non tutto è consegnato entro le mura delle dimore cittadine. Anche se perdute, Giani è impegnato a decorare il Teatro di Chimica dell’Università (1816), i palchi del Teatro Comunale (1819), come anche alcuni palchi del Teatro Contavalli nel 1814. Altrettanto perduti risultano i palchi di quel Teatro del Corso che, nel 1805, ospita Napoleone e Giuseppina.
Nel 1811 Giani è designato accademico all’Accademia di San Luca mentre nel 1819 diventa membro della congregazione dei “Virtuosi del Pantheon”. Riconoscimenti forse tardivi, a fronte di un impegno a dir poco “furioso”. A pochi anni dalla caduta sulla via del ritorno da Bologna verso Roma che gli procura una ferita rivelatasi fatale, nel 1823.
Beatrice BUSCAROLI Bologna 4 Febbraio 2024