di Nica FIORI
Celeberrima in età antica per il santuario della Fortuna Primigenia, l’antica Praeneste era seconda solo a Roma tra le città latine.
La cittadina di Palestrina (sulla via Prenestina a 38 km dalla capitale) è sorta sulle sue rovine sviluppandosi in epoca medievale per terrazzamenti, dal basso verso l’alto, fino alla sommità del santuario, sormontato dal secentesco palazzo Barberini.
Il 1° dicembre 2022 è stato riaperto al pubblico il complesso degli edifici del Foro di Praeneste, che per tutto il mese di dicembre sarà visitabile gratuitamente, permettendo così la straordinaria visione di importanti architetture che erano state in parte inglobate nell’ex Seminario Vescovile, nella piazza principale della cittadina (piazza Regina Margherita), accanto alla Cattedrale di Sant’Agapito, nella cui cripta si ammirano i resti del tempio di Giove, risalente alla fine del IV secolo a.C.
All’inaugurazione sono intervenuti tra gli altri il Direttore generale Musei Massimo Osanna, Il Direttore regionale Musei Lazio Stefano Petrocchi, il Soprintendente ABAP per l’area metropolitana di Roma e la provincia di Rieti Lisa Lambusier, che ha illustrato gli importanti lavori di tutela e valorizzazione realizzati negli ultimi 25 anni dalla Soprintendenza.
Lavori che hanno portato all’attuale visibilità di strutture prima obliterate e al ritrovamento di sculture in parte esposte negli ambienti del Foro.
Il complesso monumentale risale all’età tardo repubblicana e più esattamente agli ultimi decenni del II sec. a.C. quando la città venne ristrutturata con un grande intervento urbanistico; ulteriori miglioramenti si ebbero in età imperiale sotto Augusto e con Claudio (alla sua epoca risalirebbero le iscrizioni geroglifiche di alcuni frammenti di un obelisco in granito rosso).
Tra gli edifici che si affacciavano nel Foro troviamo la Basilica, un grandioso ambiente colonnato dove si amministrava la giustizia e si trattavano gli affari. In origine coperta, la Basilica era divisa in quattro navate da colonne con capitelli corinzio-italici.
Sul suo lato occidentale si trova il Ninfeo dei Pesci, decorato da un raffinatissimo mosaico policromo raffigurante un paesaggio marino con pesci, molluschi e crostacei, purtroppo lacunoso nella parte centrale, poiché nel secolo scorso l’ambiente fu utilizzato come piano di cottura per la calce. Sulla destra del mosaico si conserva l’immagine di un piccolo santuario, con un’ara e una colonna, sormontata da un grande vaso e decorata da scudi appesi. Accanto vi sono raffigurati un timone e un tridente.
Questo ninfeo dalla forma di grotta era erroneamente conosciuto un tempo come “antro delle sorti”, un nome che è legato al culto oracolare della dea Fortuna.
L’Aula Absidata, forse il più spettacolare tra gli ambienti del Foro, è una grande sala rettangolare di incerta funzione ed era originariamente pavimentata nell’abside di fondo (scavata nella roccia e alta più di 10 metri) con il famoso mosaico nilotico, oggi visibile nel museo. Proprio questo soggetto, che richiama l’Egitto, ha fatto ipotizzare che questo ambiente fosse un santuario di Iside, ma è stata anche avanzata l’ipotesi che fosse la sede del Senato locale.
Su piazza Regina Margherita si apre anche l’Erario pubblico, cioè la cassa della città, dove si conservavano i proventi delle tasse; ancora oggi si legge nella parete di fondo l’iscrizione che ne ricorda la costruzione.
A fianco è inoltre visibile un tratto della pavimentazione originaria del Foro e parte del già citato tempio di Giove.
Il Foro doveva comprendere anche una fontana semicircolare di epoca augustea, che è nascosta dalla pavimentazione moderna della piazza.
Il Museo e le aree archeologiche di Palestrina, riunite in un unico sito, daranno ora vita a un eccezionale percorso archeologico all’interno della città antica.
Infatti dall’area del Foro si potrà salire alle terrazze del santuario della Fortuna Primigenia, uno dei maggiori esempi dell’architettura ellenistica in Italia, per poi arrivare al Palazzo Barberini, che ospita il Museo Archeologico Nazionale Prenestino, dove sono esposti i reperti provenienti da Praeneste e dal suo territorio.
Il celebre santuario è venuto alla luce soprattutto nel 1944, quando i bombardamenti aerei hanno colpito gran parte dell’abitato che si era sovrapposto al monumentale complesso. Le indispensabili demolizioni posteriori hanno fatto il resto e un accurato restauro ha permesso di ripristinare gli ambienti tornati allo scoperto e in particolare quelle nitide rampe di pietra che, poggiate su blocchi poligonali megalitici, portavano un tempo i pellegrini al “piano degli emicicli”.
Ricordiamo che l’antica Praeneste esisteva già nell’VIII secolo a.C. Il suo nome deriva forse dalla parola greca prinos che significa elce (o leccio), albero molto diffuso nel territorio prenestino. Le origini della città si perdono nella leggenda.
Secondo Tito Livio sarebbe stata fondata da Telegono, figlio di Ulisse e della maga Circe, al quale era stato predetto che avrebbe fondato una città nel luogo dove avesse visto danzare degli uomini ornati da ghirlande di foglie di elce. Secondo altri autori Praeneste sarebbe stata fondata invece da Greci emigrati dal loro paese, che si sarebbero fusi con le popolazioni locali. Altre leggende sono alla base dell’erezione del famoso santuario. Si narra, infatti, che nel luogo dove è il tempio sgorgò del miele da un olivo e gli aruspici fecero costruire con il legno di quell’olivo un’arca, dove vennero racchiuse le sorti che venivano poi estratte dietro ispirazione della Fortuna. Il culto si affermò e il complesso architettonico costruito intorno a quell’arca crebbe così tanto che il filosofo Carneade, vissuto nel II secolo a.C., alla vista delle sue meraviglie pare avesse esclamato: “Non ho mai visto in nessun luogo una Fortuna più fortunata che a Preneste”.
E in effetti il suo culto riuscirà a contrastare per un certo tempo il nascente cristianesimo, altrove trionfante. Si ha infatti notizia che i prenestini dedicarono un monumento a Giuliano l’Apostata, l’imperatore che aveva tentato la restaurazione del paganesimo. Fu solo con Teodosio, dopo l’abolizione definitiva dell’idolatria, che il santuario venne abbandonato.
La città, però, non sempre ebbe giorni fortunati. Silla la distrusse nell’82 a.C. per aver ospitato il suo rivale Mario e al suo posto stabilì una colonia militare. Fece però ricostruire il tempio nelle attuali forme per propiziarsi la dea. Venne poi distrutta in epoca medievale, quando era feudo dei Colonna, sotto Bonifacio VIII e poi nuovamente sotto Eugenio IV. Bisognò arrivare al Seicento perché la città potesse ritrovare una relativa tranquillità sotto i Barberini, il cui palazzo baronale, eretto sopra la parte superiore del santuario, sembra ancora voler custodire i testi ermetici degli antichi oracoli.
Molti autori hanno visto nell’immagine della dea Fortuna (in greco Tyché), quella di Iside con al seno Horus. Nel mondo alessandrino, in effetti, è frequente l’assimilazione delle due dee nell’unica figura di Isityché. È stata avanzata l’ipotesi che il complesso prenestino contenesse pure un iseo (nell’Aula Absidata) e un adiacente serapeo (nel Ninfeo dei Pesci), per il culto delle due divinità egizie più importanti all’epoca. I motivi decorativi sembrano del resto confermare questa possibilità. Pensiamo al celeberrimo mosaico nilotico detto anche “mosaico Barberini”, raffigurante una veduta del delta egiziano durante un’inondazione del Nilo.
Il mosaico è considerato uno dei massimi capolavori di questo genere, nonostante i restauri piuttosto radicali subiti nel XVI secolo all’indomani della scoperta, perché caratterizzato da una grande capacità di inventiva e da un sapiente gioco luministico. La sua datazione, pur controversa, dovrebbe risalire al II secolo a.C.
Il complesso superiore si articola su di un prospetto scenografico a terrazze, in tutto sette. La quarta terrazza ha una scalinata centrale, ai lati della quale sono piccoli ambienti preceduti da due portici dorici, raccordati da emicicli coperti da volta. Di fronte all’emiciclo di destra era un pozzo cintato da colonne corinzie, da identificare forse con il sacro luogo recintato di cui ci parla Cicerone nel De divinatione (44 a.C.), dove venivano estratte le “sortes” (tavolette di quercia con antiche scritte) da un fanciullo, sotto l’assenso della dea, e interpretate da un sacerdote, detto “sortilegus”, che formulava la risposta oracolare dopo aver congiunto le varie lettere che vi erano incise.
Sicuramente Cicerone non credeva affatto alla veridicità di quelle credenze superstiziose e termina perciò il suo passo sostenendo che
“solo la bellezza e l’antichità del tempio mantiene ancora in vita la fama delle sorti prenestine, e soltanto tra il popolino”.
Nica FIORI Roma 4 Dicembre 2022
Complesso degli Edifici del Foro di Praeneste, Piazza Regina Margherita, 1 – Palestrina (Roma)
Orari: per tutto dicembre da lunedì a sabato dalle ore 9 alle 19 (ultimo ingresso alle ore 18:00); domenica dalle 9 alle13, 30 (ultimo ingresso alle ore 12,30)