di Nicosetta ROIO
M.M. (Michelangelo Merisi Mario Minniti Maurizio Marini)
Il tema dei “doppi” e delle copie da Caravaggio è tra i più affrontati dagli studi moderni,
al contrario delle fonti seicentesche che l’hanno quasi del tutto ignorato; eppure quel tipo di produzione sembrerebbe essere stata piuttosto fiorente, a giudicare dal consistente numero di opere gradualmente riemerse dall’oblio. Il più antico tra gli storiografi del Merisi, Giulio Mancini, testimonia come nel 1607 circolassero già copie anonime da suoi dipinti (1). Se è risaputo che la maggior parte delle copie da Caravaggio furono prodotte tra il 1610 e il 1640 circa, dunque più o meno a partire dall’epoca della drammatica scomparsa del maestro fino alle prime avvisaglie dell’arte barocca, non si sa però con certezza quando prese avvio questa pratica (2), che pare a lui non fosse del tutto gradita, per lo meno dopo la sua consacrazione ufficiale sulla scena artistica romana: lo si deduce, per esempio, dalle deposizioni nel famoso processo per diffamazione intentato da Giovanni Baglione nel 1603, quando il Merisi usò il verbo “impiastricciare” riferito a Mao Salini, un termine spregiativo utilizzato a quei tempi proprio per “bollare chi, incapace di vera creatività, fa copie e falsificazioni” (3).
Ancora il Mancini ricorda che nei primi poverissimi tempi romani Michelangelo da Caravaggio fece “copie di devotione” per “Monsignor Insalata” (Pandolfo Pucci) (4) ed è ormai notorio l’impiego del lombardo nella realizzazione di dipinti seriali in diverse botteghe, per quanto modeste, del centro di Roma. Ciò consente di non escludere a priori la possibilità che, almeno nella prima fase romana di estremo bisogno, il Merisi replicasse – per vendere e, dunque, guadagnare qualcosa per sopravvivere – alcune proprie invenzioni di cultura “giorgionesca”: tali erano giudicate nella capitale quelle pitture caratterizzate dal “tonalismo” lombardo-veneto “esportato” da Michelangelo in un’Urbe dominata dalla cultura post-raffaellesca, artificiosa ed elegante, del futuro “Cavalier” d’Arpino. E’ inoltre razionalmente assai probabile che pure qualche suo compagno di lavoro possa essersi cimentato nella replica di insoliti soggetti figurativi come il “Mondafrutto”, il “Ragazzo morso dal ramarro”, quello con caraffa di rose, ecc., ricordando che ognuna delle redazioni note è stata accettata o rifiutata a seconda delle interpretazioni tecniche e critiche di ciascuno studioso intervenuto sull’argomento, al contrario di altre composizioni del Caravaggio replicate con più significative varianti e accettate come autentiche senza riserve: si vedano ad esempio la Buona ventura e la Cena in Emmaus, mentre la questione della “doppia” redazione del Suonatore di liuto è più contestata dal momento che negli ultimi tempi non tutti gli studiosi sembrano più credere all’autografia del Merisi per la versione già Wildenstein.
Certo è che, fino al tragico omicidio di Ranuccio Tommasoni del 1606, non erano ancora moltissime le repliche da Caravaggio in circolazione: ad esse è stato spesso associato il nome di uno dei più stretti amici del maestro lombardo, Prospero Orsi, detto delle Grottesche. Definito romano sia dal Mancini che da Giovanni Baglione (5), quest’ultimo fu più precisamente di famiglia viterbese (di Stabia, oggi Faleria), certamente non di Brescia, come talvolta viene ancora detto, a causa della omonimia del tutto parziale con lo scultore – parimenti attivo nella capitale – Prospero Antichi detto, appunto, il Bresciano (6). Ma non è questo l’unico fraintendimento che aleggia intorno alla personalità dell’Orsi: in attesa dello studio monografico su questo artista annunciato da Riccardo Gandolfi, poche sono attualmente le certezze sulla sua attività prettamente pittorica, per lo più legata alle decorazioni a grottesche (non a caso gli fu affibbiato proprio quel soprannome), una specialità artistica ben poco considerata:
“Prosper Orsi vien detto comunemente Prosperin dalle Grottesche perché in questa maniera di pittura tanto a fresco quanto che a olio ha ecceduto; onde per eminenza si dice delle Grottesche, Prosperin poi perché da giovanetto mostrò in esse grand’eccesso” (7).
Egli aveva partecipato comunque alla realizzazione dei più importanti cicli decorativi dell’epoca di papa Sisto V (1585-1590), e questa produzione tipicamente tardomanierista condusse Prosperino nella stretta cerchia del più rinomato pittore attivo nella capitale alla fine del secolo, Giuseppe Cesari di Arpino, salvo poi rompere con lui una volta compreso il forte potenziale del Caravaggio.
Molto si è detto riguardo all’importanza di Orsi per l’affermazione romana di Michelangelo Merisi: la ben nota testimonianza del Baglione lo ha reso famoso come “turcimanno” del lombardo, ovvero sostenitore e promotore, una sorta di moderno manager, anche se per alcuni studiosi il vocabolo “turcimanno” comprenderebbe anche il significato di interprete e copista autorizzato dell’amico Caravaggio (8), ipotesi allo stato stilisticamente e storiograficamente indimostrata: nessuna fonte accenna a questa possibilità ma Prosperino continua ad essere proposto come autore di alcuni doppi caravaggeschi di alterna qualità stilistica. Si tratta di una questione ben diversa da quella, ormai rafforzata da ampia documentazione, dell’esistenza di copie da Caravaggio quale produzione proliferata a scopo commerciale dopo la morte del Merisi, e che vide come organizzatore e intermediatore commerciale proprio l’Orsi (9). A ben leggere le cronache storiografiche, oltre tutto, emerge chiaramente come la principale occupazione di Prosperino divenne, parallelamente alla realizzazione di generiche decorazioni a grottesche, quella di agente commerciale e promoter, si badi bene, non unicamente del Merisi, ma in generale di quei tanti artisti in cerca di occupazione nell’Urbe post sistina. Essendo Orsi “di costume et inclination a far piacere a tutti”, secondo Mancini lo era “in particular ai giovani che venendo alla corte con qualche talento che non han recapito, et per giovarli et aiutarli perde tempo et aggrava gl’amici come s’è visto in molti” (10): si vede che questo aspetto dell’attività di Prosperino era ben noto nel mondo artistico dei suoi tempi e Mancini registrò il dettaglio parecchio tempo prima di Baglione. Certamente la “scoperta” del talento di Michelangelo Merisi si rivelò uno dei più inimmaginabili successi di Prospero Orsi “con util proprio fra le prime persone della corte” (11), consentendogli di portare avanti il commercio di opere caravaggesche anche per parecchi anni dopo la scomparsa dell’amico lombardo.
A partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso il compianto Maurizio Marini, lo studioso per eccellenza di Caravaggio, si occupò in diverse occasioni dell’argomento doppi e copie di Michelangelo Merisi e le sue riflessioni furono in seguito riprese da quasi tutti coloro che si sono occupati di simili controversie storico-critiche e tecnico-stilistiche, certamente ampliandole, ma senza giungere tuttavia a soluzioni più credibili e definitive rispetto alle proposte di Marini stesso (12). Tutto ciò nonostante il continuo progredire delle conoscenze storiografiche e documentarie e malgrado l’accrescimento delle metodologie e delle indagini scientifiche sui quadri, spesso ormai imprescindibili anche e soprattutto per le opere del Merisi: nondimeno – tanto quanto l’occhio, la sensibilità e le conoscenze di storici e critici -, gli approfondimenti tecnici e materici non sembrano portare capacità totalmente risolutrici essendo anch’essi in buona parte vincolati ad inevitabili e disuguali versioni interpretative. La complessiva sensazione di indimostrabilità e inverificabilità delle molteplici variabili, talvolta incodificabili, insite nella storia dell’arte e nello specifico in tante problematiche caravaggesche, risultavano ben chiare già a Marini, che pure aveva comunque offerto soluzioni più o meno provate e documentabili, sia storicamente che tecnicamente, e non solo relativamente ai doppi (13). Resta il fatto che a distanza di tempo l’inesorabile continuo rinvenimento di nuovi quadri, più o meno strettamente caravaggeschi, finisce per confluire sempre più in una sorta di circuito di mere contrapposizioni culturali, efficacemente definite da Fabio Scaletti come la “ridda delle attribuzioni” (14).
Dagli studi di Marini sui doppi del Caravaggio emergeva la possibilità che un altro stretto “associato” dei primi anni romani del Merisi, il siciliano Mario Minniti, fosse stato anche suo collaboratore oltre che modello, e ciò in un periodo in cui il lombardo non poteva certo permettersi troppe spese e tanto meno quelle per pagare qualcuno che posasse per lui, visto che egli usava dipingere con “l’esempio avanti del naturale”, la più alta forma di pittura a giudizio del marchese Vincenzo Giustiniani (15). Marini pensò dunque che l’autore di alcuni dei doppi di fattura più precoce fosse proprio il Minniti, inoltre questo genere di produzione poteva essere stata concepita dal Caravaggio e dal suo sodale siracusano a scopo pubblicitario ma anche più prosaicamente per diffusione commerciale e, dunque, per profitto.
Nonostante queste credibili supposizioni, come per Prospero Orsi non è mai stato possibile dimostrare che Minniti avesse realizzato copie col permesso o meno del Caravaggio. Eppure, già nel 2007, lo stesso Marini ebbe l’occasione di rendere noto un dipinto che porta sul retro la sigla “M·M·F” (fig.1), riconducendolo dunque razionalmente proprio alla mano di Minniti: la tela non ha trovato successivi riscontri nella letteratura caravaggesca successiva (16), si può immaginare a causa della qualità, davvero modesta, del quadro, ben restaurato a suo tempo da Sara Penco (17):
in effetti, se le capacità di Minniti si misurano con quelle espresse nella Santa Caterina d’Alessandria in questione (fig.2), maldestramente copiata (con la singolare aggiunta di scettro e corona) dalla bella tela del Merisi ora alla Thyssen di Madrid (fig.3),
a qualsiasi studioso sarebbero venuti ragionevoli dubbi sulla sostenibilità di un’eventuale autografia del pittore siciliano anche per alcuni doppi caravaggeschi che secondo una parte della storiografia moderna potrebbero appartenere addirittura allo stesso maestro lombardo.
Certo è che lo stile della schematica Santa Caterina quasi certamente siglata proprio dal Minniti bene si accorda con l’altrettanto compendiario Suonatore di liuto Lodi (fig.4) –
libera interpretazione dell’opera di Caravaggio ora a San Pietroburgo (fig.5) -,
che ho avuto modo di restituire allo stesso Minniti per evidenti paragoni stilistici e confortanti analogie con le sue opere siciliane successive (fig.6)
e, pertanto, entrambi i dipinti vengono a costituire il primario punto di partenza per la ricostruzione dell’attività romana del giovane pittore siciliano, mettendo in evidenza le sue connaturate e semplificate capacità espressive, solo parzialmente potenziate e affinate in seguito, nella consistente attività matura trascorsa prevalentemente in Sicilia. Come è risaputo, egli era stato sedotto più dal disegno, studiato verosimilmente col fiorentino Filippo Paladini durante il precoce soggiorno a Malta, che dalla pittura, comunque da lui praticata nelle botteghe degli stessi copisti romani frequentati dall’amico Caravaggio (18). Che Minniti avesse poi coabitato col Merisi nella dimora romana del cardinal Francesco Maria Del Monte è da sempre un’ipotesi degli studi che potrebbe trovare qualche aggancio più concreto proprio grazie alla restituzione al suo catalogo del Suonatore Lodi (fig.7) e della Santa Caterina siglata “M·M·F” (fig.8), iscrizione che potrebbe avere la doppia valenza di indicare tanto l’invenzine di
Michelangelo Merisi, quanto la realizzazione di Mario Minniti: entrambi ripetono, guarda caso, le corrispondenti invenzioni del Caravaggio eseguite all’epoca del soggiorno in Palazzo Madama e, come è noto, se rimane ambigua la questione delle proprietà Del Monte e Giustiniani per le versioni caravaggesche del Suonatore di liuto, è più univoca l’originaria proprietà Del Monte per la Santa Caterina ora Thyssen (19). Quest’opera del Merisi sembra essere stata poco copiata (20), analogamente alla Buona ventura Capitolina, parimenti appartenuta allo stesso Del Monte. L’autore di una rara copia coeva dalla zingara dalmontiana, fedele ma di dimensioni inferiori (cm 98 x 131 contro i 116 x 152 dell’originale), sembra aver apportato alle figure del Caravaggio la propria caratteristica rigidezza esecutiva e somatica, non lontana da quella che il giovane Mario Minniti infuse nelle sue interpretazioni caravaggesche della Santa Caterina e del Suonatore di liuto (21).
Dal 1600 in poi, a detta dello stesso Michelangelo da Caravaggio, i rapporti con Mario Minniti si erano interrotti: non si hanno notizie certe del siciliano fino al 1605, quando ricompare in Sicilia, dove circa tre anni dopo avrebbe ritrovato anche il Merisi fuggitivo da Malta, appoggiandolo – secondo il Susinno – presso il Senato di Siracusa con preghiera di farlo lavorare. Non è tuttavia sicuro che la mesta e sotterranea Sepoltura di Santa Lucia sia stata assegnata al Caravaggio grazie alle raccomandazioni di Mario (a cui Marini ha attribuito una copia della stessa grande tela siracusana, fig.9) (22).
Indubbiamente egli visse più a lungo dello sfortunato amico lombardo realizzando molti dipinti religiosi, alcuni di fattura certamente dignitosa, ammorbidendo progressivamente le rigidità dei tempi in cui dipingeva la Santa Caterina siglata M.M., senza tuttavia comprendere mai appieno gli “insegnamenti” del geniale amico Michelangelo.
Nicosetta ROIO Bologna Gennaio 2019
Note
-
Si vedano le lettere del Mancini al fratello Deifebo pubblicate da M. Maccherini, Caravaggio nel carteggio familiare di Giulio Mancini, in “Prospettiva”, 86, 1997, pp. 71-92.
-
Delle copie da Caravaggio si era occupato a suo tempo in uno studio specifico A. Moir (Caravaggio and His Copysts, New York 1976); tra gli studi più recenti sullo stesso tema si ricorda quello di B. Savina, Caravaggio tra originali e copie. Collezionismo e mercato dell’arte a Roma nel primo Seicento, Foligno 2013, mentre nella monografia in due volumi di F. Scaletti (Caravaggio. Catalogo ragionato delle opere autografe, attribuite e controverse, Napoli 2017) compare il “regesto completo delle repliche e delle copie”.
-
C. Strinati, “Chi farsi un buon pittor brama e desia”. Allievi dei Carracci e seguaci del Caravaggio, in Originali repliche copie. Uno sguardo diverso sui grandi maestri, a cura di P. Di Loreto, Roma 2018, p. 89.
-
G. Mancini, Considerazioni sulla pittura, Ms 1617-1621, ed. a cura di A. Marucchi-L. Salerno, Roma 1956-1957, I, p. 224.
-
Mancini, Considerazioni cit., I, pp. 251-252, II, p. 152, note 1100-1102; G. Baglione, Le vite de’ pittori scultori et architetti. Dal Pontificato di Gregorio XIII fino a tutto quello d’Urbano VIII, Roma 1642 (edizione anastatica con le postille di G.P.Bellori), p. 299.
-
In tempi recenti l’erronea sovrapposizione tra Prospero Antichi bresciano e Prospero Orsi delle Grottesche presente nell’edizione critica al Bellori del 1976 (G. P. Bellori, Le vite de’ pittori scultori e architetti moderni, Roma 1672, ed. a cura di E. Borea, Torino 1976, p. 214, nota 1), è stata riproposta da M. C. Terzaghi (Caravaggio, Annibale Carracci, Guido Reni tra le ricevute del banco Herrera & Costa, Milano 2007, p.276) quanto da R. Morselli (Le finanze, in R. Vodret, Caravaggio. L’uomo l’artista, Milano 2018, p. 152).
-
Mancini, Considerazioni cit., I, p. 251.
-
C. Whitfield, Prospero Orsi, intèrprete du Caravage, in “Revue de l’art”, 155, 2007, pp. 9-19).
-
Savina, Caravaggio tra originali cit., pp.30 sgg. e, nello specifico sull’Orsi, pp. 43-47; Strinati, “Chi farsi un buon pittor cit., p. 83.
-
Mancini, Considerazioni cit., I, p. 252.
-
Bellori, Le vite de’ pittori cit., p. 216.
-
M. Marini, Equivoci del caravaggismo 2: A) Appunti sulla tecnica del ‘naturalismo’secentesco, tra Caravaggio e “Manfrediana methodus” B) Caravaggio e i suoi ‘doppi’. Il problema delle possibili collaborazioni, in “Artibus et historiae”, 8, IV, 1983, pp. 119-154.
-
M. Marini, Michelangelo da Caravaggio, Gaspare Murtola e ‘la chioma avvelenata di Medusa’, New York 1997, riedizione Venezia 2003; M. Marini, Caravaggios “doppelgänger”. Unbekannte Originale, Zweitversionen und Mehrfachnennungen im Werk Michelangelo Merisis, in Caravaggio. Originale und Kopien im Spiegel der Forschung, catalogo della mostra, Düsseldorf, Museum Kunst Palast (9 maggio 2006-1° luglio 2007), a cura di J. Harten-J.-H. Martin, Düsseldorf 2006, pp. 44-61.
-
F. Scaletti, La ridda delle attribuzioni, in Caravaggio vero, a cura di C.Strinati, direzione scientifica di M. Cuppone, Reggio Emilia 2014, pp. 339-388.
-
Su questi argomenti si veda K. Christiansen, Caravaggio and “L’esempio davanti del naturale”, in “The Art Bulletin”, LXVIII, 3 1986, pp. 421-445.
-
Dopo Marini (Caravaggio “Pictor praestantissimus”, Roma 2005, p. 419; Caravaggios “doppelgänger” cit., p. 49, nota 24, p.54), che sottolineava a buon diritto l’importanza dell’opera proprio “in quanto siglata nel tergo da Mario Minniti”, essa è stata presa in considerazione genericamente come copia da Caravaggio solo di recente da F. Scaletti (Caravaggio. Catalogo ragionato delle opere autografe, attribuite e controverse, I, p. 84, fig. b).
-
Per l’amichevole collaborazione e per le immagini della tela ringrazio l’amica Sara Penco (che contestualmente al restauro aveva avuto modo di segnalarla a Marini, Caravaggio “Pictor cit., p. 419). Il 17 maggio 2017 l’opera (cm 131 x 98) è stata venduta a Genova presso Cambi, asta 298, n. 371, come ambito di Minniti.
-
E. Negro-N. Roio, Caravaggio e il ritratto. Dal realismo lombardo al naturale romano, Roma 2017, pp. 58-76; N. Roio, L’esordio romano di Caravaggio: nuove tracce dalla biografia di Mario Minniti (e una attribuzione), in About art online, 18 luglio 2017 (https://www.aboutartonline.com/lesordio-romano-caravaggio-nuove-tracce-dalla-biografia-mario-minniti-attribuzione/); N. Roio, Qualche considerazione sull’arrivo a Roma di Caravaggio e Minniti, in Caravaggio e i suoi, Atti della giornata di studi (Monte Santa Maria Tiberina, Palazzo Museo Bourbon del Monte, 8-9 ottobre 2016), a cura di P. Carofano, Pontedera 2018, pp. 121-140; N. Roio, Caravaggio, Il problema del “Maestro della natura morta di Hartford” e il possibile ruolo dei siciliani Mario Minniti e Pietro d’Asaro, in L’Arte di vivere l’Arte. Scritti in onore di Claudio Strinati, a cura di P. Di Loreto, Roma 2018, pp. 387-388, fig. 1.
-
Il cardinal Del Monte nutriva una profonda devozione per la martire alessandrina e lo si deduce anche dal suo testamento: A. Zuccari, Caravaggio controluce. Ideali e capolavori, Milano 2011, pp. 145-149.
-
Una copia della Santa Caterina Thyssen è a Madrid, Chiesa di San Jéronimo el Real, già a suo tempo pubblicata da Marini, che era a conoscenza di un’altra copia in cattivo stato di conservazione (Castel San Pietro di Palestrina, Chiesa di San Pietro): si veda ora Scaletti, Caravaggio. Catalogo cit., I, p. 84.
-
Ho in programma un approfondimento di questa importante copia dalla Zingara Capitolina per i suoi possibili legami tanto con Mario Minniti che Caravaggio, in attesa dell’acquisizione dei dati tecnici definitivi della tela restaurata. Va rilevato che, ad oggi, sono segnalate solo copie ottocentesche della Buona ventura dalmontiana del Merisi: una su tela di identiche dimensioni rispetto all’originale (cm 115 x 150), l’altra su rame di cm 35 x 45 (Scaletti, Caravaggio. Catalogo cit., I, p. 52).
-
Rame, 40,6 x 34: M. Marini, Caravaggio “Pictor praestantissimus”, Roma 2001, p.320; Scaletti, Caravaggio. Catalogo cit., I, p.218.