di Claudio LISTANTI
Un vivo successo ha riscosso il concerto ‘Rossini sacro e profano’ inserito nella Stagione Sinfonica 2021-2022 dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia nel quale, ancora una volta, la bacchetta di Antonio Pappano è stata elemento propulsivo grazie anche all’integrazione di una compagnia di canto di alto livello composta da interpreti tra i più in vista di oggi.
Fulcro della serata era la proposta della Messa di Gloria di Gioachino Rossini le cui esecuzione è stata la base per una futura pubblicazione in Cd a cura Warner Classics, la casa discografica che ha nel suo catalogo diverse esecuzioni del binomio Pappano-Santa Cecilia che riscuote, nel mondo, incontrastati successi e del quale, questa uova iniziativa editoriale, ne arricchirà la valenza culturale ed artistica.
La Messa di Gloria è un delle composizioni rossiniane più dibattute circa la sua composizione e la sua prima esecuzione, balzata all’attenzione di pubblico e critica solo in tempi relativamente recenti divenendo uno dei punti di forza delle celebrazioni, nel 1992, del secondo centenario della nascita di Gioachino Rossini. L’insigne studioso e musicologo statunitense, Philip Gossett, fu uno dei protagonisti di questa operazione che ebbe la finalità di riproporre all’attenzione del mondo musicale una composizione praticamente dimenticata di uno dei più grandi musicisti della storia. Gossett operò un lavoro di ricerca accurato negli archivi musicali di Napoli, la città per la quale Rossini scrisse la messa, un lavoro non privo di complicazioni dovute soprattutto allo scarso numero di documenti esistenti anche se relativi a quell’attività copiosa e febbrile che contraddistingue l’ambiente musicale napoletano nel periodo corrispondente alla sua composizione.
Infatti, siamo nel 1820 e Rossini a Napoli era stella di prima grandezza. Vi giunse ventitreenne nel 1815 già forte di numerosi successi ottenuti con le cosiddette farse veneziane ma, anche, con capolavori dell’opera seria come Tancredi e Sigismondo sempre per Venezia e opere buffe come L’Italiana in Algeri e Il Turco In Italia. A Napoli, che nell’Italia ancora pienamente pre-unitaria era la piazza più importante d’Europa per lo sviluppo della musica e del teatro in musica, trovò terreno fertile per molte sue opere che possiamo definire di ‘innovazione’ come Ermione, Mosè in Egitto e La donna del lago, opere che sono contigue ad altri grandi capolavori come Barbiere e Cenerentola per Roma, La gazza ladra per Milano e altre opere molto importanti come Otello, ossia Il Moro di Venezia e Armida sempre per Napoli.
Su questo sfondo si inserisce, appunto, la Messa di Gloria, commissionata dall’Arciconfraternita di San Luigi per celebrare la Festa de’ dolori di Nostra Signora da eseguirsi nella Chiesa di San Ferdinando. Il culto di Maria dei Sette Dolori era di primaria importanza per tutti i devoti napoletani e, all’epoca, si celebrava in ‘pompa magna’ il venerdì precedente la Settimana Santa, che nel 1820 cadeva il 24 marzo e, quindi, da considerare data della prima assoluta.
Di questa prima però si hanno scarse tracce documentali che possano farci comprendere con una certa sicurezza come fosse composta nell’insieme. C’è qualche testimonianza della stampa dell’epoca più precisamente nel Giornale del Regno delle Due Sicilie che il giorno precedente, il 23 marzo, pubblica (usando un termine moderno) una sorta di lancio della serata e, nella settimana successiva alla prima, un commento più cospicuo che mette in evidenza la bellezza sonora della nuova composizione soprattutto della Gloria che la descrive come ‘inno immortale’ cantato da un ‘Coro di angeli’. Lo stesso scritto ci dice anche che nella musica era inserito lo Stabat Mater di Pergolesi arricchito nella sezione dei fiati da un altro grande, Paisiello. Un altro resoconto importante fu quello del musicista Karl Borromäus von Miltiz che ci informa circa l’ordine dei pezzi compresi nell’esecuzione che iniziava con una Sinfonia di Mayr e poi con quella de La gazza ladra che introducevano la Messa vera e propria con il Kyrie, il Gloria, poi il Credo e l’Offertorio con Santctus e Agnus Dei finale. Nel complesso il Miltiz, a parte la luminosità del già citato Coro del Gloria non giudica molto positivamente tutta la composizione, considerata a volte come una sorta di ‘centone’ (così nell’800 si giudicavano quelle composizioni create come un ‘collage’ tra diverse musiche di un autore o tra musiche di autori diversi)
Tale giudizio, forse derivante anche dalla sua nota avversione per la musica italiana, pensiero spesso dominante nella cultura tedesca, mette però in evidenza anche una possibile collaborazione di un musicista famoso all’epoca, Pietro Raimondi, romano di nascita ma di formazione musicale ‘napoletana’, considerato all’epoca uno dei maggiori contrappuntisti. Questa ipotesi ha dato il via, sul finire dello scorso secolo, ad un ampio dibattito tra critici e addetti ai lavori per stabilire se, e come, il Raimondi, possa aver influito sulla composizione.
Su questo tema sono intervenuti principalmente Philip Gossett e Jesse Rosenberg entrambi musicologi specialisti dell’opera italiana del XIX e XX secolo. Per Gossett, lo studioso che più di altri ha ricostruito questa splendida pagina sacra rossiniana producendo anche una apprezzata edizione critica sulla quale si basano le attuali esecuzioni della Messa di Gloria, era comunque da escludere ogni eventuale coinvolgimento del Raimondi alla composizione, soprattutto perché il suo nome non è mai citato nelle fonti musicali del periodo e dubitando anche dei giudizi di Miltiz per le sue note posizioni anti-italiane a anti-cattoliche. Per contro Rosemberg sostiene che le collaborazioni tra musicisti all’epoca di Rossini erano piuttosto diffuse soprattutto a causa dei tempi stretti concessi per la consegna delle partiture, proprio come accadde per la Messa di Gloria, che favoriva questa prassi, anche se non evidenziate sulle pubblicazioni musicali finali. Inoltre Rossini teneva in buona considerazione l’abilità compositiva del Raimondi cosa che poteva aver favorito un certo coinvolgimento del musicista romano.
Rosemberg, inoltre, provvide ad operare un raffronto tra la Messa di Gloria di Rossini e parti di altre messe composte dal Raimondi, avanzando una certa possibilità che il ‘Cum Sancto Spiritu’, la fuga che conclude la parte del Gloria finale, con l’analoga parte della Gran Messa di Gloria a due orchestre composta dal Raimondi, con ogni probabilità nel 1824. Tale raffronto, secondo il Rosemberg, è da considerarsi la prova che il Raimondi partecipò alla stesura del capolavoro rossiniano.
A parte questa disquisizione, certo molto interessante dal punto di vista storico-musicologico, è il pensiero del Gossett quello più accreditato nel giudizio degli studiosi e la sua ricostruzione della partitura è apprezzata dalla critica che oramai colloca la Messa di Gloria alla stregua degli altri capolavori sacri di Rossini, quelli prodotti dopo il suo ritiro dal teatro per musica: lo Stabat Mater e la Petite Messe Solennelle.
Usare il termine Messa di Gloria può sembrare riduttivo ma l’appellativo è giusto perché la ricostruzione è basata sulle parti ritrovate, che ne sono solo una porzione, seppur importante, dei contenuti di una messa.
Nello specifico la Messa di Gloria è articolata in due parti: il Kyrie suddiviso ulteriormente in tre parti e il Gloria in ulteriori sette parti. Il Kyrie ha una funzione introduttiva affidata principalmente al coro (Kyrie eleison iniziale e finale) con un episodio centrale affidato ai due tenori. Nel Gloria si alternano brani corali a brani prettamente solistici affidati agli interpreti vocali: Gloria iniziale per soprano, contralto, tenore, basso e coro, Laudamus te per soprano, Gratias agimus Tibi per tenore, Domine Jesu per soprano, contralto e basso, Qui tollis per tenore e coro, Quoniam, Tu Solus Sanctus per basso e il Com Sancto Spiritu finale.
All’ascolto la Messa di Gloria comunica una certa sensazione di incompletezza in quanto manca la finalizzazione logica relativa a quel percorso mistico e religioso che tutte le messe in musica, e di ogni epoca, indubbiamente contengono. C’è anche, per noi ascoltatori, la netta impressione di trovarci di fronte ad un ‘estratto’ proveniente da una entità più complessa. A parte questo aspetto, però, quello che ascoltiamo è di gran classe soprattutto per la grandiosità dell’insieme e per l’impronta ‘rappresentativa’ di tutta la partitura, chiara produzione di un musicista ‘operista’ di grande livello come dimostra anche il trattamento della vocalità, sia del coro che dei solisti. Il tutto è frutto piuttosto chiaro dello straordinario stile compositivo che in quegli anni Rossini metteva in campo la cui impronta si inserisce, giganteggiando, in tutta la parte vocale.
Per l’esecuzione è stata scelta una compagnia di canto molto affiatata e di non comune valore individuale. Per questo aspetto c’è da porre in evidenza che, conseguentemente alle già citate scarse fonti documentali, non si conoscono i nomi degli interpreti che parteciparono alla prima. Si può certamente affermare che nella ‘piazza’ napoletana dell’epoca, fulcro della produzione operistica europea, senza dubbio c’era la possibilità di scegliere gli interpreti tra i migliori del tempo. Per di più, visto il divieto per le donne di partecipare, soprattutto in chiesa, ad esecuzioni pubbliche alcuni ruoli furono affidati ad evirati cantori. Nelle fonti letterarie qualche accenno a quella straordinaria esecuzione del 24 marzo 1820 è riscontrabile.
Oltre a Stendhal che nella sua Vie de Rossini fa riferimento ad una sublime Messa di Rossini contenente altrettante sublimi arie non ricordando, però, con certezza la data. Ma c’è soprattutto la testimonianza di un altro viaggiatore, lo scozzese John Waldie; anche lui fa riferimento ad una bellissima messa nella quale ha apprezzato la prova del castrato Moisè Tarquini e del tenore Giovanni Battista Rubini entrambi stelle indiscusse dell’epoca accanto ai quali cita un altro tenore Giuseppe Ciccimarra.
Questi dubbi sulla compagnia originale tolgono agli interpreti di oggi un punto di riferimento, seppur lontano, che possa guidare la loro interpretazione. I cantanti scelti per l’esecuzione ceciliana hanno fornito una prova del tutto convincente atta a onorare, ad oggi, i fasti di quella compagnia (anche se presunta), di quei lontani anni 20 dell’800, periodo d’oro per la Storia del Canto. Molto apprezzata la prova del contralto Teresa Iervolino, che ha esibito una voce molto robusta nel registro grave con una emissione dei suoni molto affascinante che riesce a raggiungere facilmente anche il registro acuto. Al suo fianco l’altra voce femminile, quella del soprano Eleonora Buratto che possiede un timbro vocale dai riflessi scuri, che la rende voce di un certo fascino che ha impreziosito il suo Laudamus Te. Entrambe hanno formato, poi, un ‘duo’ femminile di pregio che, assieme al basso Carlo Lepore, è uscito con forza nel terzetto ‘Domine Deus’ caratterizzato da una coinvolgente fioritura che le due cantanti hanno saputo rendere con efficacia.
Di rilievo anche i due tenori, entrambi statunitensi, Michael Spyres e Lorenz Brownlee ed entrambi tra i più quotati di oggi. Lo Spyres ha colpito per la sua facilità nell’emissione dei suoni e per le sue doti di interprete ‘virtuoso’ che gli consentono di giungere con una certa confidenza alle alte vette della parte vocale che, secondo le ipotesi avanzate circa i cantanti della prima assoluta, dovrebbe essere quella destinata al grande Giovanni Battista Rubini. Tale caratteristiche hanno permesso l’ascolto di un pirotecnico Qui Tollis il cui scintillio è stato amplificato anche dagli interventi del Coro. Per il Brownlee una parte certamente meno appariscente dal punto di vista degli ‘estremi’ virtuosismi ma la sua ‘calda’ e più ‘rotonda’ voce ha consentito un godibile e delicato Grazias agimus Tibi. Anche queste, come quelle delle due cantanti, si sono rivelate voci in contrapposizione che però hanno impreziosito il Christe eleison secondo brano del Kyrie iniziale. La calda voce del basso Carlo Lepore è emersa con un certo impeto, anche nel Quoniam, Tu Solus Sancto che precede il luminoso finale.
Il Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, diretto da Piero Monti, ha completato la validità dell’esecuzione svolgendo a pieno il suo ruolo di primaria importanza che si concretizza con il Kyrie eleison primo e terzo brano del Kyrie iniziale e con lo scintillante inizio del Gloria assieme al quartetto vocale, proseguendo con gli incisivi interventi nel Domine Deus e nel Qui Tollis e, a coronamento della serata, con la grandiosità del Cum Sancto Spiritu finale, brano prima citato nel quale alcuni ritengono ci sia stata la probabile la partecipazione del musicista Pietro Raimondi ma che, comunque la si pensi, è di grande spettacolarità
Tutto quanto narrato è relativo alla seconda parte del concerto, senza dubbio, baricentro della serata. Antonio Pappano ha arricchito il concerto puntando sul contrasto tra sacro e profano nella produzione rossiniana. In apertura del concerto la Sinfonia dell’opera Armida seguita da due brani tratti dal grande repertorio rossiniano; una scelta che consentito un risalto maggiore delle doti vocali dei cinque cantanti che hanno interpretato, poi, la Messa di Gloria, confermando tutta le loro caratteristiche che abbiamo sinteticamente illustrato. Da Semiramide è stata inserita la scena tratta dal Primo atto, quella tra Arsace e Assur “Quali accenti – Bella imago degli dèi” con Teresa Iervolino e Carlo Lepore e da Otello ossia il Moro di Venezia, quella del secondo atto con il duetto tra Otello e Rodrigo che poi diviene terzetto con l’intervento di Desdemona, “E a tanto giunger puote … Ah vieni, nel tuo sangue” con i tenori Michael Spyres e Lorenz Brownlee assieme ad Eleonora Buratto.
Concludiamo ricordando l’esecuzione di Antonio Pappano che ancora una volta ci ha stupito per l’incisività della sua interpretazione nel repertorio sacro del quale ne esalta la, spesso consueta, monumentalità musicale confermando anche di avere una certa propensione per le musiche di Rossini. Un risultato ottenuto, non solo grazie agli interpreti vocali innanzi citati ma anche grazie all’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia che ha impreziosito tutta la parte strumentale, non solo delle arie della prima parte ma, soprattutto, della cospicua parte orchestrale della Messa di Gloria.
Al termine del concerto (ci riferiamo alla recita del 29 gennaio) il pubblico ha mostrato estremo favore per quanto ascoltato applaudendo a lungo tutti gli interpreti testimonianza di un incondizionato gradimento per questa piena immersione nell’arte rossiniana materializzatosi anche con una notevole risposta ‘numerica’ dei presenti che, da molti mesi, non vedevamo così intensamente entusiasti.
Claudio LISTANTI Roma 6 Febbraio 2022