di Massimo PULINI
Addizione e sottrazione a Tiziano
La Maddalena eremita alle pendici del Cadore e il Ritratto dell’Aretino restituito al Moretto
Ai piedi di un costone roccioso e a lato di un paesaggio increspato, tra macchie di arbusti e valli aperte, con catene di monti innevate all’orizzonte, si svolge la scena miracolosa e mistica dell’Assunzione in cielo di Santa Maria Maddalena (Foto 1).
Cinque angioletti, dai voli impervi e dall’evidente sforzo, si incaricano di sollevare il corpo e la veste della giovane eremita, come se l’avessero rapita mentre si trovava in atto di pregare, ancora inginocchiata, con le braccia aperte, i palmi delle mani e gli occhi rivolti verso l’alto, all’indirizzo di Dio.
Il busto della bellissima santa è discinto e, calato sull’addome e sulle cosce, gira il mantello arricciato e floscio, di un rosato stinto, esito trasparente e intenerito della sottile lacca di Garanza applicata con sensibilità e mestiere sopra una base biancastra.
Un morbido chiaroscuro accarezza l’incarnato, sfiorando leggero il turgore dei seni e macerandosi in ombre più peste intorno alle braccia della figura. Proprio sull’estenuato languore del corpo e sulla dolcezza del volto si addensano le crettature che il tempo ha prodotto nella materia pittorica.
Il supporto di rame (cm. 36,5 x 44,8), che ha saputo mantenere, integro e accessibile, tutto il processo creativo dell’opera, ha, specialmente in quei punti, condensato una fragilità vitrea, la trama retata del proprio smalto.
Se il braccio destro di Maddalena sembra ancora coperto dal cono d’ombra proiettato dal costone di roccia, viso e corpo risultano investiti da una specie di slavina di luce giallastra, che scende diagonale dal profilo del monte, forando lo spessore delle nubi.
Quel chiarore dorato è altra cosa dal sole, che si mostra invece al centro del cielo, di un giallo più tenue e ovattato.
Basterebbero queste parziali soluzioni compositive per parlarci di un alto livello inventivo dell’autore, intento qui a creare i caratteri di un’inedita e personale iconografia, che fa spartire la ribalta dell’episodio in parti eque tra le espressioni del paesaggio e quelle delle figure.
Sicché, in questa calibrata bilancia tra natura e umanità, sembra fungere da contrappeso sintattico alla Maddalena, la presenza del grande albero in primo piano, sul fianco destro del dipinto.
Il corpo della santa e il tronco sinuoso della pianta tracciano allora due ideali parentesi alla prospettiva di visione che si apre nel centro. Culmine di quella perditiva veduta è il monte innevato che, non a caso, ha la punta tronca e stesa, classica di una cima del Cadore (Foto 2 e 3).
Non fosse sufficiente lo stile potente e languido delle figure, le macerate masse muscolari dei putti e l’estenuata bellezza della santa, a richiamarmi il sommo nome di Tiziano, lo farebbe l’umido sottobosco del paesaggio, i cui verdi di superficie virano da strati di grigio e di bruno, fino alle intonazioni rugginose delle chiome.
Stratificato è anche il cielo nuvoloso che trasuda di pentimenti in filigrana. Si scorgono forme di angioletti fatti di puro spirito, nell’ultimo azzurro che si vede sotto l’aura del sole. Così come sembra una prima idea di monte, ben più rialzato di quelli compiuti, la macchia grigia che si erge appena oltre la mano sinistra della Maddalena. Anch’essa, nel corso della sua ideazione, ha offerto all’autore ripensamenti e cambi di scelte. Il recente restauro ha infatti rilevato differenti pose degli arti, che in un primo momento risultavano più raccolte ed alzate, rispetto al bellissimo e ampio abbraccio della versione finale.
Pure gli angioletti visibili sono il frutto sedimentato di pensieri e di idee nascoste sotto la superficie, a dimostrazione di un processo generoso e fertile, investito dal pittore nel presente rame. In particolare, quello dal volo orizzontale, in basso a destra, in un primo momento doveva essere stato dipinto accovacciato a terra.
Il tema della Maddalena fu particolarmente caro al Vecellio, che lo declinò in numerose invenzioni ed è proprio intorno a questa figura mistica e terrena insieme, che mette a punto quello sguardo roteato verso il cielo, che ebbe vastissima fortuna, anche nei secoli a venire.
Questa elevazione della santa è da considerarsi un’opera matura del Cadorino, anche se non estrema. È vicina, nelle fisionomie e nella figura principale, alla Maddalena con San Biagio, Tobiolo, l’Arcangelo e un donatore del Convento dei Domenicani di Dubrovnik (Foto 4), mentre il paesaggio è confrontabile con molti scorci presenti nelle invenzioni databili intorno agli anni Cinquanta.
Anche le tipologie fisiche degli angioletti, con la tipica fronte alta e stempiata, trovano riscontro nei cori celesti, a partire da quello dell’Assunta dei Frari (Foto 5), fino ai voli disarticolati degli amorini nel Ratto d’Europa (Madrid, Prado) (Foto 6).
La figura della Maddalena ha evidenti parentele anche con dipinti tardi, come l’Allegoria della Fede presente nel grande telero dedicato al Doge Antonio Grimani, terminata nel 1575 (Venezia, Palazzo Ducale)(Foto 7), ma la stesura pittorica è più simile a quella di un paio di decenni prima. Vero è che il pennello e l’impasto cromatico reagiscono chimicamente in modo diverso al contatto col rame, rispetto alle rapide assorbenze della tela, sicché risulta difficile determinare una cronologia a partire dalla comparazione delle stesure pittoriche. Avanzo in ogni caso una possibile datazione dell’opera in parola intorno al 1555.
Proprio verso la metà del Cinquecento, il supporto metallico sul quale è dipinta questa Maddalena, inizia a diffondersi in Italia, grazie ad alcuni pittori e incisori fiamminghi che, non trovando i medesimi legni duri, impermeabili, sui quali erano abituati a lavorare, cominciano a sperimentare altri materiali, fino a scoprire l’alta rispondenza al colore del supporto di rame, solitamente usato quale matrice di bulini e acqueforti. Sappiamo che Tiziano aveva usato anche basi particolari come il marmo, per l’Addolorata a mani aperte del Prado, la Mater Dolorosa (databile intorno al 1553) e come altri artisti italiani, vicini come lui al mondo della calcografia, dovette sperimentare anche questa tecnica su supporto metallico.
Ritengo che questo poetico dipinto costituisca una importante aggiunta al catalogo del Cadorino, sia per le intrinseche qualità che per una particolare congiuntura del rapporto tra figura e paesaggio, che raggiunge un singolare equilibrio, nell’assunzione di una forma dialettica e sottilmente narrativa.
Il languore del volto di Maddalena, il suo corpo implorante, unito al premuroso servizio offerto alla santa dagli angioletti creano certamente un gruppo a sé stante, quasi scultoreo, ma senza il vibrato pittorico dello scorcio naturale, senza quella pennellata franta che dall’umidità del terreno sale screziandosi verso il cielo, non raggiungerebbe il medesimo risultato espressivo, sentimentale.
In aggiunta alle considerazioni formulate sullo stile e sulla poetica presento la reflettografia del dipinto (Foto 8), che mostra in modo evidente il variare delle idee creative e, attraverso queste, una cinetica animazione della santa e degli spiritelli che le volano attorno (nota 1).
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La parte sottrattiva di questo testo riguarda un’opera tornata di recente alla fama, dopo che Vittorio Sgarbi l’ha pubblicata come il Ritratto di Pietro Aretino eseguito da Tiziano (Foto 9). La bellissima tela che raffigura il poeta in una posa meditativa, con la testa reclinata e sorretta dalla mano, lo sguardo sgranato e l’espressione fissa del sovrappensiero, si trova nella collezione milanese di Luigi Koelliker.
L’attribuzione al Vecellio poggia su un’incisione del 1649, edita da Wenzel Hollar ed eseguita da Francesco Van Den Wyngarde che traduceva graficamente il dipinto quando era conservato nella raccolta di Johann e Jacob Van Verk (o Veerle) di Anversa, riportando una scritta in lingua italiana, che l’attestava quale “Vera effigie del poeta Pietro Aretino cavato da Titiano suo Amichissimo” (Foto 10). Lo studioso ferrarese, nel presentare il riemergere del dipinto, acquisito dalla collezione milanese sul mercato antiquario di Londra, ne commenta l’asciutta composizione iscrivendolo entro la prima maturità dell’artista cadorino. Ne viene tracciato anche un possibile percorso collezionistico che dalle Fiandre, per acquisizione del cardinale Antoni Despuig (1745 – 1813), dovette passare a Maiorca. Un inventario ottocentesco cita il dipinto ricordandolo anche in questo caso quale opera di Tiziano, anche se venne messo all’asta a Maiorca, da Christie’s Iberica nella battuta del 24-25 maggio 1999 (lotto 765), con un significativo riferimento al Moretto, pur senza ulteriori commenti.
Vittorio Sgarbi, nel catalogo della mostra Luce e ombra. Da Tiziano a Bernini (Rio de Janeiro, 2006, pp. 2-5), liquida con un unico termine quell’attribuzione al pittore bresciano definendola “impropria”.
Ritengo invece molto appropriato il riferimento, ed ero giunto alla medesima convinzione sin dai tempi della mia collaborazione con la collezione Koelliker, ravvisando nel dipinto la solida volumetria, il disporsi della figura, gli elementi dello stile levigato e sintetico di Alessandro Bonvicino detto il Moretto.
Per comprendere l’attendibilità del riferimento a Tiziano va considerato che più di cento anni e migliaia di chilometri separano l’esecuzione del dipinto dalla sua traduzione calcografica fiamminga, inoltre abbiamo testimonianza che il rapporto di sodale amicizia tra il Vecellio e Pietro Aretino sia iniziato in anni ben più avanzati, lo testimoniano i dipinti tardi e già noti del Cadorino, che ritraggono uno scrittore anziano e bolso, interpretato da una pennellata già materica e vibrante, lontanissima dal dettato del dipinto in oggetto.
La stesura della tela Koelliker risulta caratterizzata da una straordinaria compattezza, da un taglio ritrattistico inedito, osservato da un punto ribassato, laterale, è descritto in un momento malinconico nel quale il grande scrittore appare assorto, quasi rapito da un rimugino della mente. Il tema del raffinato dipinto è allora il pensiero, l’epicentro dell’incanto che diventa più importante delle stesse fisionomie del soggetto in posa. Queste ci parlano di un profilo affusolato, quasi scolpito nel legno, col naso che scende a triangolo equilatero sotto una fronte appiattita, resa rettangolare al pari di un foglio di carta. Eppure queste prossimità alla geometria, insistite nello scalino delle basette e nell’isolata tornitura dell’orecchio, non sottraggono verità o sentimento al racconto della figura. Il ritratto è anzi una mirabile sintesi di intensità sentimentale e di pregnanza simbolica.
Oltre all’elegante vestiario, che trova acute finezze pittoriche nel polsino della camicia e nel raso screziato del mantello, l’unico elemento esterno al personaggio è il tronco spezzato di un arbusto sul quale resta ancora, avvinghiata e viva, un’edera.
Sin dall’antichità classica l’albero tagliato, al pari della colonna dimezzata, è simbolo di un lutto, di un amore o di una vita interrotta, e l’allusione al sopravvivere di una pur minima vegetazione attorno a quella distruzione è chiaro indice di una continuità.
A convincermi di un’autografia del Moretto mi aiutano diverse opere che dimostrano strette parentele con la tela milanese. Innanzi tutto il San Rocco curato dall’angelo dello Szépmüvészeti Mùzeum di Budapest (Foto 11), che usa il medesimo appoggio del capo sulla mano, oltre a fisionomie molto affini a quelle dell’Aretino.
Ancora più stringenti appaiono le somiglianze in un’opera già posseduta dalla importante collezione Contini Bonacossi e attualmen
te di ubicazione sconosciuta, si tratta di una Figura virile leggente (Foto 12), un Profeta o forse un Apostolo evangelista, così almeno è definito nell’archivio fotografico della Fondazione Zeri (scheda 44116, olio su tela, cm. 75 x 64,5) dove è classificato come anonimo bresciano del XVI secolo, ma è ormai acquisita l’autografia del Moretto.
Ma un altro fattore dirimente è legato alla biografia del Moretto che riporta la sicura esecuzione di un Ritratto dell’Aretino da parte dell’artista bresciano, attestato da alcune missive dello stesso scrittore al Vasari, oltre a una lettera del 1544 indirizzata direttamente al pittore, per ringraziarlo ed esprimergli l’entusiasmo per aver ricevuto, per mano del Sansovino, il ritratto che in seguito l’Aretino donò al Duca d’Urbino (nota 2).
Forse, quello della collezione Koelliker, non fu il solo ritratto che il Moretto realizzò intorno all’effige di quel grande intelletto e credo vada considerata una copia di bottega, da un altro suo autografo perduto, il rame raffigurante un Ritratto di scrittore conservato nella Galleria Pallavicini (Foto 13).
Ma sopra ogni altra considerazione credo rimanga il fatto che quell’inclinazione del capo, lo sguardo in tralice e quello spirito malinconico ricorrono in moltissime opere del Moretto fino a divenire una precisa cifra individuale.
Massimo PULINI Rimini maggio 2018
Note: