di Nica FIORI
Il primo Balla e José Molina: due importanti mostre al Museo Carlo Bilotti
Quando pensiamo a Giacomo Balla, lo inquadriamo subito come genio futurista, ma è sbagliato ricondurre alla sola gloriosa stagione futurista la poliedrica e complessa attività di questo pittore che ha attraversato da autentico precursore la prima metà del Novecento.
Nato a Torino nel 1871, Giacomo assorbe dal padre Giovanni, fotografo dilettante, i primi stimoli verso la fotografia, che approfondisce durante la frequentazione dell’Accademia Albertina. Ma è a Roma, dove si trasferisce nel 1895, che conquista presto un ruolo di primo piano e vi rimane fino alla morte, avvenuta nel 1958.
Un aspetto poco conosciuto del pittore è raccontato dalla mostra Balla a Villa Borghese, a cura di Elena Gigli, che si tiene nel museo Carlo Bilotti, in quella che era l’Aranciera della principesca villa romana. Attraverso 30 opere vediamo come la prima produzione pittorica di Balla fosse già rivolta allo studio della luce. Dagli esordi nel segno della scomposizione divisionista del colore, ispirato da Pellizza da Volpedo, alla forte impronta fotografica delle inquadrature nei ritratti, Balla giunge al dinamismo e alla velocità futurista, proprio osservando lo scomporsi e il ricomporsi della luce nel movimento. Potremmo dire che era letteralmente ammaliato da questa forma di energia, tanto da arrivare a cambiare il nome della sua primogenita Lucia in Luce.
La luce solare, la luce artificiale, ma anche lo studio dei raggi luminosi derivato dall’uso della camera ottica fotografica, da cui derivano i tagli diagonali e gli effetti di luce radente e di controluce, l’autoscatto e l’inquadratura parziale dell’immagine: tutto ciò traspare in alcuni quadri decisamente fotografici, quasi in bianco e nero, come Affetti, del 1910 (è presente il bozzetto), che si contrappongono ad altri quadri dove, invece, il colore viene esaltato.
“Ho lavorato molto cercando sempre di ritrarre il vero ed attraverso ad esso l’intimo spirito delle cose”. Queste parole di Balla, ricordate in mostra insieme ad altre illuminanti affermazioni dell’artista come “mi alimento della purezza buonissima della natura…” , rendono bene la continua ricerca del “vero”, che parte dall’analisi della realtà e in questo senso egli trova nella villa Borghese un paesaggio naturale d’elezione, continua fonte di ispirazione con i suoi sentieri, le fontane, le statue antiche e soprattutto gli alberi, che vede mutare aspetto nello svolgere delle stagioni dal balcone di casa sua.
Parliamo della casa di via Paisiello (all’epoca via Parioli), ricavata in un antico monastero, dove va ad abitare nel 1904 dopo il matrimonio con Elisa Marcucci. È un angolo felice di natura, all’epoca ai margini della città, quello che egli vede quotidianamente dal suo studio, o uscendo di casa e inoltrandosi nel parco, che nel 1901 era stato ceduto al Comune di Roma. Opere come Villa Borghese dal balcone, Cantano i tronchi, i cui titoli sono ripetuti più volte, mostrano come in pochi anni il tema della natura che ha davanti a sé
diviene la sua Montagne Sainte-Victoire (la montagna di Cézanne), “un tema da indagare, da provare e riprovare, da scarnire fino all’astrazione”, come scrive la curatrice, e come farà in seguito con i temi della Rondine, dell’Automobile in corsa, con la Velocità astratta, le Trasformazioni forme spirito, e così via.
A parte due autoritratti di Balla, dei quali uno relativo al periodo torinese, un grande quadro di carattere sociale del 1903 Dei viventi. Il contadino
(olio e tempera su tela) e alcuni ritratti caratterizzati da notevole introspezione psicologica, tra cui quelli del sindaco Ernesto Nathan (1910) e di Peggy Nathan (1919),
le opere esposte sono paesaggi, a volte divisi in dittici e trittici, dove vengono fuori i raggi della luce come sciabolate di rosso, di viola, di arancione, mentre per rendere l’idea dell’acqua che scende da una fontana, fa uso del temperino sulla cera del pastello.
Il piccolo quadro raffigurante Le Torri del Museo Borghese (pastello su carta del 1905), ci colpisce per la luna gialla che domina la scena sembrando quasi un sole radioso nella notte, mentre altri ci incantano per i giochi d’ombra, e altri ancora per le statue dipinte solo in parte, ovvero tagliate ai margini di un paesaggio, come in Statua a Villa Borghese e Villa Borghese con statua (entrambi sono pastelli su carta del 1905 circa). La scelta di usare la carta era legata, come ha ricordato la curatrice, al fatto che Balla era povero, ma evidentemente la carta gli piaceva perché continuò a usarla anche nei dipinti futuristi, quando era all’apice del successo.
Completano la mostra una scultura futurista in filo di ferro del 1933 (Linea di velocità + forma rumore) e una serie di scatti fotografici di Mario Ceppi, realizzati negli stessi luoghi dei dipinti in mostra. Inoltre si può assistere alla proiezione del film “Balla e il futurismo”, di Jack Clemente, vincitore del premio Leone d’Argento alla Biennale di Venezia nel 1972 nella sezione documentari d’arte.
In contemporanea con la mostra dedicata a Balla, il museo Carlo Bilotti ospita un’altra interessante esposizione, incentrata sul tema dell’acqua come archetipo, come forza primigenia da cui si genera la vita e a cui tutto farà ritorno. Il titolo “L’acqua di Talete. Opere di José Molina”, allude a un concetto filosofico di Talete di Mileto che, come riporta Aristotele nella sua Metafisica, costituisce la base della filosofia occidentale. L’artista José Molina, nato nel 1965 a Madrid, si confronta con questo pensiero realizzando sculture e opere pittoriche su tela e su carta in cui predomina l’acqua stessa, che è anche evocata nelle fattezze metamorfiche e visionarie dei personaggi rappresentati, creando così, come evidenzia il curatore Roberto Gramiccia, un mondo fantastico che inesauribilmente rinasce da se stesso.
Troviamo degli strani esseri acquatici e umani allo stesso tempo, donne con ali che potrebbero essere angeli e conturbanti visioni surreali, che ricordano anche il fiammingo Hieronymus Bosch e Francisco Goya, i cui capolavori al Prado sono stati nutrimento artistico per il giovane José Molina.
La mutazione, la metamorfosi – in questo momento di casa a Roma anche nella mostra dedicata a Ovidio nelle Scuderie del Quirinale – assume con Talete una valenza scientifica, perché egli fu il primo filosofo, tra quelli di cui ci siano giunte notizie, a chiedersi di cosa fossero fatte le cose, arrivando alla conclusione che l’acqua o l’umido è alla base di tutto, poiché passa dallo stato liquido a quello solido e a quello aeriforme. Certo anche Molina deve provare – almeno così mi piace credere – una particolare attrazione per l’elemento acqua, visto che da alcuni anni ha scelto di vivere presso il lago di Como. I suoi paesaggi acquatici non sembrano reali, ma ricostruiti da una personale arte della memoria. E i suoi esseri esprimono l’idea dello scorrere del tempo, al di là del quale è possibile immaginare un ulteriore divenire, oltre le sensazioni disperse nell’opera pittorica.
Le opere esposte non sono tantissime, ma indubbiamente di grande impatto visivo. Sono state scelte fra dipinti, disegni e sculture facenti parte di cicli iconici dell’artista, come si vede nel libro José Molina – Humanitas (2014), che è una sorta di catalogo in più lingue del pensiero e della sua arte, più due inediti realizzati apposta per questa esposizione.
Si tratta di Marte nascente e Venere nascente (2018): due opere disegnate a matita grassa su carta che raffigurano le mitiche divinità, ma non in modo armonico, come invece erano rappresentate nelle sculture greche e romane. Le due figure ci appaiono immerse nel mare, a testimoniare che dove c’è acqua c’è vita; tuttavia, al posto delle gambe la figura maschile ha denti di tricheco, mentre quella femminile ha il becco di un tucano, a evocare la difficoltà dell’uomo a vivere in armonia con la natura e la necessità di ristabilire un equilibrio.
L’idea di collocare questa mostra nel museo Carlo Bilotti, come spiega Roberto Gramiccia, prende spunto dall’importanza che l’acqua ha avuto nella storia del museo, suggerendo una riflessione sulle origini classiche del pensiero occidentale. L’edificio che ospita l’attuale sede espositiva, infatti, prima ancora di essere adibito ad “Aranciera”, verso la fine del Settecento fu ampliato e decorato per volontà di Marcantonio IV Borghese, unitamente alla sistemazione del vicino “Giardino del Lago”, per ospitare feste mondane. Tale intervento fu considerato particolarmente riuscito per la presenza di meravigliosi ninfei e fontane di gusto barocco, tanto che l’edificio stesso prese il nome di “Casino dei giuochi d’acqua”, come ci tramandano le cronache dell’epoca. E questo potrebbe essere il trait-d’union con l’altra mostra, dedicata al rapporto di Balla con villa Borghese, e quindi con la natura.
Anche per la mostra di Molina, oltre alle creazioni più rappresentative legate al tema dell’acqua secondo una visione cosmogonica, troviamo una serie di lavori che rimandano all’interesse dell’artista nei confronti del legame tra l’uomo e la natura. Emblematico del percorso espositivo è il lavoro Naufraghi nel proprio mare (2005, matita grassa su carta), appartenente alla collezione Predatores e accompagnato da uno scritto dell’artista che inizia con quest’interrogativo:
“Non ci avete per caso incontrato nel mezzo di un vivido paradiso, dentro al quale si muore pur di viverlo, con un cuore e dei sentimenti, prigionieri di una pelle morta, che trasforma l’anima in una cella cieca e angusta?”
La scena, in cui predomina uno specchio d’acqua vasto e agitato, rappresenta metaforicamente un percorso psichico affrontato dallo stesso Molina, ma che è comune alla maggior parte delle persone:
quello dell’uomo che sogna di volare o di nuotare in un mare aperto, ma che non riesce a prendere il largo, a evadere dai suoi limiti fisici e mentali, perché si pone da solo delle barrire, creando dentro di sé una prigione.
Altre opere rimandano all’indagine dell’artista sulla natura umana, da lui affrontata nelle serie Los Olvidados, Portraits, Beloved Earth; tra queste spiccano le figure femminili, generatrici di vita e depositarie della forza ancestrale della natura, come in Dolce acqua (2015), La prima mattina (2015) e Fiore di mare (2016), oppure i soggetti onirici e metafisici di Predatores, tra cui l’opera, sempre a tema acquatico, I Pesci che nuotano (2015), metafora dell’affrontare la vita “controcorrente”, oltre all’autoritratto Sangue! (2002) da Morir para vivir.
Sono esposte anche tre sculture in resina e legno acidificati, intitolate Io dubito, Io ricordo e Io immagino, appartenenti alla serie I feel del 2017. Apparentemente sembrano dei vasi semisferici,
mentre in realtà raffigurano delle teste umane scoperchiate, che suggeriscono all’osservatore di addentrarsi a fondo nelle profondità della psiche umana con i suoi interrogativi ancestrali. Non a caso nella prima troviamo un labirinto, dove è facile perdersi se non si segue un filo logico.
Nica FIORI Roma 1 dicembre 2018
BALLA A VILLA BORGHESE
L’ACQUA DI TALETE – OPERE DI JOSÉ MOLINA
Museo Carlo Bilotti – Aranciera di Villa borghese, Viale Fiorello La Guardia, 6, Roma. Dal 29 novembre 2018 al 17 febbraio 2019. Orario: da martedì a venerdì ore 10-16; sabato e domenica ore 10-19. Ingresso gratuito