di Claudio LISTANTI
Successo per l’esecuzione musicale, riserve per l’allestimento scenico.
Il Teatro dell’Opera di Roma ha dato il via in questi giorni alle celebrazioni per ricordare Giacomo Puccini, uno dei nostri più grandi musicisti del quale, nel prossimo 2024, ricorreranno i 100 anni dalla scomparsa avvenuta a Bruxelles il 29 novembre 1924.
Una celebrazione unica, quanto doverosa, per il suo contenuto per ricordare l’arte musicale del grande musicista lucchese, che ha goduto di una immensa popolarità alla quale, non sempre, ha corrisposto una adeguata considerazione da parte della critica. Ma con il passare degli anni e con le numerosissime rappresentazioni programmate in tutto il mondo dei diversi capolavori pucciniani, la critica musicale ha sempre di più preso in considerazione i valori musicali e drammaturgici di queste opere riservando al Maestro un’ adeguata posizione nell’ambito delle produzioni musicali del primo ‘900, periodo del quale è senza dubbio uno dei rappresentanti più illustri. L’iniziativa, inoltre, possiede una importante valenza storica per Roma e per il Teatro Costanzi che ospitò l’11 gennaio 1919 la prima europea de Il Trittico.
Le celebrazioni di questo centenario, oltre a ricordare la sua splendida produzione musicale, saranno senza dubbio utili a rafforzare e ulteriormente approfondire la grandezza della sua poetica musicale.
Tornando all’ evento dell’Opera di Roma questa importante celebrazione ha preso il via recentemente con un progetto teatrale e musicale battezzato con il titolo di ‘Trittico ricomposto’, realizzato in collaborazione con il Festival Pucciniano di Torre del Lago al quale ha partecipato in maniera attiva il Direttore Musicale del Teatro dell’Opera, Michele Mariotti che curerà anche la direzione d’orchestra degli spettacoli previsti. È una iniziativa che avrà un respiro triennale e come scopo quello di proporre, in tre stagioni diverse, un’opera del Trittico abbinata ad altrettanti capolavori del ‘900 per ricercare punti di incontro e assonanze drammaturgiche e, comunque, una nuova via di lettura.
Nel dettaglio il Trittico ricomposto si basa sulla scomposizione delle tre opere del Trittico pucciniano, operazione temeraria in quanto si va ad intaccare l’identità di una struttura teatrale-musicale che seppur non apprezzata negli anni immediatamente successivi alla prima assoluta del 1918, ha progressivamente ottenuto il beneplacito di buona parte della critica, per poi procedere ad una ‘ricomposizione’ che si materializza con la proposta di tre ‘dittici’ di opere in un atto ognuno dei quali proposto nell’ambito della programmazione di tre diverse stagioni liriche. Sono tre spettacoli concepiti con una realizzazione scenica conseguente alla ricerca di una continuità tra i due lavori proposti, atta a dimostrare le affinità e i collegamenti esistenti tra loro.
Il primo ‘dittico’ di questo stimolante progetto è andato in scena in questi giorni al Teatro dell’Opera di Roma e prevedeva l’abbinamento tra Il Tabarro di Giacomo Puccini e Il Castello del Principe Barbablù di Béla Bartók. Nella prossima stagione Trittico ricomposto tornerà con Gianni Schicchi abbinato a L’Heure espagnole di Maurice Ravel al quale seguirà, successivamente, l’accoppiata Suor Angelica con Il Prigioniero di Luigi Dallapiccola.
La parte scenica di questo primo spettacolo è stata affidata al regista tedesco Johannes Erath, personalità artistica particolarmente indicata vista la sua esperienza professionale che gli permette di accompagnare all’attività teatrale una competenza musicale acquisita come violinista.
Per questo spettacolo ha concepito un allestimento scenico scarno e funzionale realizzato da Katrin Connan con i costumi di Noëlle Blancpain predisposto per accogliere l’esecuzione di entrambi gli atti unici. Il tutto impostato per mettere ben in evidenza l’interpretazione che Erath ha voluto dare allo spettacolo, basata sulla ricerca di punti di contiguità e di affinità tra i due capolavori.
Punti di incontro questi due capolavori li posseggono senz’altro. Innanzi tutto quello temporale essendo entrambi stati rappresentati nel 1918 anche se, come vedremo, in maniera fortuita. Il Tabarro, come pare integrante del Trittico, andò in scena al Metropolitan di New York il 14 dicembre mentre il Castello di Barbablù fu presentato per la prima volta al Teatro dell’Opera di Budapest il 24 maggio. Altra particolarità è quella che entrambe le prime assolute ebbero luogo diverso tempo dopo la loro composizione. Quella di Bartók, su testo del poeta Béla Balázs risale al 1911 ma per anni le istituzioni musicali del suo paese non ritennero l’opera valida per la rappresentazione. Per Il Tabarro, scritto su un libretto del drammaturgo Giuseppe Adami, la composizione si sviluppò dal 1913 al 1916, concepita ‘autonoma’ ma poi inserita nel Trittico ritardando, di fatto, la prima assoluta.
Johannes Erath, artista la cui attività si è svolta in maniera sostanziosa nel campo dell’opera lirica, ha trovato come punto di incontro quello dell’incomunicabilità tra i protagonisti principali; elemento condivisibile se esaminiamo il dramma interiore di Michele e Giorgetta con la loro reciproca incomprensione sviluppatasi dopo la tragica morte del loro piccolo figlio cha ha portato i due protagonisti l’uno a chiudersi in se stesso e l’altra a desiderare un cambio netto della sua vita da quella squallida e monotona del barcone dove vivono ad una più viva e brillante che trova nell’amore per Luigi la via d’uscita ideale. Una analoga ‘incomunicabilità’ c’è tra Judit e il Barbablù. Tra loro c’è senza dubbio amore ma Judit è molto insistente nel voler approfondire, in modo anche morboso, alcuni aspetti oscuri nella vita di Barbablù che sono celati dietro le misteriose sette porte che Judit insiste per sapere cosa contengono. Barbablù sembra contrariato da questa insistenza che porta Judit a scoprire le altre tre mogli scomparse alle quali (dovrebbe) unirsi e lasciare in solitudine Barbablù.
Nelle dichiarazioni di Erath circa i contenuti di questo spettacolo emerge anche la sua idea di una unità stilistica tra le due opere che, a suo parere, si manifesta con l’evidenza di elementi simbolici che accosterebbero Il Tabarro allo spiccato simbolismo del Castello di Barbablù che a sua volta contiene elementi realistici dal chiaro contenuto verista espresso nell’opera di Puccini. Tale concezione, ovviamente, ha influenzato la messa in scena del regista tedesco, risultando però un elemento piuttosto discutibile.
Su queste basi si è registrata una rilettura de Il Tabarro contraddittoria rispetto ai suoi valori musicali che in fin dei conti dovrebbero essere gli elementi guida per una realizzazione scenica. Nel Tabarro siamo di fronte ad un dramma che non è solo di affetti e stati d’animo ma anche, in un certo senso, di carattere ‘sociale’. In esso è del tutto evidente il contrasto tra la vita grama e tribolata che si svolge sul barcone che coinvolge, non solo chi ci lavora, ma anche il proprietario Michele e sua moglie Giorgetta che sono anche al centro di un dramma personale conseguente alla perdita del loro piccolo figlio. Il libretto di Giuseppe Adami, come evidenzia la didascalia introduttiva, descrive l’ambiente fluviale della Senna con lo sfondo che lascia intravedere la vita quotidiana di Parigi. Due elementi contrastanti che rafforzano il senso di disagio di chi è costretto a vivere e lavorare sul barcone con quanto succede in città dove la vita appare più serena e appagante. È messa in evidenza anche la condizione dei lavoratori dell’epoca, in un momento storico certamente segnato dai quei fremiti del ‘socialismo’ che scossero il primo quarto del ‘900. Sullo svolgimento dell’azione, che si conclude con la vendetta di Michele che uccide Luigi, incombe sempre la presenza del fiume con il suo scorrere lento e sinuoso che è preponderante all’alzar del sipario e continuerà, inesorabile, dopo lo scioglimento del dramma quasi metafora dell’implacabile passare del tempo.
La scena così come è stata concepita tradisce questa impostazione restituendoci una visione, a nostro parere, fuorviante per la profonda comprensione di questo capolavoro del ‘900. La scena è completamente scarna, in essa non compaiono quei contrasti poco prima evidenziati, e l’ambiente del barcone risulta essere assente. Il tabarro che è l’elemento baricentrico del dramma di Adami/Puccini non si vede; in suo luogo una sorta velatura navale arrotolata più consona ad uno dei tanti film ambientati nella marineria inglese che alla Senna parigina, utilizzata poi per rappresentare la fila dei sacchi trasportati dagli operai mentre al termine le viene affidata il ruolo di tabarro, l’oggetto evocato spesso nell’opera come vero e proprio strumento di pace e contemplazione della famiglia che ospiterà poi il cadavere di Luigi. Sulla scena anche gli ormai insostituibili, per quasi tutti i registi d’opera, mimi, spesso avulsi dall’azione vera e propria e le proiezioni video nelle quali in un momento si scorgeva l’immagine forte quanto fuori luogo dell’Isola dei morti di Arnold Böcklin a sottolineare enfaticamente (crediamo) la storia di morte che Il Tabarro racconta.
Di opposto effetto è stata la realizzazione scenica de Il Castello del Principe Barbablù. La scena è stata concepita con l’intento di dare continuità a quanto realizzato per l’opera precedente. Il determinante simbolismo che pervade tutta l’opera regalandone inequivocabili connotati espressivi, è stato molto ben rappresentato con una messa in scena tanto efficace quanto coinvolgente. L’azione, con il procedere della trama, è divenuta man mano più incisiva, suggestiva e particolarmente avvolgente per lo spettatore. Con la sua musica Bartók ha impresso all’opera un crescente e progressivo stato emozionale che si manifesta con l’incedere delle aperture delle sette porte ognuna delle quali riserva allo spettatore effetti sorprendenti. Qui non ci sono fronzoli, sulla scena solo due personaggi, Judit e Barbablù, che dialogano tra loro con toni spesso aspri e crudi con la tensione drammatica che aumenta con il passare dei minuti. Anche qui l’elemento disturbante dei mimi che, però, vista la caratterista preponderante del libretto creato da Béla Balázs, del quale è stato conservato il significativo ‘prologo’ per maggior chiarezza recitato in italiano, non riusciva a distogliere l’attenzione dello spettatore. Suggestiva la realizzazione ‘video‘ dell’ambiente antistante le sette porte con il velo di mistero che le avvolge all’esterno e contenuta nella ‘sala vuota, oscura e fredda’ come la descrive il librettista nella didascalia iniziale.
Funzionali alla realizzazione dell’intero spettacolo sono state le luci di Alessandro Carletti, di grande effetto soprattutto in Barbablù e la parte video di Bibi Abel che con molta evidenza hanno entrambe assecondato la visione registica di Johannes Erath.
Diverso è il discorso per quanto riguarda la parte musicale nella quale Michele Mariotti ha esibito una direzione molto accurata nel realizzare due partiture di gran pregio, entrambe chiarissima espressione della cultura musicale dei primi del ‘900. Nel Tabarro, se ascoltato ad occhi chiusi, emergeva con forza tutta la poetica musicale che abbiamo innanzi descritto, mettendo bene in risalto tutti i colori orchestrali concepiti da Puccini per dare realismo all’ambiente che circonda il dramma, evidenziando con incisività i non rari spunti melodici esistenti nella partitura. Nell’opera di Bartók è riuscito a dare quel senso di progressivo procedere del dramma, serrato e incisivo che la splendida orchestrazione mette in risalto, alla quale si aggiunge anche l’attenzione verso la linea vocale più orientata a favore del declamato riuscendo così a dare quell’espressione cruda e drammatica necessaria alla rappresentazione di questo dramma.
Per quanto riguarda le due compagnie di canto sono state entrambe di grande valore. Per Il Tabarro nelle tre parti principali abbiamo potuto ammirare tre cantanti prestigiosi che, in questa occasione romana, hanno anche debuttato nelle loro rispettive parti. Il soprano Maria Agresta è stata una valida Giorgetta sia per la prestazione scenica sia per quella vocale per la quale è riuscita a realizzare la non facile linea di canto che prevede diverse parti di declamato espressivo ma anche alcuni momenti di vero canto ‘pucciniano’ più rivolto verso la melodia, il tutto senza apparenti difficoltà tecniche. Nella parte di Luigi c’era il tenore statunitense Gregory Kunde che ancora una volta ha fornito una prova del tutto convincente grazie alla sua voce che, a dispetto dell’età, risulta sempre fresca e priva di difficoltà nelle emissioni, un vero e proprio ‘fenomeno’ vocale al quale abbina anche una buona pronuncia italiana dimostrazione di una buona conoscenza della nostra lingua. Per lui un notevole successo personale. Al baritono Luca Salsi è stato affidato il ruolo baricentrico dell’opera, quello di Michele al quale ha saputo dare i giusti caratteri umani abbinanti ad una emissione sicura e potente che ha entusiasmato il pubblico. Negli altri ruoli, Didier Pieri era Il Tinca, Roberto Lorenzi Il Talpa, Enkelejda Shkoza La Frugola, Marco Maglietta Un venditore di canzonette con Valentina Gargano e Eduardo Niave, entrambi provenienti dal progetto ‘Fabbrica’ Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma, Due amanti.
Nel Castello di Barbablù due cantanti specialisti per questo genere di vocalità. In primis la bravissima Szilvia Vörös che ha dato i giusti accenti al personaggio di Judit alla quale Bartok ha affidato una linea vocale piuttosto ampia che spazia dai toni gravi agli acuti che la cantante ungherese ha realizzato senza forzature abbinando la prova vocale ad una più che convincente recitazione. Nella parte di Barbablù il russo Mikhail Petrenko anch’egli a suo agio nel superare le difficoltà della parte vocale e dell’impianto registico per quanto riguarda i movimenti scenici. Per entrambi, al termine della loro interpretazione, scroscianti e vistosi applausi.
Allo spettacolo hanno partecipato alcuni allievi della Scuola di Danza del Teatro dell’Opera utilizzati in entrambe le opere per interventi per i quali, ma questa è una nostra mancanza, ci è sfuggito il significato. Buona la prova del Coro del Teatro dell’Opera diretto da Ciro Visco emersa nel breve intervento previsto nella partitura de Il Tabarro mentre di rilievo è stata la prova, tecnicamente molto difficile, fornita dall’Orchestra del Teatro dell’Opera sotto la bacchetta di Michele Mariotti.
Tirando le somme al termine dello spettacolo possiamo dire che a nostro giudizio l’operazione di ricerca di punti di incontro tra le due opere ha ottenuto l’effetto contrario dimostrando che ognuna di esse è una stella che brilla di luce propria e che l’unica cosa che hanno in comune è quella di essere, ognuna, un grande capolavoro.
La nostra recensione è relativa alla recita dell’11 aprile alla quale ha assistito un pubblico molto interessato alla proposta seppur non particolarmente folto, forse a causa del coincidente periodo pasquale. Se si esclude qualche buh! rivolto all’allestimento, lo spettacolo è stato entusiasticamente applaudito al termine della recita.
Claudio LISTANTI Romas 16 Aprile 2023