di Francesco MONTUORI
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- Martini e F. Montuori
EREDITA’ DEL MODERNO Adalberto Libera, la Villa Malaparte a Capri
“Ci avviammo per una stradetta in direzione della villa. Dapprincipio il nostro cammino ci condusse per la passeggiata riparata che corre a mezza costa tutt’intorno all’isola. Era quasi il tramonto e all’ombra degli oleandri fioriti, sul pavimento dell’ammattonato, tra le mura di cinta dei folti giardini, passavano poche persone, in silenzio e lentamente. Or si or no, tra il fogliame dei pini e dei carrubi, si intravvedeva il mare lontano, di un azzurro duro e prezioso, tempestato dalle luci scintillanti e fredde del sole declinante …
Percorremmo per tutta la sua lunghezza la passeggiata; poi prendemmo per un altro viottolo più stretto. Improvvisamente, ad una svolta, ci apparvero i Faraglioni …
Dopo i Faraglioni, il viottolo prese a girare tra dirupi ignudi, senza più ville né giardini. Finalmente in un punto solitario, ci apparve una lunga e bassa costruzione bianca che sporgeva sul mare con una grande terrazza.”
Era la villa Malaparte; fu qui che Alberto Moravia narrerà delle illusioni e degli insanabili contrasti fra i protagonisti del suo romanzo “Il Disprezzo”.(fig.1)
Curzio Malaparte si recò a Capri per la prima volta nel 1937. Ne rimase incantato; vide il promontorio del Massullo a cui si perveniva fra le rocce, grazie a uno stretto sentiero. Vi si giunge attraverso un’impervia risalita dello spalto roccioso, una terrazza naturale, l’approdo di un periglioso ed aspro cammino. Un sito inospitale di grande bellezza prossimo alle torri rocciose dei Faraglioni, dove costruire rappresentava un atto temerario.
Nel 1938 Malaparte acquistò il promontorio del Massullo e un vasto terreno retrostante ricoperto dalla macchia mediterranea; poco dopo presenta all’amministrazione comunale la domanda per costruirvi una modesta casa. Il progetto portava la firma dell’architetto Adalberto Libera.
Libera aveva redatto il primo progetto della Villa Malaparte tra il gennaio e il marzo del 1938; concepì un unico allungato blocco volumetrico appoggiato sulla roccia, sul tratto terminale dove la linea del promontorio si fa più pianeggiante. Già i primi schizzi di progetto configuravano un edificio allungato con un accentuata e decisa orizzontalità: una villa rettilinea (fig.2).
Al di là dei contrasti scontati fra committente e progettista, Malaparte e Libera concordarono su una Villa che nulla concedesse ad una certa vernacolare architettura caprese; vollero che l’edificio fosse un manifesto dello stile moderno.
Adalberto Libera era una punta d’avanguardia fra gli architetti italiani; avevo diretto come segretario generale il MIAR, Movimento italiano per l’architettura razionale, uno dei primi raggruppamenti votati al rinnovamento dell’architettura italiana; proprio in quegli anni stava realizzando un’opera memorabile, il Palazzo dei Congressi all’E42. Malaparte ne era a conoscenza; dirigeva la rivista “Prospettive” su cui aveva pubblicato una netta presa di posizione in favore dell’architettura razionale, proprio nel momento in cui si inneggiava agli archi e alle colonne. Si aprì dunque un dialogo ricco e complesso fra il committente e il progettista che tuttavia non evitò contrasti anche aspri.
Libera fu convinto ad apportare numerose varianti durante la realizzazione dell’opera. Malaparte considerò sempre la Villa come il prodotto dei suoi desideri; arriverà ad affermare che
“il giorno che mi sono messo a costruire la casa non credevo che avrei disegnato un ritratto di me stesso…vorrei costruirmela tutta con le mie mani, pietra su pietra, mattone su mattone…”
Battezzò la villa “la casa per me”. In seguito Libera non ne rivendicò mai, sorprendentemente, la paternità.
Il percorso per raggiungere la terrazza della Villa Malaparte e il suo rapporto con l’orizzonte marino sono i due nodi per comprendere il fascino di questa famosa costruzione.
Si perviene alla Villa percorrendo un sentiero che termina con una ripida scaletta: di fronte un’enorme gradinata strombata permette di giungere alla terrazza-solarium, sopraelevazione di un banco roccioso che emerge dal mare. Il segreto di Villa Malaparte sta tutto nella sella fra le due scalinate contrapposte: quella vasta e strombata e la scaletta, che, altrettanto importante, ripida scende dal promontorio verso la casa (fig.3).
Scendendo dalla stretta scaletta compaiono due piani orizzontali, il filo terminale della terrazza e il vasto piano del mare mediterraneo; ad un tratto i due orizzonti collimano; poco dopo al fondo della sella scompare l’orizzonte marino, domina la compatta volumetria dell’edificio. Ma, risalendo per la grande scalinata, riemerge progressivamente il bordo terminale della terrazza e infine si riconquista il perduto orizzonte marino (fig.4).
Dalla terrazza la scena è maestosa; ci si sente come su un relitto trasportato dal mare e abbandonato su una roccia dopo il ritiro delle acque (fig.5).
Rivolgendo le spalle verso la gradinata essa riappare come una galleria di un teatro della natura; la strombatura rafforza l’effetto prospettico, il suo punto di fuga è in una buia cavità circondata da macchie e da rocce.
La pianta di Villa Malaparte ricorda la forma di un remo. Non è facile individuare l’ingresso, nascosto com’è, come in una misteriosa tomba egizia. Penetrati all’interno siamo come in un sottomarino in esplorazione sul fondo di un oceano. L’edificio è composto da due livelli (fig.6);
il piano inferiore ospita alcuni locali di servizio; quello intermedio è suddiviso perfettamente in due parti: un grande salone da un lato e le camere da letto e lo studio di Malaparte dall’altro (figg.7-8).
Su ogni lato del salone si aprono due finestre una più grande dell’altra; esse sono disposte nelle due facciate laterali in modo apparentemente casuale.
Al contrario: sono le finestre, una sequenza di visuali solo leggermente rialzate rispetto al pavimento, che hanno il preciso compito di costruire il paesaggio. Libera stesso tentò di creare una teoria sulla “costruzione del paesaggio attraverso l’architettura”(fig.9).
Nel grande spazio del salone minimi sono gli elementi di arredo: campeggiano l’altorilievo “La danza” di Pericle Fazzini; alcuni fusti di colonne a sorreggere due tavoli; un enorme camino tripartito dotato di una piccola finestra sul fondo del focolare; la superficie corrugata del pavimento in pietra arenaria. Pochi oggetti, per rafforzare le vedute verso l’esterno, uno spazio metafisico che richiama la dimensione mitica del Mediterraneo alla quale Malaparte è legato (fig.10).
In asse con il grande salone si apre la porta che permette l’accesso alle camere ed allo studio. Un piccolo appartamento soprannominato l’ospizio, fu riservato per gli ospiti; Malaparte volle nel suo studio, tre finestre uguali per le tre pareti esterne della grande stanza terminale.
Malaparte amò abitare a lungo nella sua Villa. Subito dopo la deposizione di Mussolini il 25 luglio del 1943, fu arrestato per ordine di Badoglio ma, presto liberato, annoterà:
”appena uscito dalla prigione romana di Regina Coeli, andai alla stazione e salii sul treno per Napoli. Era il 7 agosto del 1943. Fuggivo la guerra, le strade, il tifo petecchiale, la fame, fuggivo la prigione, la fetida cella senz’aria e senza luce, il sozzo pagliericcio. L’immonda zuppa, le cimici, i pidocchi. Il bugliolo pieno di sterco. Volevo andare a casa, volevo andare a Capri, nella mia casa solitaria a picco sul mare”.
Nel suo testamento, mosso da sentimenti di riconoscenza verso il popolo cinese e allo scopo di rafforzare i rapporti fra Oriente ed Occidente, lasciò la Villa in eredità alla Repubblica popolare cinese, al fine di creare una casa di ospitalità, di studio, di lavoro per gli artisti cinesi a Capri. Gli eredi impugnarono il testamento ed oggi la villa è una casa privata di proprietà degli eredi dello scrittore, purtroppo non aperta al pubblico.
Nel tempo la casa rimase in uno stato di abbandono; pochi edifici sono capaci di prevedere la propria rovina come fu per la casa di Malaparte; la sua durata coincise con la sua distruzione: su uno scoglio a picco sul mare, esposta alle a frequenti risacche, priva di difese, il suo destino fu segnato sin dalla sua ideazione, nel momento in cui. Ricalcando la roccia sulla quale sorse, si fece un sacello inaccessibile (fig.11).
Forse anche per la solitudine che sprigionava e per la sua drammatica bellezza che essa rappresentava, Jean Luc Godard, fedele al testo del romanzo di Moravia, decise di girare “Il disprezzo”, nel luogo stesso dove Moravia aveva contrapposto gli uni agli altri i suoi disperati personaggi. Una scelta non scontata: i suoi eroi cercano invano la felicità personale, ma loro ambizione li conduce alla lontananza, all’estraneità, al punto di non ritorno (fig.12).
Godard evidenzia la distruzione delle illusioni, la impossibilità della felicità umana, se non quando si tratti di volgare benessere filisteo.
Nel quadro drammatico della Villa Malaparte, nel senso di irreversibile solitudine, di rovina e abbandono a cui essa appare destinata, ai protagonisti del film, Michel Piccoli e Brigitte Bardot, non rimane che un reciproco disprezzo senza speranza (fig.13).
Francesco MONTUORI Roma 24 gennaio 2021