di Paolo MANGIANTE
Sta scritto nelle Vite dei Pittori Genovesi del Soprani che Alessandro Magnasco ai suoi inizi pittorici a Milano fu apprezzato specialmente per la sua attività ritrattistica, ma purtroppo essa fu breve e i suoi ritratti sono in gran parte andati perduti o dispersi e questa perdita è tanto più da rimpiangere in quanto la qualità dei pochi che sono stati rintracciati è così alta da poter senza dubbio annoverare il Magnasco fra i migliori ritrattisti della sua epoca.
Ne dà piena conferma anche il recente ritrovamento dello splendido ritratto di dama in abito da cacciatrice (Olio su tela cm.200 x 135) che rappresenta Teresa Doria Lamba principessa di Avella e duchessa di Tursi dipinto da Alessandro Magnasco negli anni 1735-40 quando ormai ella per avvenuto matrimonio, era diventata anche contessa di Loano e principessa di Melfi (fig.1) .
A riconoscere l’identità della gentildonna effigiata è stato un suo discendente il Marchese Ludovico Doria Lamba, che conoscendo bene le vicende storiche della famiglia, appena visto il dipinto, non ha avuto dubbi nel riconoscere nel dama cacciatrice Teresa Doria Lamba, sua antica antenata.
In verità la posa molto disinvolta con le gambe accavallate confacenti più ai modi di un cacciatore che al rango di una principessa, sottolineata da un ironico sorriso che esprime soddisfazione e sfida a tutti coloro che volevano costringerla a una vita che non era la sua, corrispondeva appieno al suo strabiliante curriculum di donna tosta ed emancipata.
La sedicenne Teresa Doria Lamba principessa di Avella e duchessa di Tursi infatti il 28 febbraio 1726 aveva sposato senza molto entusiasmo il cugino Giovanni Andrea Doria Landi IV, conte di Loano, dopo che suo padre Giovanni Andrea Doria Del Carretto II e il tutore dello sposo orfano, Giovanni Andrea III principe di Melfi avevano deciso di far maritare la rispettiva figlia col rispettivo nipote, così da riunificare in un unico ceppo le due branche in cui si era divisa la discendenza di Giovanni Andrea Doria I, nipote ed erede del grande principe Andrea Doria. Il matrimonio, fondato più su basi di politica genealogica famigliare che sulla volontà dei futuri coniugi, del resto mal assortiti, presto si dimostrò un esperimento poco felice.
Addentrarsi un poco nelle sue complesse vicende coniugali con il cugino, sposato per un evidente e risaputo patto familiare contratto fra il genitore della sposa il duca di Tursi e il tutore dello sposo il principe di Melfi, che aveva l’intento di riunificare in un unico ceppo della grande famiglia Doria, aiuta ad intendere la maestria del Magnasco nel rappresentare la forte personalità e il dibattuto stato d’animo della Principessa dopo circa tre lustri di matrimonio.
Gli atti notarili del divorzio della coppia assai difficile da ottenere a quei tempi, risultano di quasi quattrocento pagine, dove per dimostrare che il matrimonio non era stato consumato per la perdurante verginità della sposa e l’impotenza coeundi et generandi dello sposo bisognava fornire prove attendibili
Dalle reciproche accuse con cui si fronteggiano nelle quattrocento pagine degli atti del divorzio moglie e marito appare palese che i due cercavano di distruggersi l’un l’altro con argomenti però non sempre convincenti. Così mentre lei contestava l’indifferenza di lui, il marito adduceva come scusante la stravagante e “scandalosa” condotta di vita della moglie Teresa, sempre pronta come un uomo ad andare a caccia e a cavalcare con vesti maschili, piuttosto che adempiere ai suoi doveri coniugali.
Il papa Benedetto XIV, Prospero Lambertini, tuttavia era incerto se concedere il divorzio in base a queste affermazioni, ma quando vide di persona Teresa, si dice che la trovò così brutta, che avallò le tesi del marito e sancì la loro separazione. Il divorzio, alla fine concesso il 3 marzo del 1741, fu invece salvifico per ambedue i coniugi che ricostruirono felicemente la loro vita con persone più affini alle loro personalità con cui ebbero ciascuno una numerosa prole.
La scelta del pittore da parte della estrosa committente non fu certo casuale. Una donna così “nuova” e fuori dal comune non poteva scegliere che un artista altrettanto libero dalle convenzioni e altrettanto “spiritoso” come Alessandro Magnasco, ben capace, dagli esempi di alcuni ritratti femminili che si hanno di lui , di ritrarre nobili signore concedendo poco o nulla in leggiadria, in pose artificiose e vagheggiamenti di allusioni mitologiche (figg.3, 4).
E forse non fu cosa semplice, se si considera che il Lissandrino, che da giovane a Milano si era fatto un’ottima fama come ritrattista, aveva poi quasi abbandonato il ritratto per dar vita ad una pittura di genere animatissima da piccole figure di frati, monache, ladroni, arrotini, barbieri, corpi di guardia e soldati, tutte bozzate di tocco di grande effetto che avevano fatto la sua fortuna critica ed economica a Milano e nelle altre città in cui si era recato, sempre richiesto e ammirato. Ma rientrato a Genova nel 1735, dopo decenni di felice attività, come riporta il Soprani:
“il suo pennello non riportò nella città natale quegli onori ,che avea riportato a Milano e altrove,che il suo dipinger di tocco parve di niun conto, anzi ridicolo a certuni…”
A ricondurre il Lissandrino sulla via del ritratto può averlo lusingato la nobilissima schiatta della committente, appartenente alla famiglia più potente ed emblematica della città e forse anche la speranza di riconquistarsi presso la buona società genovese il riconoscimento artistico che sentiva di meritare con un’opera di grande prestigio, ma forse non solo quello perché egli non poteva nutrire che simpatia per un persona così nuova e complessa come Teresa Doria. Certe personalità infatti si attraggono reciprocamente per affinità di intenti e di sentire.
E a questo proposito viene da ricordare che Oreste Ferrari (1986), in un suo saggio sottolineasse
“quanto (i committenti) siano indotti a dar commissioni dalla percezione delle peculiari vocazioni espressive degli artisti”,
mentre da parte degli artisti sia indispensabile entrare in empatia col committente per rispettarne correttamente le idee e i sentimenti, soprattutto poi nel ritratto laddove questo interiore sentire deve essere trasmesso nella posa e nei lineamenti del volto agli spettatori.
D’altro canto Teresa Doria, oltre alla soddisfazione di non allinearsi al comune pensare dei suoi concittadini e di far “cosa stravagante”, con tanti ritrattisti convenzionali presenti a Genova, come il Vaymer, il Mulinaretto e Domenico Parodi, scelse proprio Alessandro Magnasco e lo convinse a riprendere il genere ritrattistico in un monumentale tela come forse non aveva mai fatto, perché questo suo ritratto fosse una puntuale risposta all’effige tutta trine e merletti con cui Domenico Parodi alcuni anni prima, nel 1726, l’aveva ritratta vestita di un arioso e sfarzoso abito di seta broccata “a pizzo”, indossato probabilmente in occasione di quelle sue nozze, in verità non volute, con il cugino Giovanni Andrea Doria Landi IV, conte di Loano in un dipinto ovale, conservato presso il Palazzo Doria Pamphili di Genova (fig. 5), dove in secondo piano compaiono il ritratto dell’illustre antenato dello sposo, Andrea Doria, e una panoramica sul suo feudo di Loano, onori che tuttavia non furono sufficienti per fare la felicità della giovane Teresa.
Con questi presupposti nasce così questo mirabile ritratto dove Teresa non si fa ambientare all’interno del suo palazzo fra colonne e ricche consolle e neppure in un paesaggio araldico come quello del suo ritratto giovanile, ma in mezzo ad alberi e semplici arbusti, cioè circondata da quella natura che essa amava e faceva da sfondo ai suoi svaghi preferiti come amazzone e cacciatrice. Tutto ciò perché Teresa non voleva affatto apparire per la sua beltà o le sue virtù simbolicamente ammantata come una Venere, una Flora o una Cleopatra (fig.6), come usavano richiedere le dame genovesi ai propri pittori, da cui Teresa con questo dipinto voleva invece prendere le distanze, e tantomeno nelle vesti allegoriche di una Diana cacciatrice (fig.7),
ma nella veste di una dama che realmente esercitava l’arte venatoria (vedi fig.1) come i gentiluomini, a cui non si sentiva affatto inferiore, perché convinta che la caccia non fosse una privativa degli uomini, così come usare il pantalone per andare a cavalcare più sicura e veloce, che, dagli atti del processo di separazione è emerso che Teresa effettivamente indossasse andando a cavallo, creando scandalo e riprovazione presso tutti i benpensanti, che nella Genova tradizionalista erano pressoché la totalità.
Che questi convincimenti di emancipazione femminile fossero propri alla sua natura un po’ androgena o determinati dalla noia di un matrimonio con un uomo sbagliato, o più verosimilmente da entrambe le cose, è poi da stabilire, quanto è certo invece che non servirono alla stabilità delle coppia. E aiutano a capire la determinazione con cui Teresa chiese di separarsi in maniera definitiva dal marito.
Non sorprende come il Magnasco, ben aduso ad critica sui costumi di una classe aristocratica ormai in decadenza, abbia saputo penetrare nel più profondo sentire del personaggio di cui cercava di riprodurre l’immagine, non solo nell’esteriorità baldanzosa del suo vestimento venatorio così lontano dalla ricercata e vanitosa eleganza delle sue nobili coetanee che facendo ricorso al mito di Cleopatra o di Venere (vedi figg. 6,7) cercavano di sublimare la loro vacuità, ma anche centrare il ruolo dirompente che Teresa si era assunto nell’ambito della bigotta e in fondo noiosa società genovese, tutta dedita, non allo studio e alla coltivazione delle scienze naturali e delle lettere, ma alla mercatura, come aveva acutamente appuntato il de Brosse di passaggio a Genova nel 1858 sui suoi cittadini
“..ne connaissent de lettres que les lettres de change,dont ils font le plus grand commerce de l’univers…”
Il Magnasco ritrae Teresa Lamba Doria a figura intera, in formato per lui inusuale ma consono ai grandi titoli di nobiltà della gentildonna, vestita in abiti venatori, con lo schioppo appoggiato sul grembo e con la testa cimata da uno spavaldo capello nero piumato di bianco, le gambe accavallate in una posa fiera di baldanza maschile, sottolineata da uno sguardo vagamente sprezzante ed un sorriso di mal celata soddisfazione.
Un atteggiamento decisamente provocatorio, non certo in linea con l’etichetta vigente, che per essere divulgato e reso palese, necessitava, come si è già accennato, di un ritrattista altrettanto “moderno” e scanzonato (fig.1).
Sul piano stilistico delle vesti e del loro panneggiare specie nell’intricato gioco delle pieghe della giubba e ancor più della pesante gonna il presente ritratto si allinea perfettamente con il panneggio dei vestiti della altre dame ritratte dal Magnasco (fig.8, e vedi 3, 4) ed è proprio questo argenteo sfrigolio luminoso sul tessuto azzurro della gonna per le pennellate di biacca sui bordi e negli incavi delle pliche in un gioco pirotecnico di luci a ricordare i tocchi veloci del Magnasco dei frati e dei pitocchi, tocchi spediti e brillanti, capaci di trasmettere sempre nervose e vibranti emozioni.
In alcuni punti tutta via il Lissandrino abbandona la pittura di tocco per aderire ad un virtuosismo descrittivo di grande precisione di disegno come nelle raffinatissime scarpette ricamate di oro che spuntano appena timidamente dall’ampia gonna, quasi Teresa avesse il pudore di nascondere certe sue non dismesse vanità femminili, alla pari del pittore che per un attimo cede ad un prezioso e raffinato realismo (fig.9).
I contatti pittorici del Magnasco con la principessa cacciatrice non si esaurirono però in questo esemplare ritratto, perché egli la introdusse come protagonista, assieme ad altri rappresentanti della nobiltà cittadina, nel suo dipinto forse più celebre il Trattenimento in un giardino di Albaro (fig.10) con cui appare in certo qual senso strettamente collegato, non tanto perché l’area boschiva cha fa da sfondo alla “cacciatrice” potrebbe essere limitrofa al giardino dove lo stesso Magnasco ambienta il Trattenimento, quanto perchè in questo suo capolavoro il pittore riesce a compendiare felicemente i gusti,le attitudini e i sentimenti di Teresa nei confronti dei nobili genovesi che lei frequentava, fornendo quasi l’antefatto e le più segrete ragioni di questo inaspettato e rivoluzionario ritratto.
Per avere un’idea esatta in quale parte di Albaro e in quale giardino il Magnasco abbia ambientato sia il ritratto, sia il suddetto Trattenimento, che sino ad oggi si è voluto identificare con l’ampio parco di Villa Saluzzo “il Paradiso” architettonicamente strutturato con marmi scultorei dove sfarzosamente si intrattenevano ospiti illustri (fig.11),
ma che invece un più attento esame dei due dipinti e dei luoghi ha accertato che il sito corrisponde alla proprietà di campagna degli Adorno poi Cattaneo Adorno, situata subito a monte di quella dei Saluzzo, circondata da rustiche mura che sussistono ancora oggi a delimitare quanto ancora non si è costruito nel novecento (vedi fig.10 ; figg. 12,13)
Nel giardino d’Albaro, fra prelati e aristocratici che a spasso o seduti si intrattengono in vaghi conversari, nel sorbire bevande calde e fredde, cioccolata e sorbetti, o che giocano a carte e si dilettano di disegno e ad attività venatorie, Teresa Lamba Doria appare comodamente seduta, compresa del suo rango, lo sguardo lontano da chi le sta attorno, in abiti più femminili, rispettosi di una certa etichetta, unica fra le dame presenti a calzare un capello che guarda caso è quello stesso emblematico da caccia che esibisce nel ritratto intenta a prendere la cioccolata che gli porge un deferente servitore, (figg.14, 15, 16).
Rispetto al grande ritratto a figura intera il sembiante di Teresa sembra più giovanile, ma l’anima appare comunque la stessa, ed è singolare come il Lissandrino con tre o quattro piccoli tocchi quasi puntiformi di pennello abbia saputo infondere nel viso di piccole dimensioni di Teresa seduta in giardino la medesima forza espressiva cha aveva impresso in quello del grande ritratto, con la differenza che naturalmente manca la baldanza “venatoria”che nel ritratto voleva comunicare,mentre nel contesto del trattenimento essa sembra riflettere su quanto la circonda e con lo sguardo severo e le labbra serrate esprimere un certo dissenso o per lo meno una dichiarata distanza per quel pigro otium estivo in cui si dilettano suoi nobili amici e consanguinei (fig.16).
Non per nulla ella si è accomodata un po’indietro lungo il muro di cinta dove sono dislocati altri “cacciatori” uno dei quali, un nobile elegante, forse un suo cicisbeo, forse chissà quello stesso Lazzaro Lamba Doria che poi dopo il divorzio divenne suo sposo, calza un capello piumato da caccia identico al suo, e appare indaffarato a pulire o ad armare la canna di un fucile suo o della stessa principessa lì accanto (fig.17),
mentre un famiglio, schioppo alla mano, arrampicato sul muro aspetta i volatili che potrebbero arrivare attirati dal richiamo dell’uccello chiuso nella gabbietta posato sul muro vicino a lui (vedi fig.18).
Un piccolo mondo venatorio quale poteva prendere svago in una città come Genova che, chiusa fra il mare e le brulle colline dell’Appennino, non aveva attorno larghi spazi per grandi partite di caccia come avevano altre città come Bologna, Milano o Torino dove per soddisfare questa passione si erano edificate grandi ville deputate alla caccia come Stupinigi o addirittura un complesso monumentale come la Venaria Reale, e così si accontentava di cacciare in quelle ville di Albaro che a detta del Giustignani (1537) erano
“fruttifere e amene dotate di domestico, di selvatico, di acque e di are per uccellare di cittadini come i Sauli, i Negrone, i Giustiniani, gli Adorno e i loro ospiti..”
Non è scritto che cosa pensi davvero Teresa, ma da quanto è riuscito a tracciare sul suo viso il pittore, essa appare come distaccata dalla realtà che la circonda e tuttavia consapevole e capace ancora di trovare un alito di passione in mezzo ad una società malinconicamente avviata ad un lento declino, da cui sembra già meditare come prendere le dovute distanze, al momento magari anche solo con una bella cavalcata o una buona partita di caccia.
Paolo MANGIANTE Genova 28 Gennaio 2024
BIBLIOGRAFIA.