di Massimo PULINI
Il purismo sensuale di Alessandro Mattia da Farnese
a Francesco Petrucci
Quando ci si inoltra nella ricerca di un pittore, per mia attitudine tra quelli vissuti tre o quattro secoli fa, il tentativo di interpretare le traiettorie che ne hanno formato lo stile porta sempre ad imbattersi in altre figure che con questi sono entrate in contatto, fosse solo per un breve periodo. Non importa se quell’artista abbia operato scelte controcorrente, rispetto al flusso dominante del proprio tempo, portandolo ad un isolamento sempre più radicale; in ogni caso la sua parabola ha di certo incrociato quella di altri autori.
Come nel moto dei corpi celesti si constateranno influenze subite o esercitate, ma anche nelle nostre esistenze umane ogni vero incontro determina una trasformazione che, in modo evidente o in forma più segreta, finisce per modificare la nostra orbita.
Se tra tutti quelli studiati fossi chiamato a scegliere il pittore che mi sia parso più costante, quello che, per mantener metafora, ha compiuto le ellissi più nitide e apparentemente mai disturbate dalla interferenza di altri, opterei per il nome di Giovanni Battista Salvi detto il Sassoferrato, pur sapendo che anche questi deve aver risentito di relazioni e conoscenze che lo hanno spinto ad aggiustamenti di tiro. In fondo anche nelle sue innumerevoli repliche di una stessa iconografia si registrano varianti e ripensamenti iconografici che denotano, oltre alla continua ricerca di una propria idea di perfezione, anche un costante dialogo con altri artefici. Anzi, a pensarci bene, forse non c’è pittore che come lui abbia manifestato senza reticenze i propri debiti verso altri autori, soprattutto nell’ambito delle composizioni, ma per quel che riguarda lo stile, ed è di questo che in particolare sto parlando, il Salvi può dirsi un navigatore solitario.
Anche quando la riflessione sul seguito di copie e imitazioni legate alle sue fortunate icone mi ha spinto a riflettere sulla sua operosa bottega, sono stato indotto a immaginare solo una continuità assicurata dai figli, alcuni dei quali venivano per l’appunto ricordati come pittori anche dalle fonti antiche. Eppure proprio nel corso delle indagini dedicate al Sassoferrato ho potuto incontrare le opere di un artista che ha avuto rapporti sicuri con il Salvi e da questi deve aver subìto un fascino attrattivo che ne segnò gusto estetico e destino.
Innumerevoli volte mi sono trovato davanti ad opere che emulano lo stile del Sassoferrato, anche da una distanza di qualche secolo, spesso da una postazione ottocentesca e alcune di queste sono preludio al percorso degli artisti Nazareni, mentre altre imitazioni si sono dimostrate prove formative di ambito accademico. Vi sono tuttavia differenti casi che denotano una genesi coeva e, assieme all’omaggio verso il maestro marchigiano, vi traspare un pensiero autonomo, che aggiunge altre soluzioni e cerca differenti esiti a quella lezione di purezza.
Per gli episodi che intendo raccontare la diramata ricerca è partita da un bellissimo quanto misterioso dipinto già ricordato in una collezione privata torinese e che purtroppo conosco solo attraverso una vecchia fotografia in bianco e nero, schedata nell’archivio di Federico Zeri, proprio sotto il nome del Sassoferrato.
Una bellissima Visitazione (Foto 1) che Maria compie all’anziana cugina Elisabetta, nella visione più tornita e compatta come accade nelle migliori opere del Salvi. Sin dalla prima volta che ne vidi l’immagine, mi parve sospesa in un rallenty ancora più lento di quello che Bill Viola impose nella propria interpretazione del medesimo soggetto di Pontormo [1], tanto risulta definito con un nitore statuario ogni panno e ogni corpo che vi è rappresentato.
Il termine ‘mistero’ può apparire dunque esagerato per descrivere un dipinto che usa un verbo così chiaro e terso, che non tende a celare nessun aspetto della vicenda narrata. Cionondimeno mi si definì la convinzione di trovarmi davanti a un enigma aperto, la corrispondenza all’alfabeto coniato dal Sassoferrato era limpida, ma più guardavo quella foto più aumentavano i dubbi circa l’appartenenza all’artista marchigiano. A parte il volto della Vergine, classico in una accezione davvero statuaria, le fisionomie degli altri attori non erano mai apparse nelle sospese scene del Salvi.
Se non inutile è quantomeno retorico elencare qui le piste seguite per trasformare quel dubbio in una traccia costruttiva, il mondo del classicismo di conio bolognese è stato passato in rassegna e in particolare tutti gli allievi riconosciuti di Domenichino e anche i suoi seguaci indiretti, italiani e francesi in particolare. Ma gli esiti continuavano a mancare e nessuna convinzione si delineava, fino all’incontro con un altro dipinto anonimo, ma che fonti locali, recuperate dopo una breve ricerca telematica, mi permisero di apporvi un primo rassicurante nome.
Parlo ora di un dipinto che raffigura un Transito di San Giuseppe (Foto 2) e si trova nell’altare intitolato al santo nel duomo di Montefiascone, entro una decorazione voluta nel 1681 dalla famiglia Pinieri. Si deve a Almamaria Mignosi Tantillo l’attenzione sui documenti che hanno permesso di riferire ad Alessandro Mattia da Farnese (Farnese 1631 – post 1690), le due opere inserite nella ricca architettura. Due perché oltre alla pala è presente, sulla cimasa, una più piccola tela con una dolcissima Santa Lucia (Foto 3 e 4) [2].
La tornita visione del Transito, ci racconta una semplice scena da ospedale che resta simile anche nell’esperienza odierna, toccando leve di umanità che corrispondono a una diretta conoscenza di chi ha accompagnato negli ultimi istanti un lungodegente. Significativo è il dettaglio della mano di Giuseppe, priva ormai della forza che la potrebbe sollevare, stretta dunque da Gesù quando è ancora appoggiata sul letto. Il pianto della Vergine la spinge ad inclinare il suo corpo in una posa che ritroviamo uguale a quella dell’Elisabetta nella nostra Visitazione di Torino (vedi foto 1).
Sopra il letto appaiono tornite anche le nuvole, gonfie fino a formare un unico e gommoso velivolo che vanta per polena lo stesso Spirito Santo, mentre trasporta l’Eterno benedicente, seduto su quel vapore divenuto solido.
Sopra la pala la giovane Santa Lucia, poco più che adolescente, segna un apice dell’artista, una vetta che è insieme di sentimento trattenuto e di finezza pittorica. Quasi fosse una madonnina miracolosa porta sui capelli una piccola corona metallica aggiunta a posteriori, che tuttavia non sembra dispiacerle. La datazione al 1681 conferma che stiamo osservando un’opera della maturità, anzi queste di Montefiascone divengono le ultime tele fino ad ora conosciute, dunque la relazione col Sassoferrato non andrebbe ascritta come momento di fascinazione giovanile e formativa, ma quale vera e propria adesione esistenziale.
Nella stessa chiesa di Montefiascone, intitolata a Santa Margherita è presente un’altra opera, collocata anch’essa nella cimasa di un altro altare. Si tratta di una Santa Barbara (Foto 5), che seppur più consunta, possiamo riferire sempre al Mattia e che contribuisce a formare un’idea ben strutturata di questo ‘nuovo’ artista[3].
L’amico Francesco Petrucci mi aveva già fatto conoscere e apprezzare Alessandro Mattia da Farnese come ritrattista dei Chigi, ma lo ricordavo nella schiera di artisti del maturo barocco romano, tra quelli che parteciparono anche ai cantieri diretti dallo stesso Bernini per la famiglia di Fabio Chigi, che dal 1655 al 1667 fu papa col nome di Alessandro VII.
Oltre ai magnifici ritratti di cui parlerò in chiusura, sempre nel colle romano che fu ‘possedimento’ dei Chigi, si trova un altro dipinto d’altare di Alessandro da Farnese che conferma una stretta parentela con lo stile del Sassoferrato. Si tratta di un San Rocco che implora la cessazione della peste (Foto 6) ancora collocato nella chiesa dell’Assunta[4]. Per la verità il nobile impianto classicista della pala di Ariccia risente anche del ‘naturalismo temperato’ di Alessandro Turchi detto l’Orbetto, con quel modo di trattare la storia che ritroveremo, quale verbo diffuso sia in Italia che in Francia, quasi due secoli dopo. Si avverte infatti anche un sentore di Poussin nell’alta ambientazione architettonica e nella metafisica delle figure, ognuna sospesa nel proprio tempo e in un’interiorità espressiva. Anche l’angelo vola senza muovere aria in una narrazione che si potrebbe dire antibarocca.
Di questa riuscita composizione si conosce un rifinito modelletto, conservato nel Museo di Palazzo Rosso a Genova (Foto 7) e anche questa metodica e puntuale ripetizione si ricollega alla disciplina adottata dal Sassoferrato, sicché torna utile presentare a questo punto del saggio pure il piccolo bozzetto (misura cm. 41 x 33) del Transito di San Giuseppe (Foto 8), passato in asta con la giusta attribuzione il 1dicembre 2020[5]. Uniche varianti rispetto alla pala sono la più nutrita presenza di angioletti attorno al Padre Eterno e l’aggiunta di una figurina che sbuca dietro le spalle della Vergine.
Resta comunque sobria la composizione e non può che venire dal Salvi quella misura morale che crea un silenzio delle forme e delle cose. Si pensi alla sua Adorazione dei pastori di Capodimonte (Foto 9), eseguita intorno al 1653 e la si confronti con l’analogo soggetto eseguito da Alessandro Mattia nel 1662 per una chiesa di Barbarano Romano (Foto 10).
Vi è sospesa la medesima atmosfera, asciutta e levigata, una gestualità d’incanto che guarda al Quattrocento e insieme anticipa i Nazareni. Quasi a dire che questi autori trovano un futuro nel passato mentre prestano un passato al futuro.
Molti dettagli dispiegano questo intento e le mani aperte dei pastori sono il corrispettivo di un pudore che si trattiene nel riconosce il mistero, nell’incontro con qualcosa di superiore. La stessa modella dal naso greco e dagli occhi ribassati che interpreta la Madonna l’ho poi ritrovata in un bellissimo dipinto anonimo raffigurante una Sant’Agnese in meditativo dialogo con l’agnello (Foto 11).
Un dipinto raffinatissimo, transitato sul mercato antiquario londinese nel 1989-90 (Prudence Coming Associated), che comprensibilmente veniva riferito al Sassoferrato nell’archivio fotografico di Federico Zeri. Assume una dimensione allegorica la testa di idolo pagano sottomessa dal piede sinistro della giovane vergine. Vi è tuttavia un rimando all’agiografia della giovanissima cristiana, votata alla castità anche dopo il matrimonio col figlio di un prefetto romano, che ancora dodicenne la vuole rinchiusa forzatamente in un tempio di vestali e poi in un postribolo, prima di destinarla allo stesso supplizio degli agnelli. Proprio nel muso pacato della pecorella si specchia il viso mesto della martire ragazzina, che vediamo vestita di abiti serici, non a caso la tradizione la ricorda proveniente dalla nobile gens julia.
Quel medesimo sguardo ribassato, raggiunto solo da un tenero sorriso, si evince in una nuova e bellissima composizione domestica. Questa volta, l’ho identificata in una raccolta privata aretina, è una Madonna col Bambino in braccio, alla presenza di san Giovannino (Foto 12) a portare quel candore pensieroso. Entro una mirabile poetica degli affetti si svolge una scena che cerca dialogo anche con l’osservatore, a questi si rivolge il piccolo Gesù dopo aver ricevuto in mano, dal cuginetto Giovanni, l’esile canna di fiume crociata, evocatrice del proprio martirio. Si compie quasi per gioco quel che di fatto costituisce la premonizione di un dramma e il fulcro di questa serena rivelazione sta tutta nel gesto dell’indicare, che nella prima infanzia va a sostituire, di fatto, la parola.
Con disposizione del tutto simile, ma ancora più acuta nei dettagli ottici, si configura un Matrimonio mistico di Santa Caterina d’Alessandria (Foto 13), passato come scuola francese del XVII secolo nell’asta Bonhams di Londra del 30 aprile 2014.
In queste opere appare più lontana la lezione del Sassoferrato e sembra aggiungersi l’interesse verso altri autori come l’Orbetto (Foto 14) e Antonio Gherardi (Foto 15). Una più solida e sensuale fisicità si delinea, senza produrre tuttavia un cambio nel fronte ideologico, perché Mattia da Farnese continua a restare nell’ambito di un classicismo intriso di umanesimo. Cionondimeno questa miscela si affranca ormai dalla sola dimensione conventuale del Salvi e, proprio nella rappresentazione della poetica degli affetti, si apre a soluzioni più aggiornate.
Segnalo a questo proposito un dipinto conservato a Bratislava (Foto 16) che dimostra una singolare vivezza di sguardo nella Vergine, raffigurata mentre veglia il sonno di un languido Gesù Bambino. Si può davvero istaurare un parallelo con certe opere di Gherardi (Foto 17) e di Spadarino, anche se lo stile di Alessandro Mattia da Farnese, meglio definibile grazie a queste nuove opere, dimostra di unire all’acuto rincalzo delle ombre, anche una maggiore attenzione formale che ne attesta la matrice cristallina.
Diversi anni fa avevo attribuito proprio allo Spadarino uno straordinario dipinto, che in precedenza veniva assegnato a Carlo Dolci, per via di una impeccabile purezza, che risulta evidente nella rasatura dei panneggi e nella resa formale dei tre ragazzini che lo rendono un capolavoro assoluto.
Mi riferisco ai Tre martiri bambini di Attinghan Park (Foto 18), per i quali nel 2007[6] proposi il nome di Giovanni Antonio Galli nella sincera convinzione che quei volti, forse derivanti da analitici ritratti di un medesimo giovane, fossero strettamente imparentati con i cherubini del pittore senese (foto 19), malgrado il maggiore scandaglio ottico e la più dichiarata compostezza.
Alla luce di quel che si sta delineando intorno alla figura di Alessandro Mattia da Farnese oggi sono spinto a leggere significati differenti nella ieratica pacatezza del dipinto. Spadarino è sempre più morbido e soffuso, polveroso nelle sue sfumature caravaggesche, mentre qui troviamo una misura limpidissima che è tutta sul versante purista.
Quanto al soggetto, straordinariamente riportato nel genere della ritrattistica, è possibile pensare si tratti di una raffigurazione dei tre martiri cristiani Alfio, Filadelfo e Cirino, suppliziati sotto l’imperatore Decio e venerati soprattutto nel meridione d’Italia. La mantellina rossa col fermaglio dorato sulla spalla lascia peraltro immaginare proprio un’epoca di primo cristianesimo.
Di recente ho potuto riferire al Sassoferrato (in parallelo indipendente con Alessandro Agresti) [7], un San Giovanni Battista bambino (Rimini, Alice Fine Art) (Foto 20), che per bellezza e candore trova somiglianze coi Tre Martiri e permette di misurare le distanze tra il maestro e l’allievo, proprio su di un terreno comparabile.
L’intesa espressiva è davvero simile tra i due quadri e questo di Rimini, manifesta uno stile pacato e ‘mediano’ che corrisponde al programma del Salvi, permettendo di configurarlo come un precedente temporale per l’opera conservata ad Attingan Park.
Per giungere a un tale livello di visione Alessandro Mattia partì di certo da esempi come il San Giovannino, ma l’innesto risolutivo dovette trovarlo nel più affilato puntiglio pittorico di Carlo Dolci (Foto 21).
Lo dimostrano anche i ritratti eseguiti per i Chigi che spiccano per un misto di ieraticità e arguzia (Foto 22-23-24-26). Si devono a Francesco Petrucci, l’identificazione e lo studio di questa serie di effigi femminili[8], straordinaria per intensità e introspezione.
L’amico Francesco ha più volte riflettuto sulla definizione di “Prete Farnesiano” riferita al Mattia da un cenno biografico scritto da Emanuele Lucidi nel lontano 1796 [9] che tuttavia non ha ancora trovato precisi riscontri documentari[10].
Solo da poco è invece riemersa la notizia che il Sassoferrato fosse un terziario francescano [11], un dato che si armonizza al suo metodico e imperturbabile impegno artistico, restituendoci uno scenario di finalità morali già presente nel senso stesso delle opere. L’ordine terziario secolare era costituito da laici, che come il Salvi potevano essere anche sposati e con figli, ma che nondimeno sceglievano di vivere la propria fede cristiana in rigorosa conformità col Vangelo, senza affrontare una carriera di sacerdozio, ma compiendo un etico percorso esistenziale.
Forse anche per Alessandro Mattia possiamo immaginare, proprio attraverso la sua poetica, un simile scenario di ‘misticismo professionale’.
Avviandomi all’epilogo del mio primo intervento sull’artista viterbese vorrei proporre l’attribuzione di un ultimo ritratto, eseguito su pietra nera e incastonato entro una lastra sepolcrale (Foto 25-27).
Un volto virile, vivido e pensante, emerge dall’ombra dell’ardesia, è quello del fiorentino Giuseppe Fetti che fu protonotario apostolico e che rivestì cariche prestigiose nel viterbese[12].
La lapide conservata nella collegiata di Valentano (VT), contiene una scritta in latino che ricorda la committenza dei fratelli Silvestro e Vincenzo e reca la data 1688. Se si dimostrasse plausibile la mia proposta, quest’opera aggiungerebbe anche qualche anno in più di vita, rispetto all’attuale ricostruzione biografica dell’artista, ma andrebbe anche a confermare una nota che lo diceva residente nella stessa Valentano[13], nei pressi del lago di Bolsena.
Le sfumature di concretezza e di sensualità che declinano il purismo di Alessandro Mattia da Farnese permettono ora di riconoscerlo entro la ristretta accolita di pittori che in piena epoca barocca scelsero un percorso di classica misura, un tragitto che era insieme spirituale e poetico.
In chiusura è giunta una importante sorpresa che riguarda gli argomenti della ricerca. Sottoponendo in bozze questo mio testo a Francesco Petrucci ho appreso che l’amico studioso era a conoscenza di un altro dipinto, in gran parte simile alla Visitazione ‘torinese’ con la quale ho aperto il saggio.
Si tratta di una bella versione conservata in quella che era la cappellina privata di Pio IX presso Villa Albani ad Anzio (Foto 28).
Minime eppure percepibili sono le varianti di queste due opere, gemelle anche nelle dimensioni, gli occhi più chiusi della Vergine, la mano ribassata del San Giuseppe e le pieghe di qualche panno, per il resto tutta la scena sembra sospesa nel tempo e nello spazio. Solo un nembo di luce in più rischiara la bellissima testa della Madonna nella redazione di Anzio. Anche questa abitudine alla replica e questa aggiunta di piccoli dettagli che divergono, è qualcosa che ribadisce la filiazione dal Salvi.
L’opera vanta un’unica pubblicazione nella quale tuttavia veniva considerata di un anonimo pittore di metà Ottocento[14]. Petrucci invece aveva indipendentemente immaginato un’assegnazione a Alessandro Mattia da Farnese e questa comune percezione mi conforta nella speranza che altri studiosi possano contribuire ad arricchire il catalogo di questo raffinato artista, perché una sua più ricca conoscenza permetterà anche di comprendere meglio come si svolse l’ultima fase della bottega del Sassoferrato.
Achiosa di questi ritrovamenti merita riflettere sul fascino formativo esercitato, entro la propria patria viterbese, da un precedente caravaggesco che riguarda la stessa iconografia. Penso alla bellissima Visitazione di Bartolomeo Cavarozzi (Foto 30) che è tutt’ora collocata nella Cappella Palatina entro il Palazzo dei Priori di Viterbo e che mostra non solo una analoga composizione, ma una vera e propria ascendenza sullo stile di Mattia.
Massimo PULINI Montiano, 2024
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