Alla Biennale di Venezia vince la contaminazione dei linguaggi. Artisti come guide e interpreti.

di Stefania DE VINCENTIS

Rito e Arte alla 57^ Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia

L’ingresso al Padiglione Italia della corrente Biennale d’Arte di Venezia si apre su un mondo passato, archetipico, segnato da un’evidente adozione del rituale e a riferimenti legati alla religione, alla  superstizione, al mito. Le tre opere che si inscenano tra gli ambienti dell’Arsenale di Venezia sembrano suggerire e rivendicare con attualità gli studi di ambito antropologico condotti da Aby Warburg presso le comunità native nord americane. Ricerche determinati nel definire le problematiche proprie della  riflessione warburghiana su storia dell’arte e creazione artistica, temi come «quello della sopravvivenza, o rinascita, delle forme antiche (Nachleben der Antike), quello del rapporto generativo e legittimante che lega il rito -nei suoi aspetti performativi- alle immagini e alla loro tradizione, e infine quello del ruolo della creazione artistica nella definizione della cultura umana».[1]

1. Roberto Cuoghi, Imitazione di Cristo, 2017, Padiglione Italia , Photo credits Marco De Scalzi

L’occhio antropologico, di cui lo storico dell’arte si era munito nell’intento di ridefinire la disciplina storico artistica durante il suo viaggio tra le comunità native americane degli Hopi, è lo stesso adottato dalla curatrice del Padiglione Italia, Cecilia Alemanni.

Il filtro della sopravvivenza dell’arte ritorna nel titolo stesso della mostra veneziana: Viva Arte Viva si presenta come un ritorno alla pratica artistica e alla capacità dell’artista di dialogare con altre discipline, di confrontarsi con la letteratura, con la storia e con l’antropologia per suggerire storie e ampliare la percezione di nuove realtà. Di risalire all’origine dell’opera d’arte e del fare arte. In tal senso è una Biennale colta, che preme verso un ritorno a un umanesimo contemporaneo. A dispetto del titolo, slogan palindromo e vagamente tautologico, la mostra rivela un panorama sulle pratiche artistiche non banale e dai temi tutt’altro che entusiastici. Il concept espositivo si sviluppa, come sempre, lungo i padiglioni principali, il Padiglione Centrale e l’Arsenale, articolandosi in nove padiglioni transnazionali, intesi come capitoli di un libro ideale assecondando un assetto narrativo

Sono gli spazi del Padiglione dello Spazio Comune, del Padiglione della Terra, del Padiglione delle Tradizioni, del Padiglione degli Sciamani, del Padiglione Dionisiaco, del Padiglione dei Colori, del Padiglione del Tempo e dell’Infinito. E ancora, del Padiglione degli Artisti e dei Libri, del Padiglione delle Gioie e delle Paure. La curatrice Christine Macel rivendica il ruolo dell’arte e degli artisti che si distinguono per la capacità di saper tracciare una mappa e suggerire l’indirizzo dell’attuale momento storico caratterizzato da sussulti e incertezze.

4. Roberto Cuoghi, Imitazione di Cristo, 2017, Installation view at Padiglione Italia , Work in progress, Photo credit Stefania De Vincentis

Viva Arte Viva è un’esclamazione di gioia liberatoria a favore della pratica artistica tradizionale, un incoraggiamento un’operazione per gli artisti, con gli artisti e degli artisti, una presa di posizione. I padiglioni nazionali adattano la propria identità per legarsi al momento di coralità suggerito dai padiglioni transnazionali. Citando alcuni esempi, la riflessione artistica verte sulla comunicazione, o sull’impossibilità di comunicare, propria di una generazione, come suggeriscono le pareti di vetro del Padiglione Germania; sulla pratica artigiana e sul legame con la tradizione vernacolare, negli orditi e nei tessuti del Padiglione Cina; sulla narrazione legata al racconto cinematografico, in una rappresentazione che, attraverso un tracciato labirintico, coinvolge lo spettatore in un sospeso futuro apocalittico, ed è il caso del Padiglione Grecia. È una riflessione che si ripiega sulla storia, sulla letteratura e sul folklore legato alla superstizione, al rito, alla magia, come nel Padiglione Italia.

Con la mostra Il mondo magico[2] la curatrice Cecilia Alemanni affida gli ambienti delle Tese delle Vergini all’interno dell’Arsenale alla ricerca di tre artisti impegnati, ciascuno secondo il proprio stile, a confrontarsi con i rituali sciamanici, con la magia del miraggio e con la religione.

Seguendo le parole della curatrice, Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey attaverso riferimenti all’imaginario, al fantastico e al favolistico usano l’arte come strumento attraverso cui abitare il mondo in tutta la ricchezza e molteplicità. L’elemento magico è il mezzo con cui gli artisti hanno scelto di esprimere la loro personale realtà costruendo una cosmologia privata e, con atto demiurgico, creando, rileggendo e interpretando il mondo attraverso la magia e l’immaginazione.

Non si tratta di una deriva nell’irrazionale, bensì di un ponte verso nuovi mondi e nuovi stadi di realtà a favore di una differente esperienza del reale.

7. Giorgio Andreatta Calò, Senza titolo (La fine del mondo), 2017,piano superiore dell’ installazione al Padiglione Italia, Photo credit Roberto Marossi

Ciò che accomuna gli artisti non riguarda una specifica coerenza stilistica, ma il desiderio di creare universi estetici complessi che esulano dalla narrazione documentaristica propria della recente produttività artistica per dedicarsi a un racconto intessuto di miti, di rituali credenze e fiabe.  L’artista è guida, interprete e creatore di mondi possibili.

Il padiglione apre uno spazio profondamente antropologico, abitato dal rapporto dell’uomo col fantastico e con l’immaginario dove la presenza religiosa devia nella superstizione e nella cialtroneria da fattucchiera, rivendicata come bagaglio storico di tradizioni.

8. Adelita Husni-Bey, La Seduta, 2017, Padiglione Italia, Photo credit Roberto Marossi

Il mondo magico messo in scena dagli artisti è volutamente fedele ai testi di Ernesto de Martino, l’antropologo napoletano autore dell’omonimo volume del 1948, in cui egli indaga i rituali, le credenze le superstizioni dell’Italia meridionale del dopoguerra. Nei suoi accurati resoconti, in cui trasporta fedelmente i rituali messi in atto da operatori magici per scacciare il malocchio o propiziare la buona sorte, egli propone la funzione metastorica della magia, e soprattutto del rito, intesa come via tramite cui assimilare e interpretare un avvenimento storico, rileggerlo e interiorizzarlo attraverso codici personali.

«La protezione magica (…) si effettua mercé la istituzione di un piano metastorico che assolve a due distinte funzioni protettive. Innanzitutto tale piano fonda un orizzonte rappresentativo stabile e tradizionalizzato nel quale la varietà rischiosa delle possibili crisi individuali trova il suo momento di arresto, di configurazione, di unificazione e di reintegrazione culturali. Al tempo stesso il piano metastorico funziona come luogo di destorificazione del divenire, cioè come luogo in cui, mediante la iterazione di identici modelli operativi, può essere di volta in volta riassorbita la proliferazione storica dell’accadere, e quivi amputata del suo negativo attuale e possibile».[3]

Allo stesso modo i tre artisti mettono in scena situazioni di crisi che vengono risolte attraverso un processo di trasfigurazione estetica (Cuoghi) ed estatica (Andreotta Calò, Husni-Bey). Lo stesso percorso attraverso gli ambienti del padiglione assomiglia a un viaggio all’interno di una propria personale visione mistica.

9. Anne Imhof, Faust, Padiglione Germania,Viva Arte Viva – La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva, photo credit Francesco Galli, courtesy La Biennale di Venezia

Il rapporto col rito è immediatamente visibile nella performance di Husni-Bey, La seduta, di cui in padiglione rimane una solitaria e amplia installazione video e i calchi in silicone di braccia e mani illuminati al neon, quali resti di un passato (o di un futuro) protesico.

Il video documenta gli esiti di un laboratorio collettivo che l’artista ha tenuto all’interno dei dipartimenti didattici dei musei di Manhattan. I partecipanti, selezionati attraverso un’apposita open call, erano stati sollecitati a riflettere su temi ecologici, sull’ambiente lo sfruttamento delle risorse, il legame con il territorio e con la preservazione dei suoi valori, storici e identitari. I temi erano offerti rappresentati simbolicamente nella forma di tarocchi, opera dell’artista, in una ideale seduta spiritica dove la funzione magica delle carte diventa un espediente pedagogico per stimolare la riflessione dei ragazzi coinvolti.

Il museo viene chiamato all’interno di un ideale cerchio magico come complice di un processo creativo dove l’arte è promotrice di una riflessione sul contesto culturale circostante e il museo stesso è protagonista nella produzione artistica.

L’opera di Adelita Husni-Bey si frappone, nel percorso del padiglione, tra le due installazioni che in modo complementare ed opposto si confrontano con la ripetizione dell’immagine, tra mito e religione.

Roberto Cuoghi, con la sua Imitazione di Cristo, accoglie il visitatore all’interno di un laboratorio, al limite tra il castello del dott. Frankenstein e una fabbrica di bambole, dove l’artista insiste nell’opera di riproduzione  plastica dell’immagine divina, ne segue il processo di creazione materiale, dallo stampo al collaggio con materiale organico, allo stoccaggio ed essiccamento in aree protette, fino al deterioramento del risultante simulacro. Con malcelata ironia, Cuoghi ricrea un’officina per la creazione plastica del divino e spinge la riflessione sul potere magico delle immagine religiosa, sulla sua perseveranza iconografica lungo la storia dell’arte, e infine inscena uno scollamento dell’aura sacra che questa immagine ha emanato lungo i secoli.

10. GRECIA, Laboratory of Dilemmas, La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva, Viva Arte Viva,photo credit Francesco Galli, courtesy La Biennale di Venezia

L’intera operazione accompagna il visitatore attraverso questo processo di dissociazione dove, dal fascino evocativo dei primi calchi e frammenti disposti sulla parete e dalla ricostruzione di un corpo ricreato come per clonazione da una sindone, si viene guidati in un mondo il cui scenario richiama più la fantascienza che la magia: si segue come l’opera dell’artista e l’opera della natura, nelle muffe e negli agenti atmosferici, partecipino al disfacimento della materia, artistica e religiosa. Ma in tale morte materiale è l’immagine stessa che ritrova una nuova vita rinforzata nel suo potere magico. Come in una fabbrica operante a ciclo continuo, così nell’intervento di Cuoghi la materia artistica viene inserita in un meccanismo di creazione, morte e rigenerazione e in questa azione ciclica si compie la demistificazione dell’immagine religiosa in favore di quella artistica. Ma l’opera d’arte, legata all’atto plastico di una produzione seriale, è in bilico tra una condizione fantastica scaturita da una ripetitività quasi rituale, e la mera essenza di un oggetto industriale che ricalca quella di un feticcio kitsch[4].

In questo processo l’opera plastica perde il suo potere apotropaico e il valore magico ritorna nella visione, nella elaborazione mentale. Contrariamente alle teorie di André Breton, secondo cui tutta l’arte può essere considerata magica per il solo fatto di aprire in maniera sciamanica alla percezione di nuove realtà[5], l’operazione di Cuoghi desacralizza il potere magico dell’opera d’arte e lo riconduce al solo atto di elaborazione visiva, concettuale e individuale. L’elemento magico si afferma come caratteristica dello sguardo, non intrinseca all’immagine in sé[6].

11. CINA, Continuum-Generation by Generation, La Biennale di Venezia, Viva Arte Viva, photo credit Italo Rondinella, courtesy La Biennale di Venezia

Il pensiero, legato alla profondità psicologica, all’inconscio è presente anche nell’opera di Giorgio Andreotta Calò, artista veneziano che ripropone più volte nelle sue operazioni l’acqua e il paesaggio lagunare della sua città, dalle istallazioni su vasta scala ai più impercettibili interventi architettonici. Elementi presenti anche nell’opera proposta per il Padiglione Italia, Senza titolo (La fine del mondo). L’imponente installazione si dispone su due piani spaziali che dividono, sull’asse orizzontale, il grande ambiente architettonico.

In una quasi completa oscurità ci si districa tra i ponteggi di una fitta impalcatura, una foresta di tubi su cui si alternano, di nascosto, le sculture in bronzo bianco raffiguranti le grandi conchiglie Pinna Nobilis che amplificano la suggestione di una profondità sottomarina. Come a emergere da un abisso, si viene guidati verso una gradinata dalla cui cima si apre la meraviglia della visione spaziale: una distesa d’acqua sulla cui superficie specchiante il soffitto del padiglione si replica creando uno spazio irreale in cui lo spettatore stesso si ritrova, riflesso attraverso gli specchi che chiudono e, al tempo stesso, dissolvono le pareti del monumentale ambiente.

L’inganno visivo è quello di un miraggio e la congiunzione tra il soffitto reale e la sua immagine riflessa ricorda la chiglia di una grande arca in grado di traghettare il visitatore tra due mondi. Non a caso l’opera si riferisce direttamente agli scritti di de Martino ne La fine del mondo, dove l’antropologo riporta i rituali cerimoniali legati al mito romano del mundus Cereris, la fossa che metteva in comunicazione il mondo inferiore, legato agli inferi e quello superiore, legato alla realtà terrena e alla volta celeste. Una volta all’anno la fossa veniva aperta permettendo di oltrepassare la soglia tra i due mondi.

Affacciato su questo scenario illusionistico, lo spettatore si riconosce nel proprio riflesso pur restando estraneo a se stesso [7]. La convivenza della percezione estetica e del momento estatico porta lo spettatore a sospendersi all’interno dell’opera e, nel proprio straniamento, accelera l’immaginazione, ricostruisce l’aura magica della dimensione artistica rielaborandola nella propria mente e accettandola. L’opera d’arte partecipa alla creazione di quel piano metastorico, proprio della magia, in cui l’individuo assimila e rielabora l’irrazionalità dell’esistente.

«In virtù del piano metastorico come orizzonte della crisi e come luogo di destorificazione del divenire si instaura un regime protetto di esistenza, che per un verso ripara dalle irruzioni caotiche dell’inconscio e per un altro verso getta un velo sull’accadere, consente di stare nella storia come se non ci si stesse»[8].

Le opere qui descritte sono legate dal comune intento di proporre un percorso di destrutturazione e ricomposizione del momento magico, legato all’opera d’arte ma anche al proprio io, al proprio bagaglio di credenze, di mitologie e di paure inconsce, attraverso differenti forme di dissoluzione dell’immagine. Un processo che avviene, sia tramite l’opera continua di creazione, distruzione e rigenerazione della materia, sia attraverso la proiezione dell’immagine riflessa, presente eppure assente, di albertiana memoria, e che la rende infine lo stereotipo di un mondo magico eppure familiare.

di Stefania DE VINCENTIS     Settembre 2017

[1] Salvatore Settis, Verso una storia naturale dell’arte: Aby Warburg davanti a un rinascimento indoamericano (1895), in Aby Warburg, Gli Hopi. La soprawivenza dell’umanità primitiva nella cultura degli indiani dell’America del Nord, Aragno, Torino 2006.
[2]  Cecilia Alemanni (a cura di), Il mondo magico. Padiglione Italia alla 57. Esposizione Internazionale d’Arte -la Biennale di Venezia, Marsilio, Padova 2017, http://www.ilmondomagico2017.it.
[3] Ernesto de Martino, Sud e magia, Feltrinelli, Milano 2000, pp. 96-97.
[4] Ci si riferisce, a tal  proposito, alle definizioni degli oggetti a carattere kitsch  riportate da A. Moles e Eberhard Wahl: «Il kitsch trova in effetti nell’oggetto religioso uno dei suoi più importanti aspetti. Nella misura in cui si serve, per tradizione costante, dell’emozione estetica recuperata a proprio profitto, la religione è spontaneamente spinta, per ragioni di efficacia, a fare appello alla «maggioranza», e perciò ad adattare le norme dell’arte ai desideri latenti di questa maggioranza, nella misura in cui è capace di discernerla» (Abrahm A. Moles, Eberhard Wahl, Kitsch e oggetto, in “Il Verri”, n.3, Bologna 1973, p.20).
[5] André Breton, L’arte magica, Adelphi, Milano 1991.
[6] «Non dipende da un’immagine la capacità di rigenerare a qualche titolo la magia che l’ha generata, poiché il magico è una proprietà dello sguardo, non dell’immagine. È una categoria mentale non estetica(…) È al contrario la radicale subordinazione della plastica alla pratica a definire il momento magico dell’immagine.» Régis Debray, Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente, Il Castoro, Milano 2004, p. 32
[7] «Perché ognuno rispetto a se stesso, in quello spazio di trionfante trasparenza, occupa un punto oscuro, un luogo opaco; permane in una condizione di invisibilità, sconosciuto a se medesimo» Alberto Boatto, Narciso infranto. L’autoritratto moderno da Goya a Warhol, Laterza, Bari 1997.
[8] Ernesto de Martino, Sud e magia, Feltrinelli Milano 2000, pp. 96-97.