“All’ombra delle macchine malate”, l’Immediatismo di Hakìm Bey: “Vogliamo controllare i nostri media, non essere controllati da loro”.

di Marco FIORAMANTI

Anarchia Ontologica e Abisso Culturale

Hakím Bey

ALL’OMBRA DELLE MACCHINE MALATE – immediatismo, per una critica radicale dei media

Shake Edizioni 2023

Non prima di tre giorni fa, il blocco informatico di Windows per un aggiornamento ha creato il panico su tutti i sistemi informatici del mondo, banche in blocco, aerei a terra. E questo ha a che fare in pieno con il libro in questione.

Una critica radicale dei media e di Internet – si legge in IV di copertina – le “macchine malate”, frutto di una magia capitalistica che ci spinge a rinunciare alla dimensione reale delle relazioni umane, dell’arte e in ultima analisi della vita. L’immediatismo (assenza di mediazione, ndr) è una contro-strategia di accesso al piacere attraverso la qualevogliamo controllare i nostri media, non essere controllati da loro’.

Hakim Bey, al secolo Robert Lamborn Wilson (1945-2022), filosofo libertario, pubblicò già nel 1993 per la Shake edizioni un volumetto, T.A.Z. Zone temporaneamente Autonome, che fu un successo editoriale. Rifacendosi alle libere comunità dei pirati aprì la strada al cyberpunk. T.A.Z. inteso come

luogo liberato nel quale la verticalità del potere viene sostituita spontaneamente con reti orizzontali dei rapporti.

Si rifiuta la rivoluzione la quale, una volta sovvertito l’ordine ne ripropone uno nuovo a favore dell’insurrezione. Si rifiuta la “rete” come trasferimento totale di informazione e comunicazione a favore della “tela”, struttura aperta, alternativa, orizzontale di scambio informatico, spazio indipendente nelle maglie del potere temporaneo che appena diventa visibile viene assorbito dal meccanismo del Sistema. La comunità – ormai dipendente da computer, video radio, stampanti che impediscono sempre più il contatto fisico, diretto tra le persone – deve creare e costituire un proprio spazio autonomo, pronto a sciogliersi nel momento in cui impatta con l’ordine per ricostituirlo altrove.

L’organizzazione immediatista è una sorta di strategia di sopravvivenza metropolitana, finalizzata a interrompere un’esistenza impostata sul ciclo lavora / consuma / crepa. La volontà dell’autore è più quella di creare dei co-cospiratori che dei lettori. Lui parte da una esperienza mistica dei Maestri sufi insieme alla costituzione di comunità autarchiche alternative.

Non si tratta di una teoria politica dell’insurrezione, ma la descrizione di alcuni comportamenti sociali di alternità e sottrazione alla società capitalistica.

Inserisco a questo punto un’esperienza personale. Il Movimento Trattista* tentò, all’inizio degli anni Ottanta, di formare una cospirazione di artisti orientata verso un atto/gesto semplice e nello stesso tempo politico mirata a creare uno shock estetico; riteneva che, per citare Hakim Bey, “l’artista non è un tipo speciale di persona, ma ogni persona è un tipo speciale di artista”.

L’operazione ebbe un certo successo prima a Roma, grazie alla mente rivoluzionaria dell’Assessore alla cultura, Renato Nicolini, con happening di pittura a diretto contatto col pubblico a Piazza di Spagna, Piazza Navona, Ponte Sisto e Ponte Sant’Angelo, poi si allargò, con nuovi adepti, nelle principali capitali europee, con sede stanziale a Berlino Ovest. Nel Manifesto Trattista* si ritrovano molti dei concetti dell’Immediatismo beyano:

Ogni cosa delicata e bella finisce come carne per la pubblicità della Mc Death”, quindici minuti dopo tutta la magia è stata succhiata via e l’arte stessa è morta come una cavalletta secca. […] Ci manca l’immediatezza del gioco – la nostra ragione originale per fare arte in primo luogo, ci mancano l’olfatto, il gusto, il tatto, il senso di corpi in movimento.

In alcuni capitoli del libro vengono esposti diversi modelli storici di strutture culturali e sociali, tra cui le organizzazioni segrete cinesi Tong, i potlatch delle popolazioni tribali, il dadaismo, il teatro rituale e altre organizzazioni gerarchiche di stampo libertario. In un’intervista di Jarrett Earnest sulla rivista “The Brooklyn Rail” il nostro autore, lamenta che

ci si sarebbe dovuti accorgere del fatto che Internet era uno sviluppo tecnologico militare-industriale, che ci stavamo dirigendo verso quella che oggi chiamo tecnopatocrazia, “il governo delle macchine malate”. […] Mi considero un poeta, in generale tutto ciò che ho fatto è stato una variazione della poesia. […] Non è colpa se oggi le persone non riescono a concentrarsi per più di due minuti di seguito. È colpa della tecnologia capitalista che vuole che sia così e che sta addestrando i bambini a pensare a questo modo. L’infanzia è stata completamente assorbita dallo schermo.

Un volume sul delirio tecnologico della nostra epoca, sulla solitudine, sull’isolamento, sulla trance dei media, e l’esortazione a dirottare in qualche modo questa realtà in cui l’acme della comunicazione è diventato il fallimento della comunicazione stessa.

Hakim Bey (1945-2022) ha scritto oltre sessanta libri. È uno dei più importanti filosofi libertari del secondo dopoguerra. Ha studiato lettere classiche alla Columbia University. In seguito il suo interesse ha virato verso le religioni orientali e dopo un’iniziale passione verso il buddhismo zen, si è dedicato allo studio del sufismo. Pacifista e obiettore di coscienza durante la guerra del Vietnam, nel 1968 decide di lasciare gli Stati Uniti e comincia a viaggiare per tutto l’Oriente, in particolare in Iran, dove soggiornerà a lungo. Il suo testo più famoso è T.A.Z. [The Temporary Autonomous Zone, Ontological Anarchy, Poetic Terrorism], del 1991 ripubblicato con nuova traduzione nel 2020. I suoi libri in Italia sono tutti pubblicati da Shake: T.A.Z. La Zona autonoma temporanea (1992, 2020); Le repubbliche dei pirati (1995, 2014); Strani attrattori. Antologia di fantascienza radicale (2008, 2022); Millennium (1997); Il Giardino dei cannibali (2009); Angeli, Illuminazioni, racconti e immagini sui messaggeri degli dei (2017); L’antico ricettario spirituale dell’hashish (2006, 2023).

Marco FIORAMANTI   Roma  21 Luglio 2024

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*Manifesto Trattista (Roma, 4.1.1982)

Nel “Tratto” noi esprimiamo il gesto più semplice, alla portata di tutti, primitivo, perciò antintellettuale. La rozzezza e l’espressività esasperata indicano su quali punti si arrocca il nostro dialogo col mondo insonnolito dell’arte e con la società. Aborriamo qualsiasi forma di gerarchia ed è perciò difficile pensare a degli adepti seri e coscienziosi, ricercatori coerenti e raffinati.  Tale è il nostro linguaggio: arcaico, così, in modo semplice, crediamo di esaltare i colori. Nelle opere non ha alcun significato la competizione, la loro struttura compositiva si rivela estremamente popolare ed esaltante. Il “Tratto” è il nostro rifiuto ad affiancarci al mondo della cultura ufficiale. È l’antidoto alla ubriacatura del pubblico comune, che è vittima della sottocultura alimentata dalla mancanza di informazione e dall’ostruzionismo culturale perpetrato dai burocrati dell’arte per accumulare potere, o soprattutto per la loro incapacità di riallacciare le teorie dell’arte al mondo del lavoro e alla vita sociale, facendo degli artisti, che a loro si assoggettano, degli antisociali nella vita, e del pubblico una massa di emarginati nell’arte. Questa è l’evoluzione dialettica che domina tutta la storiografia dell’arte, che ricorda lo sviluppo degli eventi umani, dove le nuove teorie vengono approvate e legalizzate solo quando, svuotate del loro contenuto innovativo, restano soltanto forma, o entrano nel costume non più come novità, messaggio, spinta, ma come bisogno elementare insopprimibile. Con il “Tratto” semplice, immediato, “privo di cultura”, vogliamo cancellare “l’arte colta e sofisticata, il professionista geniale, il Maestro”, e con lui cancellare quell’aura magica e irreale di cui è circondato. Vogliamo che il Trattismo divenga l’arte di chi non ha mai compreso l’arte, divenga l’arte degli emarginati, dei vagabondi, degli alienati, e di tutti quelli ai quali è stato insegnato che non potevano dipingere perché non sapevano disegnare, perché non erano abbastanza acculturati da poter fare quello che un’élite scaltra professa ormai da un secolo. Divenga l’arte di tutti questi. Vogliamo che chi ha rapinato il gusto lo restituisca alla gente, e soprattutto a quella porzione d’umanità emarginata, più fantasiosa e feconda, che ha dato in passato uomini della mole di Caravaggio, Vermeer, van Gogh, Gauguin, Modigliani, Pollock, che i critici loro contemporanei hanno ritenuto opportuno ignorare. Vogliamo che l’arte, lo spettacolo, la satira, la commedia, il costume, coincidano in un unico lacerante grido di rivolta, nel quale la miseria affondi le proprie radici e trovi la propria espressività in un rituale primitivo e inconscio, che sconfina nella magia. Nasce così l’amore per ciò che è primitivo, pagano, nomade. Nasce così la nostra solidarietà per i gruppi umani, per le società primitive, di cui la moderna tecnologia ha sancito la degradazione e l’estinzione. Prima di noi sono stati Trattisti: gli Indiani d’America, i popoli Africani, gli aborigeni Australiani, i popoli della Protostoria Andina.
Firmatari: Claudio Bianchi, Luciano Cialente, Marco Fioramanti, Adalberto Magrini, Ubaldo Marciani, Sergio Salvatori (pittori); Marco Luci (video-maker)