di Elisabetta LANDI
“Abbiamo disimparato la lingua dei geroglifici. E’ andata perduta la sua chiave. Non capiamo più niente” (Hugo Ball) (1).
Fin dall’antichità, da oriente a occidente il linguaggio dei simboli ha accompagnato come una rete “sommersa” il percorso di una tradizione nella quale le civiltà del passato si sono riconosciute. E tuttavia accade, qualche volta, che il “sacro perduto” affiori in superficie, e riprenda il suo dialogo confrontandoci con la Storia.
Il “sacro”, in questo caso, è rappresentato dal fregio delle allegorie ermetiche affrescate a metà ‘500 a Bologna, in palazzo Leoni (ill.1), e rimaste coperte fino al 2008 sotto uno strato di intonaco (2).
Un ritrovamento inedito, e una testimonianza formidabile della persistenza di quell’immaginario utilizzato come un linguaggio riservato a pochi.
Non si intende, qui, ricollegare in maniera diretta quel ciclo pittorico nascosto al pensiero ellenistico o tentare di ravvisarne una “continuità”. Si vuole, semplicemente, sottolineare la vitalità del Trismegisto a date inoltrate, e più che mai presso le cerchie degli umanisti. Fonte di ispirazione per queste simbologie occultate, infatti, furono i Geroglifici di Piero Valeriano (3), opera monumentale edita nel 1556 ma prodotta nel solco della filosofia alessandrina che si ricollegava all’Orapollo (dal nome del suo autore) che nel V secolo aveva raccolto la sapienza di Ermete: originariamente in copto, poi in una versione greca (4). Lo aveva scovato nel 1419 ad Andros, un’isola dell’Egeo, un monaco fiorentino, Buondelmonti, geografo e studioso dell’antico; tre anni dopo era rientrato in patria, e lo aveva depositato sullo scrittoio di Cosimo I de Medici: Cosimo il Vecchio, il “padre” dell’Accademia neoplatonica di Careggi.
Il carattere sincretico dei geroglifici, eloquenti come degli “ideogrammi”, affascinò i cultori dell’antico che intravedevano in quel codice un linguaggio allegorico con il quale comunicare con figure immediate quanto significative: gli “emblemi”, appunto, all’origine di un genere letterario fiorito nel XVI secolo e anticipato, ma di poco, dalle suggestioni ermetiche dell’Hypnerotomachia Poliphili (1499). Quell’idioma, creato dal “Tre volte grande”, avrebbe permesso di scoprire il significato ultimo del creato, e di afferrarne l’essenza divina.
“Le sacre lettere in uso tra gli Egizi venivano dette geroglifici ed erano immagini tratte dalle cose della natura o da parti di essa. Servendosi di tali scritture e voci gli Egiziani erano soliti impadronirsi con meravigliosa abilità della lingua degli dei” (Giordano Bruno).
Si trattava, per certi aspetti, di un atto di teurgia “magica” -e al filosofo costò caro- ma è vero che quelle figure che si facevano portatrici di un insegnamento più o meno coperto rispecchiavano una “matrice” comune, una Sapienza divina presente nella religione egizia, nel classicismo pagano e nel cristianesimo.
L’interesse per un linguaggio universale in grado di veicolare un messaggio (rilanciato dall’ut pictura poësis del rinascimento) suscitò interesse, e specialmente dopo la caduta di Costantinopoli (1453), la seconda Roma, quando si temeva per l’occidente, la “visione allargata” sembrò il tramite per una “pax filosofica” vista come un approccio “caldo” (Ebgi), operativo e non nostalgico, a un patrimonio comune nel quale ricercare elementi condivisi.
La porta dell’ermetismo di derivazione ellenistica fu la Toscana. Nel 1439 il Concilio di Firenze che aveva inteso ricomporre lo scisma tra le due Chiese aveva offerto alla città dei Medici un’occasione formidabile per guardare a oriente, e ottenere il primato per la diffusione del neoplatonismo grazie all’arrivo dei trattati ellenici al seguito dei filosofi bizantini: un impulso allo studio degli autori greci ma soprattutto un confronto tra i sapienti d’oriente e d’occidente (Gemisto Pletone e Marsilio Ficino raffigurati da Benozzo Gozzoli nel Corteo dei Magi affrescato in palazzo Medici Riccardi vent’anni dopo?).
Firenze, nel progetto di Cosimo, sarebbe diventata il centro del platonismo, sintesi del pensiero degli antichi e non inconciliabile con il cristianesimo. La scommessa era individuare quella fonte universale dalla quale fossero discese le dottrine di Platone come di Mosè, evitando le derive pagane e rinnovando, anzi, la religione cristiana che nella Theologia platonica di Marsilio Ficino era messa a “confronto” con il mondo greco.
Si cominciò, così, a studiare le religioni degli altri, e mentre Pico si interessava alla cabbala, Ficino traduceva Orfeo, Zoroastro e il Corpus Hermeticum che nel 1463 era giunto a Firenze da Costantinopoli dove era finito tra le mani di Leonardo da Pistoia, un monaco che Cosimo I aveva sguinzagliato alla ricerca di codici in lingua greca.
Ben presto il pensiero del Trismegisto, centrale per la filosofia ermetica confluita nel neoplatonismo, fu integrato nell’immaginario cristiano, e perciò, non a caso, quando si decise il programma iconografico per la pavimentazione del duomo di Siena si pensò di raffigurare lui, il sacerdote di Thot e l’inventore della scrittura che era contemporaneo di Mosè, introducendolo come capostipite di ogni conoscenza o, in altri termini, come una “sintesi” della sapienza degli antichi. Non ci stupisca, perciò, la sua presenza (1488) nella cattedrale dedicata all’Assunta (senza contare il quadrato magico del SATOR scolpito sul fianco dell’edificio). “hermis mercurius trismegistus contemporaneus moysi”, si legge ai piedi di Ermete che il mosaico rappresenta all’ingresso, nell’atto di offrire un libro a due figure deferenti utilizzate come allegorie di oriente e di occidente, mentre un’iscrizione onora il “sanctum verbum” profetizzato dal Pimander.
Non c’è dubbio che la tradizione ellenistico alessandrina (nota agli ordini cavallereschi) fiorisse ancora alla metà del XVI secolo con una vitalità prolungata, testimoniando i valori del neoplatonismo attraverso la lingua ermetica. Lo si scorge nelle allegorie di palazzo Leoni: una “memoria” in atto, in grado di dialogare nel ventunesimo secolo con chi abbia cuore -e conoscenza- per ascoltare. Non a caso, sulla porta d’ingresso al Salone degli Emblemi, o dei Simboli, campeggia entro un medaglione il motto «DISCORDIA CONCORS» (ill.2) rilanciato dalla Theologia platonica di Marsilio Ficino: un “ossimoro” (apparente) alla base dell’armonia delle sfere e della riflessione musicale nel solco del sincretismo platonico pitagorico, e allusivo per giunta alla «coincidentia oppositorum» di Nicola Cusano; o se si preferisce, all’incontro tra finito e infinito e alla riunificazione degli opposti, meta di ogni iniziato.
Non sappiamo quando un colpo di biacca presumesse di ammutolire quelle pitture, facendo forse anche altri danni, ma è certo che quei simboli ispirati ai Geroglifici e concepiti come un “visibile parlare” rappresentassero gli argomenti delle conversazioni tra i filosofi che si riunivano in quella sala, un luogo significativo -ma a lungo dimenticato- in una città di umanisti. Bologna, sede della più antica università del mondo dove nel 1520 fu inaugurata una cattedra di greco e di caldeo (probabilmente la prima), fu una piazza ricettiva all’Orapollo. Qui il Fasanini l’aveva tradotto nel 1517 dal greco al latino in un’edizione integrata da Giovanni Battista Pio, il maestro di Achille Bocchi. Personalità chiave nella filosofia ermetica bolognese (e non solo), Bocchi ospitava nel suo palazzo (a pochi passi da casa Leoni) l’Accademia Hermathena: Hermes e Athena, appunto, scolpiti sulla facciata della sua dimora proprio sopra lo zoccolo sul quale scorre un’iscrizione in ebraico. Qui si distillavano gli arcani del pensiero di Ermete e si studiava la cabbala, e mentre i filosofi si confrontavano con gli algebristi sulla sapienza egizia, l’ermetismo penetrava nei circoli più esclusivi attraverso le Simboliche Questioni, il trattato sperimentale prodotto in quella cerchia nel 1555 (6).
Come ho dimostrato altrove (7), correva un dialogo tra il Bocchi e i Leoni, e certamente esisteva una sodalitas con Vincenzo, il committente del ciclo emblematico ritrovato: di fede neoplatonica, costui era il preside dell’Accademia degli Ardenti che dal 1555 si qualificava come l’istituzione più eletta per lo studio, o per il culto, delle humanae litterae. Bologna era una roccaforte dell’aristotelismo per via dell’università, e tuttavia rappresentava uno snodo importante per un eclettismo
“incline a interessi esoterici; attraversato da passioni riformiste, evangeliche; curioso dei reperti archeologici e della produzione letteraria del tardo impero”
come nella definizione, felicissima, di Vera Fortunati (8).
Nella città della legazione dove, in sostanza, non si accesero roghi (a differenza della Romagna), la riflessione filosofica era in fermento. Si tentava un’alternativa alla riforma che funzionasse come una mediazione, e lo si faceva con un programma che attingeva alle civiltà antiche per definire un’identità nuova. Era, insomma, una “stoà”, una proposta di pensiero basata sull’integrazione tra un sapere attinto alle civiltà greco latine e a quelle giudaico orientali; non una “riforma” in senso luterano, è ovvio, ma una cosa diversa, di élite, e molto raffinata.
Così, in fondo, era accaduto nel XV secolo, in un momento nel quale occorrevano delle proposte.
Da un palazzo all’altro, da una biblioteca all’altra i filosofi dialogavano, e lo facevano utilizzando gli affreschi come “manifesti” del pensiero. I dipinti murali, un linguaggio che presupponeva una lettura allegorica prima che letteraria, erano uno “specchio”, il riflesso di un “progetto” in grado di segnare una svolta, e su questa base gli eruditi si confrontavano su un tema condiviso che era la ricerca della Verità, da raggiungere grazie alla Conoscenza. “Sic veritas elicitur”, “Così la Verità viene prescelta”, si legge sul camino Torfanini (9). Per far questo, e per creare “un mondo nuovo” (Ballardini), era necessaria l’unità tra i filosofi, accomunati da una Sapienza unica, e per certi aspetti iniziatica, che nei trattati, come nella pittura, si esprimeva tramite l’“allegoria”, vale a dire una “convenzione figurativa” accessibile a chi avesse gli strumenti per interpretarla.
Ad esempio, ogni volta che si voleva alludere al pensiero sincretico che armonizzava oriente e occidente si faceva ricorso all’immagine dei due saggi, panneggiati l’uno all’occidentale e l’altro in vesti esotiche: nei mosaici di Siena, nel camino Torfanini (Ballardini) e persino negli affreschi Leoni: qui, infatti, due “filosofi” (ill.3), uno con un copricapo orientale che ricorda la cultura ermetica dell’Hermathena (10), sembrano conversare tra loro in un riquadro del fregio che scorre sopra gli emblemi, raffigurando episodi dell’Eneide: nel salone il libro II del poema che ci racconta La caduta di Troia, e nell’antisala il libro IV con la vicenda di Enea e Didone.
L’opera di Virgilio era tra i soggetti preferiti per la decorazione. Lungo i fregi squadernati sotto i soffitti come “libri dipinti” (in palazzo Poggi, in palazzo Leoni) le scene si inseguono come in un cinerama, onorando, con le historie romane, la Città Eterna che adesso era la città dei papi. L’epopea del troiano che avrebbe dato origine alla dinastia italica celebrava una dipendenza politica, ma costituiva, prima di tutto, un “codice morale”. Al di là della fortuna letteraria, infatti, il mito di Enea alludeva all’“epopea” del filosofo in cerca della Verità (11), mentre la fuga dalla città assediata e il passaggio per tante peripezie indicava il percorso attraverso le età della vita e il raggiungimento della Sapienza. Per gli stoici era la perfezione, e l’itinerario auspicato dal neoplatonismo. Per questo, Bocchi aveva celebrato Enea nel simbolo IX del suo trattato come un eroe virtuoso, la traduzione “visiva” dell’idea portante del De hominis dignitate di Pico: la dignità conquistata.
Ma veniamo agli emblemi, rinviando ai miei contributi riportati in bibliografia chi volesse saperne di più sui fregi dell’Eneide (12): opera di Lorenzo Sabatini (13), il maestro bolognese che nel 1555 ultimò il cantiere della sala maggiore progettata inizialmente da Nicolò dell’Abate.
Entrati nel salone, ci immergiamo nelle pagine del poema raffigurate nei riquadri del fregio che si agganciano in successione, come arazzi sospesi. Più in basso, sul registro inferiore, ecco affiorare i simboli ritrovati, pochi, ahinoi, tra i tanti periti a causa di una “caccia alle streghe” sciagurata. Se avessimo potuto leggere il complesso nella sua integrità, certamente avremmo ricostruito il messaggio di quelle allegorie che rivelano, nonostante le numerose lacune, un percorso alchemico, e un viatico per plasmare l’anima attraverso il sapere. L’insieme si presenta come una “palestra” di un pensiero ispirato al neoplatonismo Se i fatti dell’Eneide educavano gli animi rappresentando il poema di Virgilio come in una versione dal latino, ma resa in pittura, nel registro inferiore gli emblemi avevano il compito di commentarne l’insegnamento “filosofico”. Fortunatamente, tra i simboli superstiti si è salvata la “chiave” delle allegorie che ci consente di orientarci in quel labirinto di figure. Per scoprirla bisogna partire da un punto prestabilito, come in una caccia al tesoro. Quel luogo “magico” si trova all’ingresso, sotto il «DISCORDIA CONCORS» di Marsilio Ficino (vedi ill. 2). Appena entrati, infatti, il nostro sguardo cade sulla parete di fronte e lì, come avrebbe fatto un ospite dei Leoni, lavorando d’intuizione afferriamo il centro del programma visivo, posto in una collocazione strategica (come spesso accadeva). Il suggerimento nascosto (ma non troppo) si trova nel medaglione che ci troviamo davanti, commentato dall’iscrizione “[IM]PERAT SAPIENTIA VIRES”, e cioè: “la saggezza domina sulle forze”. Avanziamo nella stanza, e guardiamo con attenzione. Nel corpo dell’emblema, indizio della derivazione dai Geroglifici del Valeriano ispirati a Orapollo (ill. 4-5), scorgiamo una civetta appollaiata sulla testa di un leone. Immagine bizzarra, in apparenza, ma densa di significato. Il predominio del rapace, infatti, lo strigiforme notturno dalla vista acuta che vede nell’oscurità, e che è associato ad Athena, dea della Sapienza “partorita” dal cervello di Giove, proclama che è la saggezza che domina il leone, da intendersi, in questo caso, non come il simbolo solare degli egizi (vedi il Pernety) ma nel senso della fiera diabolica che “cerca chi divorare” nella prima lettera di Pietro ai Romani (Rm, 1, 5 “Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente si aggira cercando chi divorare…”). L’allegoria, insomma, funzionale alla didattica degli Ardenti, suggeriva che attraverso le humanae litterae l’accademico (o l’aspirante iniziato) poteva accedere all’elevazione e controllare gli istinti, ma riconduce pur sempre alla morale cristiana che nel pensiero dei filosofi si intrecciava con il pensiero greco e la tradizione stoica.
Così, con singolare sincretismo, il messaggio edificante dei fregi si affidava all’autorità dei simboli, una lingua “sacra” motivata dalla necessità di affermare un codice fatto di immagini e di parole che a Bologna si trova fino a date inoltrate nel “gabinetto alchemico” di palazzo Fava (1584), dipinto da Annibale Carracci con un gusto per alcuni aspetti ormai “archeologico”, o in qualche modo “storicizzato” (14).
In questi “laboratori del pensiero” i filosofi si educavano all’”autodeterminazione” auspicata da Pico, addestrandosi alla riflessione “silenziosa” espressa nel trattato del Bocchi dall’Hermes Arpocraticum, ovvero l’Hermes “alchemico” che portando l’indice allelabbra raccomanda il tacere da intendersi, non da ultimo, come allusione a un nicodemismo prudente, consigliabile negli anni della controriforma (15).
Le decorazioni simboliche erano riservate agli ambienti di studio. Questa tipologia piaceva agli accademici che sapevano di testi antichi, e perciò, non di rado, i dipinti murali si ispiravano ai libri allineati nelle biblioteche. Tra gli affreschi e l’uso delle stanze esisteva un legame. La libreria di Vincenzo, dove si trovava l’opera del Valeriano (16), era allestita sicuramente nel salone degli emblemi. Lo si deduce dalla presenza di immagini che si ritrovano anche in altri ambienti “sapienziali”, e specialmente in un’altra biblioteca famosa, quella del convento di San Giovanni Evangelista a Parma. Anche in quel complesso pittorico, infatti, opera di Ercole Pio e di Nicolò Paganino (1574) (17), fa la sua comparsa il motivo della civetta che sottomette il leone e il suo trionfo, lì, è commentato da un’iscrizione in siriaco antico, nientemeno, o in altre parole l’aramaico con il quale, evidentemente, si cimentavano i monaci benedettini.
Non ci stupisca un’iconografia del genere nel repertorio ornamentale di un ordine religioso (che doveva vantare eruditi di levatura straordinaria). All’epoca, il geroglifico era un codice, una modalità universale apprezzata come il “più autorizzante modello comunicativo” trasmesso da figure icastiche che veicolavano un contenuto comprensibile; non accessibile a tutti, ovviamente, ma soltanto a chi fosse stato introdotto a quella specifica cultura (18). «…i geroglifici…spiegavano simbolicamente i più nobili concetti della mente…Questo dimostrano chiaramente i scritti di Mercurio Trismegisto…il parlare o scrivere ieroglificamente non è altro che misteriosamente e simbolicamente spiegare la natura delle divine et umane cose…». Così il Garzoni (19). E il Taegio: «…è cosa naturale, & propria delle imprese, spiegare altissimi concetti con brevissime parole e poche figure…Quelle…che usavano gli Egitij…erano parimente imprese, le quali chiamavano Ieroglifi…» (20).
Leoni, cultore degli “emblemi”, conosceva i segreti del “dipinger sale, camere, logge et altre cose» (Alciati) e contava su una libreria fornita. Lungo le pareti del suo salone sfilavano gli scaffali e sulle scansie si allineavano i tomi elencati dall’Inventario che ho reperito nell’archivio della famiglia (21): nell’elenco c’erano le profezie di Gioacchino da Fiore, le opere di Calvino, gli influssi planetari del Regio, la magia naturale del Mazzolini e, soprattutto, la letteratura d’imprese: i Geroglifici, appunto, il Ragionamento di Mons. Paolo Giovio sopra i motti, e disegni d’arme (1556) e la Piazza universale di Tommaso Garzoni, centocinquanta discorsi dedicati a tutte le professioni del mondo. L’attività del pittore di emblemi era diventata un mestiere. «Assegnano costoro c’han trattato con diligenza la materia delle imprese…che impresa non sia altro che una composizione…[che]…può comporre una istoria, come si scorge in quello della dea Iside…» (22).
L’Egitto, veicolato dall’ermetismo, piaceva non soltanto all’Accademia Hermathena, ma anche a Vincenzo Leoni. Nella sala minore del palazzo, infatti, dove il Samacchini raffigurò il libro IV dell’Eneide (23), se ne scorge un’eco nel riquadro con La preghiera di Re Giarba al dio egizio Giove Ammone (ill. 6), una scena (prossima al Bonasone) caratterizzata da un paesaggio esotico rievocato con l’obelisco in forma di piramide come lo si vede nelle Simboliche Questioni (symb. XLVIII) (24).
Quel tipo di linguaggio fu determinante per la “rivoluzione” in atto a Bologna, e aveva un punto di forza nell’allegoria. Beroaldo ne aveva riconosciuto le origini nel commento all’Asino d’oro di Apuleio, ispirato al culto di Iside, e su questa linea orfico sapienziale si erano posizionati i filosofi bolognesi
E in effetti, attraverso la fabula che volgeva l’elemento figurativo a favore della filosofia, tornava in luce una sapienza antica compatibile con una veritas tollerante; anche nella città dello Studio, dove il mito egizio si era imposto attraverso l’insegnamento del Fasanini. «Cabbala, geroglifica, allegoria, simbologia alchemica e immaginario mitologico» (Angelini) costituivano un alfabeto “universale”. Nel rinascimento autunnale, l’Egitto si era rivestito di significati “osservanti”, benché coperti. Nell’idioma dei simboli, nonostante le immagini “pagane” ogni allegoria rivestiva un senso morale, rispettoso della religiosità corrente.
Così, il luogo dato alla lettura, in questo caso la biblioteca, si trasformava in un “sito” dello Spirito, e diventava uno “spazio mentale” dove si svolgevano le gare tra gli eruditi, svaghi dell’“enigmatica” a livelli altissimi intesi a un’edificazione strutturata come un gioco intellettuale.
Oltre che a palazzo Leoni, piace immaginare, intrattenimenti simili avvenivano nella residenza suburbana di Ulisse Aldrovandi, rasa al suolo a metà Ottocento per fare posto alla ferrovia per Ancona. Nella villa dello scienziato i filosofi si riunivano mentre in città incombeva la calura estiva e forse, gli occhi al soffitto, dissertavano sulle allegorie rappresentate dal ciclo pittorico perduto eseguito da Mario Sabatini (25). Per la presenza di elementi figurativi ispirati alla natura e introdotti come emblemi, in particolare animali (anche qui il leone e la civetta), il complesso era un theatrum mundi, un repertorio della “tradizione” ma riscritto in chiave cristiana, com’era avvenuto nella domus di Vincenzo con quel riferimento neanche troppo coperto a San Pietro, e alla prima lettera ai romani. Con le allegorie filosofiche del palazzo poteva esserci qualche affinità. Anche per la paternità artistica. E’ possibile, infatti, che l’autore delle decorazioni della villa dell’Aldrovandi, Mario, il figlio di Lorenzo Sabatini, fosse intervenuto nel cantiere pittorico Leoni dove aveva lavorato suo padre.
Purtroppo, demolita la villa dell’Aldrovandi e scialbati in gran parte gli emblemi di palazzo Leoni, riesce difficile, oggi, stabilire un collegamento che però ci poteva essere: anche nel ritiro dello scienziato, infatti, la decorazione perduta celebrava la concordia tra gli opposti, proclamando il motivo stoico del rifiuto dei beni della fortuna che si ritrova nel salone di Vincenzo. Qui, infatti, nell’ultimo nella successione dei simboli sopravvissuti alla damnatio dell’intonaco, affiorano le figure del leone e della lepre cui il poeta Marziale (I; ep. 6) (26) aveva affidato il compito di rappresentare per via allegorica il concetto del ritorno dell’Anima Mundi verso l’origine. La presenza di questo elemento ci autorizza, pertanto, a supporre un insegnamento neoplatonico culminante con l’immagine dell’iniziato che “flexus in se ipsum”, e pacificato dal raggiungimento della “concordia” tra gli opposti, conquista infine la saggezza, e sale a Dio (o a gli dei).
In altri termini, il palazzo di via Marsala, era una “sede della sapienza”, un luogo dove la letteratura, la filosofia, la storia, l’algebra e la scienza, le arti figurative e la simbologia si integravano e si combinavano con un linguaggio eterodosso: un’opera dello spirito, trasversale al tempo e allo spazio.
Così, passando attraverso i greci e gli egizi, i sapienti della città lasciarono una testimonianza di sé e della sodalitas che li univa in quelle sale dense di simboli, specchi di una conoscenza antichissima e per dirla con Eugenio Garin espressioni concrete della civiltà che trasformò “in templi” i “laboratori” del pensiero, e i dotti “in sacerdoti”.
NOTE
1)Ronchey 2017, p. 183.
2)Di proprietà del Reale Collegio di Spagna dal 1876, palazzo Leoni è sede dal 2011 della Biblioteca regionale intitolata a Giuseppe Guglielmi e dal 2021 Mediateca Guglielmi del Servizio Patrimonio RER. Per la storia del palazzo e l’iconografia e la paternità artistica degli affreschi si rinvia alle pubblicazioni precedenti sul palazzo: Landi, “Le stanze della memoria”…, 2011, pp. 119-160; Landi 2018 e 2021, passim; Balzarotti 2021, pp. 11-18; Landi 2022a, pp. 49-60.
3)Valeriano 1556; Sbordone 1940; Savarese 1980, pp. 11 e sgg.; Landi, Il ciclo pittorico degli emblemi di Palazzo Leoni…, 2011, pp. 147-160; Landi, Ispirato a Ermete…, 2021, pp. 69-78.
4)Rigoni, Zanco 2018.
5)Landi, Il ciclo pittorico degli emblemi di Palazzo Leoni…, 2011, p. 157; Ead., Ispirato a Ermete…, cit., 2021, pp. 69-78, Ead 2022b, pp. 223-232.
6) Angelini, 2003; Ead. 2006, pp. 9-19.
7) Landi, Il palazzo e i committenti, 2021, p. 18.
8) Fortunati, 2000, p. 16.
9)Bianchi 2005, pp. 125-131 e Ballardini in questo stesso volume.
10) Landi 2018, pp. 84-85.
11) Landi, L’Eneide dipinta di palazzo Leoni…, 2021, pp. 21-24 (sul mito di fondazione raffigurato nei fregi).
12)Landi 2011, 2021, 2022 a e b.
13)Landi 2019; Cavicchioli 2020, Balzarotti 2021.
14)Ringrazio Vincenzo Cioni per il suggerimento. Negro, Roio 2021, passim; Cioni 2011, pp. 139-156.
15)Mattei, 2013, pp. 161-170.
16) L’inventario della biblioteca Leoni è stato da me individuato nell’archivio della famiglia conservato presso l’Archivio di Stato di Bologna. ASB, Archivio Leoni, Miscellanea, 9/1150, L.9, n.8, c. 1r, Diverse note e Fogli delli Stati di Casa Leoni, cit. come “Iero[g]lifici di Gio. Beria”; Landi, 2011, pp.125-127; Landi, 2021, pp. 13-14.
17)Madonna 1979, pp. 177-194; Landi 2021, p. 14.
18)Venturi, Farnetti 2004, II, p. 517.
19)Garzoni, 1585; Giombi, 2001, pp. 243-261.
20)Taegio, 1571, cc. 3v-5r.
21)Archivio Leoni, Miscellanea, 9/1150, cit. nota 8.
22)Garzoni 1585, IX Discorso; Landi 2021, p. 72, nota 151.
23)Per l’attribuzione degli affreschi dell’antisala di palazzo Leoni a Orazio Samacchini cfr. Winkelmann 1986, pp. 632, 636 e Muzzioli 2011, p. 185.
24)Landi 2021, pp. 46-47.
25)Fanti 1966, pp. 83-124; Landi 2021, pp. 73-74. Sulla villa perduta dell’Aldrovandi cfr. Bolzoni, 1992, pp. 336-348.
26)Mart., Ep., 1, 6: «LUDIT IN ORE LEPUS»; Landi 2011, p. 160; Landi 2021, p. 77.
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