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Alvar Gonzalez Palacios (Santiago de Cuba, 1936) è uno tra i più grandi studiosi che la storia dell’arte internazionale abbia avuto. La sua vicenda biografica è stata abbastanza travagliata dal punto di vista individuale, ma assolutamente straordinaria sul versante culturale e artistico. E’ impossibile in questa sede dar conto delle innumerevoli inziative cui é stato partecipe e protagonista tra convegni, conferenze, esposizioni, scoperte in tutte le parti del mondo dove pure ha conosciuto ed intrecciato amicizie con i maggiori studiosi ed intellettuali. Numerosissime le sue pubblicazioni, di cui possiamo citare almeno dopo Il tempio del gusto. Le arti decorative in Italia fra classicismi e barocco (1984 e 2000), Tutto il sapere del mondo (2005), Il Serraglio di pietra. La sala degli animali in Vaticano (2013), Persona e maschera. Collezionisti antiquari storici dell’arte (2015) e da ultimo I Valadier (2019), . E’ stato insignito dallo stato francese della prestigiosa Legion d’Onore nel 1997; un suo cruccio è proprio quello di non aver ricevuto dall’Italia, il paese che ama e in cui ha scelto di vivere da lungo tempo, alcun riconoscimento.
–Professore, inizierei chiedendole un’opinione sul tema delle attribuzioni nella storia dell’arte, visto che spesso danno luogo a discussioni e polemiche.
R: Le attribuzioni sono indispensabili per il progresso del mestiere. Se ci si dovesse basare solo sui documenti per definire un’opera d’arte non si risolverebbe alcun problema. Per trovare il nome di chi possa essere l’autore di un’opera d’arte occorre innanzitutto basarsi sulle caratteristiche stilistiche che possono svelare la sua epoca e il suo stile.
E’ ovvio che tutti amerebbero avere un documento probante ma ciò non è quasi mai immediato. Le faccio un solo esempio: prima della fine dell’Ottocento uno dei più grandi storici dell’arte, Bernard Berenson, attribuì alcune pitture risalenti sicuramente al XV secolo ad un fantomatico ‘Amico di Sandro’ vale a dire ad un artista in cui ravvisava caratteristiche precise per epoca e stile ma di cui ignorava il nome. Come spesso accade ancora oggi, ci fu chi sostenne le tesi di Berenson, chi le contestò e così via, fintanto che questa personalità si è svelata, ed oggi è assolutamente accettata, come quella di Filippino Lippi allievo di Sandro Botticelli. Solo in un secondo momento si dimostrò che Berenson aveva ragione, ma se non avesse lanciato le sue osservazioni forse ancora oggi staremmo a discutere del caso. Mi piace ricordare a questo proposito una frase di Sciascia che è servita anche a me nel corso dei miei studi, “i documenti aiutano a rendere probante l’immaginazione”.
-Restando nell’argomento delle attribuzioni ricordo ad esempio che a suo tempo lei fu in grado di identificare la Danzatrice con i cembali ora a Berlino, quando era conservata all’hôtel de Masseran, a Parigi, attribuendola ad Antonio Canova -un’attribuzione in seguito accettata da tutti.
R: Il caso cui lei si riferisce ha una storia non breve ma se vuole gliela racconto. Mi chiesero un parere su questo marmo opera che conoscevo bene perché apparteneva ad amici parigini ed io non avevo mai avuto dubbi su chi fosse l’autore, tanto che ne avevo consigliato l’acquisto alla Galleria Colnaghi, per la quale in quel periodo facevo delle consulenze. La galleria però voleva da me la sicurezza che la scultura fosse di Canova. Sicuro ? Di sicuro so solo che morirò, risposi, ma per il resto il mio parere è saldo. Le pratiche di esportazione con la Francia iniziarono e il fatto che fosse immediatamente concesso l’espatrio anziché rassicurare gli acquirenti li allarmò. Li tranquillizzai facendo presente che la Francia possedeva già quattro sculture importanti di Canova, artista non francese per di più. Inoltre il costo era molto alto e la scultura non era legata in modo alcuno alla storia transalpina. Tuttavia su loro richiesta ritornai ad esaminare il marmo concludendo nuovamente che l’autore non poteva che essere Canova.
Fu a questo punto che intervenne la responsabile del dipartimento delle sculture antiche del Museo Dahlem a Berlino, Ursula Schlegel, che si mostrò interessata all’acquisto a patto che l’attribuzione fosse confermata dal maggior esperto di Canova, Hugh Honour. Lo contattai e ci incontrammo tutti e tre a Londra; ricordo bene quei momenti in cui Hugh verificava l’autenticità girando intorno alla statua in totale silenzio. Alla fine espresse il suo parere del tutto favorevole. Ci disse che conosceva una lettera in cui un testimone dell’incendio che aveva devastato il palazzo viennese in cui era stata in origine la statua, scriveva a Canova come la sua scultura ne fosse uscita solo un po’ annerita dal fumo e senza tre dita, una della mano sinistra e due della destra.
–Dunque c’era anche la documentazione?
R: Esattamente. L’opera era documentata e così si chiuse la questione, ma lei sa bene che non sempre è così e in ogni caso nessuno è infallibile.
-Lei nel suo libro Solo ombre accennando all’esperienza di conoscitore ha scritto: «Ogniqualvolta io abbia cercato di convincermi dell’autenticità di un’opera attraverso la mente più che attraverso i sentimenti, mi sono sbagliato».
R: Questa è un’altra questione ancora, io sono una persona assolutamente appassionata a quello che fa ed anche molto diretta, e se una cosa mi disturba lo dico, non ci giro attorno.
-Lei è spesso definito come il padre del ramo della storia dell’arte che coincide con le cosiddette arti minori; non le pare un giudizio restrittivo, considerando tutto quello che ha studiato e scritto?
R: Che dirle? Quello che pensano gli altri non mi dà mai fastidio, se non altro per una questione di rispetto delle opinioni altrui. Mi dà molto più fastidio sentirle definire arti minori. Non ci sono arti minori o maggiori secondo me, c’è l’arte, oppure non c’è. Occorrerebbe inoltre stabilire cosa s’intende per arte minore, un mobile ad esempio? Bisogna vedere chi lo ha realizzato, non può essere anche un mobile un’opera d’arte? Chi lo decide? Non è ciò di cui ci si occupa a stabilire il rilievo di uno studioso, perché quel che eventualmente ci dà importanza è la serietà dello studio: non trova che sia meglio occuparsi in modo preciso ed intelligente di una scultura di ceramica piuttosto che scrivere sciocchezze su Michelangelo?
-A leggere il suo libro Il Serraglio di pietra. La sala degli animali in Vaticano, del 2013, ci si trova di fronte ad una pubblicazione oltre che di grande qualità anche di grande arte, non certamente meno significativa di quelle dedicate al Laocoonte o all’Apollo del Belvedere. Mi può dire come è nata quell’opera?
R: Io sono da molti anni –eravamo compagni di università- amico di Antonio Paolucci che è stato Direttore dei Musei Vaticani dal 2007 al 2016 e a quel tempo mi chiese se volevo far qualcosa con lui dato che io mi stavo interessando allo studio della Sala degli Animali su cui stavo rinvenendo molti documenti; così è nata la pubblicazione nella quale riporto tutto quello che è emerso, senza alcun pregiudizio sul fatto che quei capolavori siano arte minore o maggiore. Dopo di che mi può dire lei chi è autorizzato a giudicare cosa può essere grande arte o arte minore? Chi lo decide? Non voglio dire che le sculture nella Sala degli Animali, che pure sono capolavori, lo siano alla stessa stregua dell’Apollo del Belvedere, e d’altra parte quel marmo secondo alcuni ‘puristi’, chiamiamoli così, non sarebbe poi questa grande meraviglia perché non è proprio del tutto originale.
(la statua, copia romana del II secolo d.C., da un originale in bronzo risalente al IV sec. a.C., venne restaurata da Giovanni Angelo da Montorsoli, un religioso scultore e architetto, nel 1532, che gli aggiunse gli avambracci e le mani che in realtà mancavano, ndA).
Non bisogna dimenticare che all’Apollo molti anni fa vennero tolte le aggiunte antiche, ma subito si levarono ululati di rabbia finché più tardi non vennero ripristinate; questo per dire che il gusto cambia quindi nessuno deve dirsi padrone assoluto della verità magari per pretendere per forza l’applauso universale.
-Questo suo interesse può essere considerato una sorta di sintesi di un percorso a cavallo tra la forza simbolica del passato e la continua ricerca innovativa?
R: Quello che le posso dire è che se io non leggo qualcosa ogni giorno, se non mi interesso, se non mi appassiono, ma anche allo stesso tempo se non mi arrabbio, se non mi infastidisco non riesco ad andare avanti, non posso pensare di restare fermo senza trovare un qualche interesse.
-Magari allora è per questo che ha scelto di vivere in Italia, per le grandi opportunità di studio che le si presentavano?
R: E’ vero, ho avuto una gran fortuna in Italia, a cominciare dalle personalità che ho incontrato a Firenze, dove ho potuto avere grandi maestri probabilmente nel momento più luminoso per la storia dell’arte in Italia dopo la guerra, quando c’era un entusiasmo che, mi spiace doverlo dire, adesso non ritrovo; pensi che fortuna poter frequentare personaggi come Gianfranco Contini, Eugenio Garin, Roberto Longhi e via dicendo, insomma il meglio che c’era.
–Poi ha conosciuto Dino Fabbri, il fondatore della Fratelli Fabbri editori.
R: E’ stato il mio maestro Roberto Longhi a presentarmi Dino Fabbri in un momento molto difficile per me economicamente ed anche mentalmente. Fabbri mi chiese se pensavo di poter vivere continuando a studiare i primitivi toscani (perché allora mi dedicavo a quel mondo) proponendomi di lavorare alla costituzione di un archivio di fotografie per la casa editrice che stava costituendo -eravamo agli inizi degli anni sessanta e non esistevano molte foto di musei specie per il settore delle arti decorative. Così cominciai a girare all’estero, Lisbona, Dresda, Parigi, Stoccolma e così via, avvantaggiato dal fatto che conoscevo quatto lingue, radunando migliaia di foto. Fu allora che pensai che nessuno si era mai occupato di questo settore e dunque fu l’uovo di Colombo: mi misi all’opera radunando anche molti documenti fino ad allora non presi in considerazione. Ma un’altra circostanza mi venne in aiuto, stavolta assai tragica, cioè l’alluvione di Firenze. Iniziai collaborando al salvataggio delle carte nell’ Archivio di Stato -ricordo che chiamavo la gente per strada ad aiutarmi- poi per ringraziarmi il direttore mi aiutò a fare ricerche su argomenti che mi interessavano. Trovai delle carte per me molto importanti, tanto che ancora recentemente ne ho potuto utilizzare alcune per i miei studi. E’un metodo che seguo sempre: quando trovo qualcosa in archivio che al momento non mi serve me l’appunto perché mi può tornare utile anche anni dopo.
-Da tempo lei è un protagonista della scena artistica riconosciuto internazionalmente; si sente realizzato come persona oltre che nel suo lavoro?
R: Ma no, non mi ritengo protagonista di niente, ed anzi le dico che quello che ho realizzato l’ho fatto sempre con un certo distacco perché io non volevo essere uno studioso d’arte in realtà, la mia aspirazione era fare lo scrittore …
-Si, ma scrittore comunque lo è
R: Intendo dire scrittore letterario. E’ anche vero, però, che ho fatto quello che comunque mi piaceva anche se come le dicevo, con un certo distacco -diciamo che quello tra me e la storia dell’arte è stato una specie di matrimonio d’interesse, che poi a ben vedere sono quelli che durano meglio.
-Se lei fosse un direttore di museo sarebbe disponibile ad autorizzare prestiti di opere d’arte?
R: Il meno possibile, sarei sempre molto restio a farlo. Proprio qualche giorno fa mi ha chiamato un direttore per chiedermi un parere sullo spostamento di un’opera dipinta su pietra, richiestagli per una mostra e gli ho espresso la mia contrarietà. Quel genere di dipinti sono estremamente fragili e la materia pittorica non ha preparazione per cui basta un piccolo colpo a rovinarli. E poi io trovo che sia sbagliato mandare opere in giro per il mondo, come pure trovo sconcertante questo eccesso di mostre e il fatto che i direttori debbano passare il loro tempo ad organizzarle, oltre che a riallestire le collezioni. E non è solo un problema italiano, pensi che al Victoria & Albert di Londra hanno trasformato molte stanze più volte negli ultimi anni;
ma credono che con questo le collezioni migliorino? Importante è avere le strutture in ordine, curarne la pulizia quando occorre, ma senza esagerare, promuovere e accrescere le collezioni, ampliandole con nuovi acquisti, perché è così che si migliorano. Lo spostamento continuo di opere da una parte all’altra, da un museo all’altro è pericoloso e soprattutto non è necessario secondo me; la gente deve andare dalle opere dove queste si trovano.
-Non trova però che muovendo le opere in altri posti, sia pure con tutte le cautele del caso, questo possa in qualche misura anche aiutare a far conoscere meglio le collezioni da dove provengono? insomma potrebbero fungere da richiamo pubblicitario in qualche modo?
R: Si, può essere un modo per far conoscere meglio il proprio museo ma allora bisogna vedere cosa far uscire a questo scopo. Se ad esempio si pensasse di prestare una tavola di Masaccio lei cosa direbbe? Io sarei assolutamente contrario e d’altra parte questa mania di basare la qualità del proprio lavoro sul numero di visitatori che si riesce ad attrarre è molto discutibile: un afflusso troppo elevato danneggia le opere d’arte, lo hanno rilevato in molti; secondo lei avere milioni di persone ogni anno dentro al Louvre fa bene alle opere esposte? Non è mica un titolo di merito da inserire nel proprio curriculum contare quattro o cinque milioni di persone nel museo, secondo me.
-Lei in effetti intervenendo qualche settimana fa agli Stati generali della Cultura a Roma ha addirittura affermato che sarebbe bene che la gente non andasse affatto nei musei.
R: Ma guardi che non facevo che riprendere quanto aveva affermato il più grande studioso di iconologia della vita dei santi, George Kaftal, e cioè che ‘bisogna scoraggiare le persone ad andare nei musei’; dopo di che la mia era ovviamente una boutade e tuttavia trovo davvero ridicolo che la qualità di un museo o di chi ci lavora dipenda dall’afflusso più o meno elevato di gente. Sa cosa mi diceva spesso Roberto Longhi? Che le opere d’arte sono dei malati molto spesso incurabili e che è nostro dovere proteggere e prolungare la loro vita finché è possibile. E allora, d’accordo, la pubblicità è importante, ma è questo lo scopo dell’arte?
-Lei ha avuto a che fare con l’ex ministro Bonisoli?
R: No, non l’ho mai conosciuto né incontrato.
-Intendevo con le sue idee …
R: Non sapevo nemmeno che avesse delle idee.
-D’accordo, allora le chiedo cosa ne pensa di quanto avviene regolarmente in Italia nel campo della normativa relativa ai Beni Culturali.
R: Penso che molte cose sono misteriose. Ad esempio si parla quasi sempre male dell’amministrazione italiana in questo settore, mentre se c’è un campo in cui l’amministrazione funziona, a differenza di quanto si creda, è proprio quello della tutela delle opere d’arte. Glielo dico con l’esperienza di chi ha viaggiato e visitato i musei di mezzo mondo che non sono affatto in buono stato e dove anche le opere non se la passano bene; qui invece le opere ci sono tutte, sono salvaguardate (salvo rari casi, ovviamente) non vengono rubate e si conservano abbastanza bene.
Voglio anche spezzare una lancia in favore dei curatori e dei funzionari italiani, perché adesso sembra che se il funzionario non viene dall’estero non è adatto al ruolo; ma chi l’ha detto? Io ricordo, per fare un solo nome, Marco Chiarini che ha diretto Pitti per quarant’anni senza mai accettare promozioni pur di rimanere lì; un esempio di attaccamento e di capacità che è tipico di molti altri dirigenti.
-Lei ha scritto che Federico Zeri non era un uomo intelligente, ma un genio; cosa intendeva dire di preciso?
R: Lo scrissi nel suo necrologio; cosa volevo dire, mi chiede? Che l’intelligenza è un continuum del pensiero dell’uomo senza sbalzi, senza di violenza. Zeri era l’opposto, in preda a scoppi di ira e fiammate di violenza, e in questo modo era più che intelligente -erageniale. Ovviamente ho usato un paradosso ma bisogna riconoscere che l’intelligenza richiama un senso di armonia mentre Federico Zeri tutto aveva fuorché armonia. Ho una mia teoria, e cioè che le persone vadano seguite per quello che amano non per quello che odiano.
-Perché secondo lei invece c’è spesso odio nel campo della storia dell’arte?
R: Mah, che dire? incomprensioni, gelosie, carriere, un po’ di tutto ciò, che però esula dalla storia dell’arte e d’altra parte sondare l’animo umano è cosa complicata.
-Cosa pensa dei nuovi allestimenti agli Uffizi?
R: Non li ho visti, però le posso dire che solitamente non resto molto soddisfatto dai cambiamenti. A Firenze ho invece ammirato una bellissima mostra di bronzi del Sei e del Settecento. Preferirei più mostre meditate, come questa, a cambiamenti che tendono più a seguire il gusto del giorno e sono i primi ad invecchiare.
-In Italia manca un museo centrale delle arti decorative, lei auspica che si realizzi?
R: E’ troppo tardi secondo me, certo mi piacerebbe che ci fosse. D’altra parte in quasi tutti i musei esistono cose di questo settore ma ormai è impensabile che possano essere traferite, accentrandole in un’unica struttura. In Italia del resto manca un vero e proprio museo nazionale, per così dire, ma è giusto che sia così se pensiamo che nella sola Roma si sono succedute diverse dinastie papali e la città è una sorta di museo composito: penso alla Galleria Spada, alla Borghese, alla Barberini e alla Corsini (che ogni tanto qualcuno pensa di accorpare – ho scritto un articolo contrario a questa idea, qualche tempo fa, e per fortuna sono stato ascoltato). Si tratta di musei che esprimono la cultura e la storia di una città e dell’intera nazione.
-Lei sarebbe favorevole a rendere gratuite gli ingressi nei musei italiani?
R: Si, certamente. Se l’Inghilterra non fa pagare l’ingresso ai musei non vedo perché non lo si possa fare anche qui. Perché l’accesso ai musei deve essere pagato quando non lo sono altri istituti pubblici? Una volta, non molti anni fa, i musei erano aperti gratuitamente un giorno alla settimana come accade anche in Francia e in Spagna. Lo erano più spesso ancora per le persone anziane. Oggi se si è vecchi non si deve frequentare Botticelli se non una volta al mese. Voglio ricordare che Sir Denis Mahon quando si mise a suo tempo in discussione la gratuità dei musei inglesi minacciò di ritirare il dono della sua celebre collezione di dipinti.
-Vorrei chiederle ora un chiarimento su un passaggio del suo ultimo libro Solo Ombre relativo alla figura di Piranesi, dove lei scrive che ‘alcune delle sue antichità se le era fabbricate da solo’; dunque era un falsario?
R: No, attenzione, non è preciso parlare di falsario nel Settecento; evidentemente dava alla gente quello che la gente gli chiedeva o voleva, ma non si può parlare di falsario quando si è davanti ad un genio. Piranesi è uno dei grandi artisti che l’Italia del XVIII secolo abbia avuto; come Canova, certamente, ed anzi le voglio raccontare una cosa che riguarda proprio Antonio Canova, a proposito del fatto che il gusto, come dicevo, cambia nel corso di una quindicina d’anni; il mio maestro Longhi –che non era proprio l’ultimo arrivato- aveva formulato su di lui un giudizio lapidario, cioè che si trattava di uno scultore “nato morto, il cui cuore è ai Frari, la cui mano è all’Accademia e il resto non so dove”.
-E se invece dovesse indicarmi a quale parte della storia dell’arte vanno le sue preferenze, quale indicherebbe?
R: Dipende dal periodo, ma non si possono fare classifiche; ad esempio se parliamo del Rinascimento come si fa a non essere innamorati di Masaccio o di Tiziano, solo per citarne due, e non faccio preferenze di scuola come vede. Amo altrettanto Pontormo, un toscano, quanto Veronese, un veneto: sono due artisti con concezioni diverse della vita e dell’arte e non vedo perché doverne scegliere uno soltanto.
–Le avevo promesso di non parlarne ma visto che ha citato dei grandi artisti non posso evitare di chiederle qualcosa su un altro artista, del Seicento però, Caravaggio.
R: E’ ovvio che è un grande artista ma quello che non capisco è perché cosi tanta gente si senta attratta dalla sua figura, al punto che da qualche tempo è diventato il nome cui non si può prescindere e compare dovunque e molti lo vedono, in modo ridicolo, “così vicino a noi…”. Sanno quel che dicono? Era anche un assassino. Caravaggio è stato un grande artista ma non più di quanto non lo siano stati Rembrandt o Botticelli. Perché Caravaggio piace di più? Forse perché è apparentemente più semplice e più brutale e dunque ci si illude di capirlo.
Un’altra cosa che non comprendo è l’attrazione per Frida Kahlo: la trovo una pessima pittrice, incomprensibile questa moda di parlarne sempre, di presentarla come una sorta di eroina dell’arte al femminile. Per me resta un essere elementare e retorico.
-Se lei dovesse scegliere un quadro per la sua collezione quale comprerebbe?
R: Non ho una collezione. Ho solo alcuni oggetti che ho potuto assicurarmi anni fa e che non esprimono veramente ciò che vorrei. Comunque, comprerei il quadro che posso comprare, alla mia portata. Non necessariamente quel che mi piace di più -anzi certamente no, perché sarebbe al di sopra anni luce dai miei mezzi. Certo, mi piacerebbe possedere un Ingres, ma temo che sarà difficile e d’altra parte lo darei subito via, sa perché? Perché diventerebbe un incubo.
-Lei ha incontrato nel corso della sua carriera molti studiosi, anzi probabilmente i più importanti a vari livelli, e qualcuno lo ha ricordato oggi, ad esempio Longhi che è stato il suo maestro; c’è tra gli studiosi di oggi un altro Longhi?
R: Sicuramente ci sono studiosi di grande valore anche al giorno d’oggi, ad esempio Pierre Rosenberg, ma Longhi oltre che essere stato un grande studioso era un grande scrittore, lo diceva persino Zeri che lo detestava. I tempi sono molto cambiati, gliel’ho detto, il clima allora era molto più brillante e probabilmente si lavorava meglio, c’era competizione, pensiamo a nomi quali Venturi, Zeri, Mahon, c’era vivacità, ma si vedevano le trasformazioni, o forse mi sembrava così perché ero giovane e loro vecchi, però certo oggi persone come Haskell, Panofsky, Focillon non ne vedo.
-Cosa l’ha più colpita in positivo tra le tante cose che ha visto nel corso dei suoi viaggi? ad esempio mi piacerebbe sapere quale collezione d’arte ricorda con particolare meraviglia e piacere.
R: Ce ne sono molte, specie quelle che sono nelle residenze di campagna inglesi, dove non ti meravigli se trovi quadri fantastici, magari Poussin e Canaletto; però una che mi ha particolarmente colpito era quella di Adolphe Stoclet, a Bruxelles, che vidi quando ero molto giovane e che certamente era straordinaria, ma mi impressionò particolarmente perché nella casa era stato realizzata l’eccezionale opera di Klimt (il famoso Albero della Vita, ndA);
non è il mio gusto, ma si tratta di un capolavoro straordinario. Non meno straordinaria era la casa di Guiy de Rothschild a Parigi, specialmente quanto si trasferì in uno dei più begli hôtels parigini, quello Lambert all’Île Saint Louis.
-E se invece dovesse parlare della cosa meno interessante o più deludente?
R: Non vorrei parlare di cose negative, ma una delusione cocente voglio indicargliela. Parlo di Jorge Luis Borges, noiosissimo come poche persone al mondo. L’ho incontrato a Roma e a Firenze, e mi apparve affettato e supponente, molto finto; è vero che non c’è scrittore più importante di lui in lingua spagnola ma come persona era insopportabile, pur essendo quello che era, un genio o quasi.
–Lei ha studiato all’Avana, alla Sorbona e a Firenze, in prestigiose università, dove pure l’accesso anche a grandi personalità non sempre è consentito perché non sempre è il merito ad essere premiato, come nel caso di Federico Zeri. Senza contare Maurizio Fagiolo dell’Arco che pur avendo vinto la cattedra vi rinunciò; a proposito, lei ha conosciuto Maurizio Fagiolo dell’Arco.
R: Si, siamo stato grandi amici, l’ho conosciuto molto bene e forse rinunciò all’università per rimanere libero o forse perché non era proprio un uomo ambizioso. Era soprattutto un uomo buono: non l’ho mai sentito dire qualcosa di cattivo su nessuno. Io lo amavo anche per un altro motivo: il suo entusiasmo che voleva condividere con tutti. Non amavo però alcuni dei suoi amici. Secondo me invece alla fine il merito è premiato e credo che i cretini non abbiano una vita lunga e se ce l’hanno lunga il giorno che muoiono muoiono davvero. Zeri non è arrivato all’Università italiana ma ha insegnato a quella di Harvard ed è stato il personaggio più rilevante del suo tempo, tant’è vero che se ne parla ancora molto e, a vent’anni dalla sua scomparsa, non se ne può prescindere.
-Lei come si definirebbe, un illuminista, un relativista?
R: Mi definisco un liberal che ama vivere libero, fare quello che gli piace fare e dire ciò che vuole. Per questo motivo e altri ancora non sono più tornato nel mio paese d’origine: sono accadute troppe cose negative con la rivoluzione. Oggi a destra mi credono di sinistra e viceversa. Ma al di là di tutto ciò, che lascia il tempo che trova, penso che se uno non vuole essere del tutto stupido non deve mai pensare di avere sempre ragione ed essere invece consapevole che le cose dipendono spesso dalle circostanze.
-Un’ultima domanda; cosa direbbe ad un insegnante di storia dell’arte? cosa gli consiglierebbe?
R: Non me la sento di dare consigli, so per certo che è difficile insegnare, lo capisco. Io sono stato fortunato perché ho avuto grandi maestri, persino a Cuba da piccolo, ma dire cosa si deve o non si deve fare non è mai sicuro, tante volte mi chiedo anch’io se non sto sbagliando. Sono certo di non essere un bravo insegnante perché non amo farlo: ho pazienza solo nella ricerca. Mi piace invece andare in giro con allievi o amici a guardare le opere d’arte, davanti alle quali mi sembra di poter trasmettere il mio entusiasmo.
-E ad un giovane studente invece cosa consiglierebbe, cosa dovrebbe fare secondo lei?
R: Prendere appunti!
P d L Roma 12 gennaio 2020