di Barbara SAVINA
La mostra svoltasi recentemente nel Palazzo Chigi di Ariccia Caravaggio. La Presa di Cristo dalla collezione Ruffo, curata da Francesco Petrucci, è stata un evento culturale di grande rilievo ed interesse per gli studiosi ed appassionati di Caravaggio, che presto avranno l’opportunità di rivedere la tela in altri eventi espositivi [1].
Torno a scrivere su questo argomento dopo numerosi interventi critici, già apparsi su questa rivista [2], non tanto per partecipare al dibattito sull’autografia, ma soprattutto per esprimere alcune considerazioni di carattere metodologico stimolate dalla mostra. Nel caso di Caravaggio le esposizioni rappresentano un’ottima palestra per l’esercizio degli esperti e aprono nuovi confronti critici.
Nelle attribuzioni all’artista è necessario integrare una pluralità di approcci, nel rispetto delle reciproche competenze: la rilettura dei dati storici, provenienti da fonti ed inventari, va coniugata con l’esame dello stile, dell’iconografia e dei dati tecnici, derivati dalle indagini diagnostiche. Gli esami scientifici possono ampliare la capacità interpretativa dell’occhio del conoscitore, ma non sostituirsi ad esso. Nel caso di Caravaggio resta fondamentale la lezione longhiana, da cui è necessario ripartire per una rilettura critica dei suoi dipinti: molte intuizioni geniali dello studioso sono state confermate da studi posteriori [3].
La vicenda della Presa di Cristo è emblematica in questo senso.
Il percorso espositivo di Ariccia ha offerto al pubblico la possibilità di osservare finalmente dal vivo il dipinto in collezione romana (FIG. n.1), già protagonista di una complessa ed intricata vicenda giudiziaria, provvisto della sua cornice originale “nera rabescata d’oro”, citata negli inventari Mattei.
L’opera era già stata proposta da Longhi nella famosa mostra milanese del 1951[4] come una delle versioni più fedeli del soggetto d’invenzione caravaggesca, descritto da Bellori nel 1664: in quell’occasione l’opera fu esposta come proveniente dalla collezione Sannini di Firenze, senza fornire però alcuna prova documentaria del legame tra questa famiglia e i committenti del dipinto. Nel catalogo si ripercorre in modo attento la storia delle citazioni nelle fonti, negli inventari e i pagamenti documentati nel Banco Mattei, e si ricostruisce la provenienza del dipinto, oggi proprietà dell’antiquario Mario Bigetti, dalla collezione Ruffo di Calabria[5].
Il dipinto è stato messo a confronto con una riproduzione fotografica a grandezza naturale del dipinto di Dublino (FIG. n.2), già protagonista di una suggestiva vicenda critica.
La tela, ritrovata nel 1990 da Sergio Benedetti in un collegio di padri Gesuiti, è stata identificata dalla maggior parte degli studiosi come l’originale del Caravaggio, pagato nel 1603 dal Banco Mattei per una tela raffigurante Un Cristo preso all’orto, più tardi descritto dalle fonti. Il pagamento fu rintracciato attraverso le scrupolose ricerche archivistiche, compiute da Francesca Cappelletti e Laura Testa, grazie alle quali è possibile ripercorrere la storia del dipinto nella collezione della famiglia, attraverso gli inventari che registrano i vari passaggi ereditari [6]. In mostra è stata inclusa anche una sezione con le foto delle versioni note del soggetto, documento del successo riscosso dall’iconografia caravaggesca, già parzialmente inserite nel mio libroCaravaggio tra originali e copie (ed. etgraphiae, Roma, 2014), dove proponevo anche una scheda critica delle due tele, romana e irlandese, sottolineandone le divergenze e l’importanza della cornice come chiave di lettura per comprendere e ricostruire la storia della Presa di Cristo del Caravaggio attraverso gli inventari della famiglia Mattei [7].
L’esposizione di Ariccia mi ha stimolato ad un nuovo confronto tra le due versioni, affini dal punto di vista compositivo, ma con varianti a livello iconografico e stilistico: si auspica di poterle esaminare presto insieme dal vivo. Nel catalogo è proposta una duplice autografia e la tela Bigetti viene presentata come il prototipo replicato poi dall’artista, inserendo delle modifiche: è un’ipotesi interessante, ma va accolta con prudenza.
In questo saggio mi soffermo soprattutto su alcuni dettagli del dipinto in raccolta romana, oggetto di una visione recente, commentando la lettura offerta nel catalogo, e propongo nella parte finale un’altra versione molto interessante. Nel 2010 ho apprezzato dal vivo anche la tela di Dublino, nella straordinaria mostra curata da Claudio Strinati presso le Scuderie del Quirinale, che ha offerto l’opportunità di confrontarla con altri capolavori del maestro.
La meditazione sul sacrificio di Cristo e sulla scelta tra bene e male, luce ed ombra, è centrale nella produzione matura di Caravaggio. In entrambe le tele la composizione è affascinante, ma al tempo stesso inquietante, e carica di energia. I dipinti “catturano” l’occhio dell’osservatore: vanno osservati lentamente e a distanze diverse, per comprenderne a fondo la sapienza compositiva, con un gioco di diagonali incrociate, corrispondenti agli arti e alle direttrici degli sguardi delle figure, e la regia luministica, con una sintesi di più luci, provenienti da sorgenti diverse[8]. Nella mostra di Ariccia si è scelta un’ambientazione suggestiva nell’altana di palazzo Chigi, eco di quella del palazzo Mattei a Roma, dove la tela di Caravaggio fu esposta in ambienti diversi e con richiamo evidente all’atelier dell’artista: lo studio del maestro, in vicolo S. Biagio, era situato in una sorta di “sottottetto”, dove l’artista praticò un lucernario, in modo da poter ottenere il “lume dall’alto” di cui parla Mancini [9].
E’ geniale l’invenzione: un’onda impetuosa irrompe nella quiete notturna. La scena, di grande impatto emotivo, è rischiarata dai bagliori della luna e dalla lanterna a destra.
Nell’iconografia scelta dal pittore vengono rappresentate simultaneamente più scene connesse all’evento evangelico: il bacio traditore di Giuda, la cattura dei soldati e l’orrore di Giovanni, testimone dell’evento, in fuga. Giuda, baciando Gesù, lo consegna di fatto ai soldati. Cristo, con umiltà, coraggio e fede, si arrende in silenzio al suo destino e al sacrificio. Sullo sfondo emerge il volto di un uomo che tiene una lanterna in mano, osserva l’evento tragico e medita: è un autoritratto dell’artista (FIG. n.3) già individuato da Longhi, che così lo descriveva nella versione Sannini, esposta a Milano: “pallido, scavato, con la chioma a ricci compressi” e segni di barba e baffetti.
E’ strategico l’inserimento dell’autoritratto, presente in altre opere del Merisi: l’artista partecipa insieme allo spettatore al dramma sacro messo in scena e cerca di far luce sul mistero della Passione di Cristo.
Le note stilistiche e tecniche caratterizzanti le due opere appartengono al vocabolario caravaggesco.
La tela in raccolta romana sembra dipinta velocemente, sulla scia di un’urgenza drammatica, senza curare i dettagli, ed è molto interessante, soprattutto nella sua asprezza e spontaneità: è fortemente espressionista e caratterizzata da esasperazioni fisiognomiche.
La fattura appare grossolana, con abbozzi, pennellate lunghe ed incisioni, nei punti chiave della composizione: i dettagli corrispondono complessivamente, ma in un disegno più piatto, soprattutto nel trattamento delle pieghe dei panneggi ed “in una resa sintetica delle masse” [10]. La versione irlandese è di fattura più morbida, levigata, più piacevole allo sguardo nella sua eleganza e raffinatezza e più agevole nella lettura [11]. Inoltre il dipinto Bigetti sembra più fedele alla descrizione di Bellori, che nel 1664 descrivendo in modo puntuale la Presa di Cristo all’orto, vista in palazzo Mattei, si sofferma su alcuni dettagli, che hanno un ruolo chiave nella composizione, come “le mani incrocicchiate avanti” di Gesù (FIG. n.4) e le “braccia aperte” del discepolo in fuga (FIG. n.5), che distinguono l’esemplare romano.
Dopo la mostra milanese, numerose copie dell’originale caravaggesco sono state individuate proprio attraverso questi dettagli.
Già Longhi sottolineava che questa composizione è l’unica a dare lo sviluppo completo dell’invenzione: attraverso le sue braccia aperte Giovanni in fuga a sinistra, colpito da una luce divina, imprime un ritmo accelerato a tutta la composizione, che si espande in modo dinamico, in un crescendo drammatico. Nella metà destra prevalgono le ombre, con i suggestivi riflessi della corazza in primo piano alla luce della lanterna, che si riflette sul metallo.
E’ una scena surreale, già definita da Claudio Strinati una folgorazione: la tragedia esplode al buio e la lanterna in realtà illumina solo la mano del giovane. La maggior parte della Cattura rimane immersa nell’oscurità, in quanto il tradimento agisce all’ombra: l’artista lo ritiene così impossibile da non volerlo nemmeno vedere [12].
“Le mani incrocicchiate avanti” descritte da Bellori, rendono visibile il conflitto interiore di Cristo e attirano l’occhio dello spettatore, che rimbalza poi sulla mano del pittore che regge la lanterna, su quella dell’armigero che affonda la sua nel braccio di Gesù ed in pratica si aggrappa a lui per arrestarlo, e in quelle di Giovanni, che fugge terrorizzato a sinistra: di questo è visibile tutto il braccio, tagliato invece nella versione di Dublino.
Giovanni, raffigurato molto giovane, sembra quasi un’emanazione di Gesù, leggermente arretrato rispetto agli altri: nelle due tele sono riscontrabili differenze nella fisionomia del Cristo. Nell’opera in raccolta romana il volto è “sindonico”, sottile ed allungato, e con gli occhi appena accennati[13]: in quelle due braccia spalancate del discepolo si esprime tutto il pathos umano, sublimato nel Cristo. Già Longhi notava che lo svolazzo del manto rosso di Giovanni che incornicia, come in un dittico, le teste di Cristo e Giuda, protagonisti della composizione è una “reminiscenza classica” in un geniale adattamento: possibili modelli iconografici sono stati individuati in erme neoattiche [14].
Le composizioni del Merisi sono spesso una sintesi originale di iconografie classiche e modelli realistici: alla foggia antica delle vesti degli Apostoli si contrappone l’armatura contemporanea posta al centro, che appartiene ad una tipologia diffusa nell’ambiente lombardo, e che sembra ripresa da un’incisione di Durer [15].
Un altro dettaglio iconografico distingue le due versioni: l’assenza nel dipinto romano di arbusti di ulivo sullo sfondo, caratteristici dell’Orto del Getsemani, in cui si svolse la Cattura, presenti invece nella versione irlandese, che rendono l’episodio più leggibile ed aderente al racconto evangelico, come probabilmente auspicato dal cardinale Girolamo, fratello del committente Ciriaco.
Il vuoto intorno alle figure, che emergono da un buio profondo, allarga la composizione, senza privarla però di compattezza e dinamismo interno e trasforma il dipinto in un teatro metafisico, in cui il dramma si svolge direttamente dinanzi agli occhi dello spettatore. Le varie teste, giustapposte su più piani in profondità, sono concatenate tra loro e con un moto centripeto convergono verso Gesù, asse portante di questo vortice drammatico, che Longhi definì “un tragico carosello nel buio”: il suo corpo è rigido e rimane impietrito dopo quel bacio che lo consegna al traditore, ma continua a pregare, affidandosi al Padre e alla sua misericordia [16]. I vari attori della scena, con figure scolpite nel buio come nella Deposizione Vaticana (FIG. n. 6), occupano lo spazio, e si ha quasi l’illusione che vengano incontro allo spettatore, attirandolo nel dramma: la rappresentazione sembra quasi inverosimile e può risultarne complessa l’interpretazione[17].
Nelle due opere sono individuabili citazioni da altre tele del Merisi, nelle soluzioni spaziali e luministiche, nei gesti e nelle espressioni delle figure, e nei dettagli fisionomici dei modelli, come è tipico nel repertorio dell’artista.
Il taglio compositivo deriva dalle tele della cappella Contarelli in S. Luigi dei Francesi, in un momento di sintetica drammaticità. Dal Martirio di S. Matteo sono ripresi il giovane apostolo urlante e dalla Vocazione di S. Matteo l’autoritratto, che sarà poi replicato a memoria nel Martirio di S. Orsola: può essere interpretato in chiave psicoanalitica e metaforica, qualificandolo come peccatore e traditore del messaggio evangelico [18]. Il soldato di destra vicino alla lanterna è ritratto dallo stesso modello impiegato per la Cena in Emmaus (FIG. n.7) e da quello che sovrasta il gruppo degli apostoli nell’Incredulità (FIG. n. 8) e rimanda al carnefice nel Martirio di S. Pietro, in S. Maria del Popolo.
Anche le rughe sulla fronte di Giuda, spia degli stati d’animo, rimandano al S. Tommaso della tela di Potsdam. L’armatura in primo piano ritorna nell’Incoronazione di spine di Vienna, con un effetto luministico affine. L’artista si rivela regista delle reazioni emotive umane nelle diverse gradazioni d’intensità e violenza. Le braccia di Giovanni in fuga, drammaticamente levate in aria, trovano una corrispondenza, come espressione di pathos, in quelle di Maria della Deposizione Vaticana e riprendono ed amplificano quelle del pellegrino di destra, che tradiscono sorpresa e sconcerto allo spezzare del pane, nella tela londinese della Cena in Emmaus, di dimensioni vicine alla versione Bigetti, e probabilmente commissionato dai Mattei a pendant[19]. I dipinti sono dedicati infatti a due episodi neotestamentari perfettamente simmetrici: Cristo viene riconosciuto al momento della sua Cattura, attraverso il bacio di Giuda e poi attraverso il gesto della fractione panis, durante la cena in Emmaus.
E’riconoscibile la cifra di Caravaggio e la resa caratteristica dei dettagli anatomici, che nella versione romana si distinguono nella loro asprezza; la cicatrice nella mano in primo piano di Giuda (FIG. n.9), “costruita materialmente a rilievo, solcandone i contorni”, corrisponde quasi “ad un marchio d’infamia, impresso nel traditore”[20]. Le mani rapidamente abbozzate anticipano le opere più avanzate del periodo napoletano e la forma tozza degli arti, quasi a sassolini, sembra ripresa dai piedi del S. Pietro crocefisso di S. Maria del Popolo (FIG. n.10).
Giuda sembra un “gobbo deforme, con il braccio rattrappito”, e anticipa “il grottesco napoletano” dell’arte di matrice riberesca. I capelli di Cristo “in spirali scultoree quasi metalliche” sono dipinti in modo leggero, direttamente sopra la veste, che traspare al di sotto.
Le indagini scientifiche hanno rivelato nella tela in raccolta romana una pittura corposa, ricca di velature, a stesure sovrapposte, che danno una grande immediatezza alla composizione. Ai raggi X (FIG. n. 11) sono visibili la tecnica tradizionale della sovrapposizione delle campiture dal fondo al primo piano, linee incise in punti strategici della composizione e modifiche compositive, soprattutto in corrispondenza degli arti: le diverse pose di alcune mani e del braccio sulla destra sarebbero giustificabili alla luce dell’impiego di modelli, posti in posa dinanzi all’artista nell’atelier, in posizioni suscettibili di modifiche, mentre avrebbero poco senso in una seconda versione[21].
Il restauro ha restituito nuova luce al dipinto che non era stato più pulito dopo la mostra milanese del 1951 ed era offuscato dalla polvere e dall’ossidazione delle vernici [22]: il rosso cinabro della veste di Cristo ha un cromatismo acceso simile alle tele messinesi del Merisi. Il giallo a base di piombo, stagno ed antimonio, variante seicentesca del giallorino [23], riscontrato in entrambe le tele, ritornerà nel Martirio di S. Orsola. Una lettura attenta della superficie pittorica ha rivelato anche nel dipinto di Dublino la presenza di caratteristiche tecniche tipiche in Caravaggio come l’impiego a vista della preparazione, le incisioni, pentimenti anche se di lieve entità e il ricorso a pigmenti analoghi a quelli impiegati in altre tele di commissione Mattei, come il S. Giovanni Battista.
Le citazioni inventariali, studiate con scrupolo ai tempi della scoperta della versione dublinese, riprese in pubblicazioni posteriori ed ampiamente ripercorse nel catalogo, lasciano aperta la possibilità dell’esistenza di due tele autografe, di dimensioni differenti, eseguite da Caravaggio per i Mattei, dotate di due cornici diverse: il primo “con cornice nera rabescata d’oro” e formato allargato, il secondo “con cornice dorata” e di dimensioni ridotte. Non è semplice risolvere la questione in modo definitivo, attraverso uno studio incrociato dei dati contabili e degli inventari, che a volte omettono i dati sulla cornice o sull’autore e non riportano sempre le dimensioni.
L’artista, come risulta dai Libri Contabili del Banco Mattei, era stato pagato da Ciriaco Mattei il 2 gennaio 1603 «per un quadro con la sua cornice dipinta», ovvero non semplicemente dorata e realizzata contestualmente al dipinto: questa è una chiave per comprendere la storia di questa tela negli inventari Mattei[24].
La cornice della versione Bigetti, una delle poche sopravvissute, nera con una decorazione a motivi dorati, risulta simile a quella che circonda lo specchio incorniciato nel dipinto di Detroit, che raffigura Marta e Maria e che in forma analoga compare sulla sinistra dello scudo della Medusa degli Uffizi[25]. Un motivo ad arabeschi affine è inserito in modo raffinato e sofisticato nella ghiera dorata dell’elmo dell’armigero in primo piano (FIG. n. 12), ottenuto probabilmente attraverso un procedimento di niellatura.
E’ suggestivo supporre nell’esecuzione degli arabeschi dorati della cornice, citati poi anche all’interno della tela, l’intervento di Prosperino Orsi, il famoso turcimanno del Caravaggio, specializzato nella realizzazione di motivi decorativi a grottesca, anche al servizio dei Mattei[26].
Avevo già avanzato nel mio libro l’ipotesi che la versione Bigetti corrispondesse al dipinto di maggiori dimensioni, con “cornice nera rabescata d’oro”, descritto da Bellori, dipinto rapidamente, senza curare i dettagli. Di solito le prime versioni erano di dimensioni più ampie, si distinguono per l’intensità drammatica, la freschezza dell’invenzione e sono caratterizzate da un’esecuzione sommaria e da alcune modifiche. Numerosi elementi confermano l’autografia della bella versione irlandese, di qualità elevatissima, ma differente dall’opera romana: il dipinto, di fattura più levigata e privo di asprezze, andrebbe identificato con il dipinto di minori dimensioni e «cornice dorata», matrice delle repliche successive. Le repliche autografe, eseguite partendo direttamente dall’originale, erano solitamente di dimensioni più piccole della prima versione, con leggere modifiche compositive e linee incise.
Le tele caravaggesche sono caratterizzate da una continuità tra lo spazio pittorico e quello reale dello spettatore, che diviene testimone di un dramma che si svolge davanti ai suoi occhi, come già sottolineato: per raggiungere questo effetto, l’artista riusciva ad alternare inquadrature, tagli compositivi e tecniche diverse, in base ad esigenze espressive, spazi espositivi, e al tempo a disposizione, assecondando anche le richieste della committenza.
Caravaggio creava in modo istintivo in base alle sue pulsioni profonde [27], ma era anche capace di rivedere la composizione perché non soddisfatto dei risultati raggiunti o su richiesta dei committenti. Non era incline alla ripetizione priva di varianti, ma di fronte alle resistenze dei committenti per soluzioni iconografiche sconvenienti, probabilmente studiò il modo per replicare le sue composizioni in nuove vesti iconografiche, come aveva fatto con i dipinti giovanili di successo.
La prima versione della Presa di Cristo così aspra ed espressionista forse sconcertò i committenti, che ne richiesero una seconda versione più elegante, rifinita nei dettagli e in un formato ridotto più adatto al collezionismo privato e all’esposizione in camera come sopraporta.
Il prototipo invece passò probabilmente nella collezione di Asdrubale e poi in quella del figlio Paolo: per il suo formato allungato infatti si prestava all’esposizione nella galleria del piano nobile del palazzo, insieme ad altre tele di artisti caravaggeschi, di dimensioni affini, dedicate alla Passione [28]. In seguito restò in un luogo non accessibile agli ospiti e agli artisti o fu donato, magari come oggetto di scambio: è una chiave interpretativa che propongo per sciogliere i nodi critici emersi nel catalogo.
Questa possibile lettura giustificherebbe le varianti stilistiche ed iconografiche, ma occorre essere molti cauti nelle proposte attributive: anche l’occhio più esperto, supportato dagli esami scientifici, a volte non riesce a distinguere originale e copie ed i dati stilistici e tecnici devono trovare una corrispondenza nei documenti.
Da Mancini apprendiamo della precoce circolazione di repliche della Presa di Cristo : nel 1615, dando disposizioni al fratello Deifobo per la vendita di alcuni oggetti, oltre a un dipinto copia del Caravaggio raffigurante un giuoco, scrive:
“Presto vi mandarò una Presa di Cristo per il vano del ornamento non meno bella della data via”[29],
senza esplicitare però il nome dell’autore.
E’ documentata la copia della Presa commissionata da Asdrubale nel 1626 ad un Giovanni di Attilio poco conosciuto, da alcuni identificata con la versione di Odessa [30].
Nell’inventario post-mortem del 1638 di Asdrubale Mattei, secondo Bellori committente dell’opera, i dipinti raffiguranti la Cattura, senza riferimento all’autore, sono quattro, di cui due con cornici dorate, due nere profilate d’oro, ed una forse corrispondente alla copia richiesta una decina di anni prima. L’eventuale prototipo della collezione Mattei con “cornice nera rabescata d’oro”, identificato recentemente con la tela Bigetti, non è più citato negli inventari successivi e la coincidenza proposta nel catalogo della mostra di Ariccia con l’esemplare della Presa di Cristo che compare nell’inventario della collezione Vandeneynden resta ancora in attesa di conferma documentaria [31]. Negli inventari Mattei tra fine Seicento e Settecento continua invece ad essere citata la “Presa di Cristo con cornice dorata di palmi 6 e 8”, dimensioni vicine alla tela di Dublino, confermandone la sicura provenienza dalla raccolta Mattei.
La questione è resa più complessa, ma anche più affascinante, dal fatto che nell’inventario della collezione Mattei del 1793 compare una “Presa di Cristo all’orto di p.mi 6 riquadrata”[32], quindi ridotta, assegnata a Gherardo Delle Notti, identificabile con l’artista caravaggesco Gerrit van Honthorst (Utrecht, 1592 – 1656), specializzato nei notturni a lume di candela. Il suo nome è riportato anche in alcune guide settecentesche che descrivono l’opera di Caravaggio in casa Mattei e compare nella targhetta ottocentesca della tela, ritrovata a Dublino. Alcuni studiosi hanno anche avanzato recentemente l’ipotesi dell’attribuzione della tela di Dublino all’artista olandese[33], presente a Roma nel secondo decennio del Seicento, che lavorò al servizio del marchese Giustiniani ed entrò in contatto con gli originali del Merisi, esercitandosi probabilmente anche nell’esecuzione di repliche[34].
Il tema della Passione e del sacrificio di Cristo era al centro degli interessi dei collezionisti amanti di Caravaggio: è possibile che si siano verificati degli scambi tra originali e copie tra i Mattei e i Giustiniani, come già supposto per l’Incredulità, con interventi di vari artisti e su consulenza iconografica del cardinale Girolamo Mattei prima, cui subentrò poi il cardinale Benedetto Giustiniani.
In passato è stata attribuita al pittore olandese una delle versioni della Presa di Cristo di formato molto prossimo al quadrato (cm 135×145), vicino ai sei palmi e alle dimensioni indicate nell’inventario Mattei, cui fu connessa nell’articolo apparso sul Burlington Magazine [35], in seguito alla riscoperta della versione irlandese.
La tela, già comparsa in occasione della mostra organizzata a Dublino nel 1993, inserita nel mio libro Caravaggio tra originali e copie e citata nella bibliografia posteriore[36], è stata pubblicata in occasione della recente mostra di Ariccia, ma in una mediocre foto in bianco e nero.
Ho avuto la fortuna di visionarla direttamente in una raccolta privata, dove è confluita dopo il passaggio all’asta Sotheby’s del 2005[37] e colgo l’occasione per pubblicarla in questa sede per la prima volta a colori (FIG. n. 13) [38].
La tela è stata ritrovata a Manchester, nel St Bede’s College: all’inizio del secolo scorso il Canonico del Collegio Burke l’attribuì proprio a Gerrit van Honthorst con il titolo “Il tradimento nell’orto dello Gestemani”, ignorando l’invenzione iconografica caravaggesca, resa poi nota da Longhi attraverso la versione Sannini, e la storia del cartellino della tela irlandese, recante il nome dell’artista olandese. In seguito è stata ricondotta variamente a scuola spagnola o napoletana ed è stata anche avanzata una proposta attributiva a Caravaggio[39].
Il dipinto, provvisto di una cornice ottocentesca, è stato sottoposto solo ad una pulitura sommaria per una migliore lettura e non è stato ancora oggetto né di indagini scientifiche né di un filologico intervento di restauro.
Si nota uno scarto dimensionale rispetto alla versione romana e irlandese soprattutto nel senso della larghezza: la tela è stata tagliata su entrambi i lati, con più evidenza lungo il lato destro, per raggiungere l’attuale formato. I segni di decurtazione sono evidenti: si nota l’assenza della rappresentazione completa del braccio di Giovanni in fuga, e a destra è ridotto l’autoritratto.
Nel catalogo d’asta viene indicata genericamente come opera di un seguace di Caravaggio, mentre Sergio Benedetti ha proposto una datazione intorno alla metà del Seicento, modificando poi il suo giudizio oralmente in caso di esami visivi posteriori.
Ad una visione diretta la tela sembra molto interessante, nonostante i tagli subiti, per la tensione drammatica e la caratterizzazione fisionomica delle figure concentrate nello spazio scenico: emerge una stesura rapida nei volti e nel trattamento delle pieghe dei panneggi. Le figure, di dimensioni minori rispetto alle altre repliche, quasi compresse, sembrano immobili e paralizzate, esprimendo l’orrore per il tradimento rappresentato: lo spazio in aggiunta è occupato per lo più da fondo scuro, dove si notano numerosi ramoscelli d’ulivo (FIG. n. 14), presenti nelle altre repliche, derivate dal dipinto irlandese. Ricorrono gli stessi elementi del vocabolario caravaggesco: il modellato naturalistico, l’intenso chiaroscuro, la visione ravvicinata dei personaggi. Colpiscono l’occhio del conoscitore molti dettagli, non rifiniti, ma fortemente espressivi.
Gli attori del dramma che si svolge direttamente davanti ai nostri occhi sono immersi in una fitta penombra, tagliata da squarci di luce proveniente dalla lanterna e da una sorgente diagonale posta a sinistra: attraverso velature a base di bitume, che creano ombre calde e trasparenti, l’artista conferisce pathos drammatico, coinvolgendo emotivamente lo spettatore.
Il dipinto appare di fattura poco rifinita ed emergono note tecniche che rimandano al Merisi: continua ad essere visibile sotto il braccio del soldato il mantello arancio di Giuda, confermando la tradizionale tecnica a sovrapposizione di strati dal fondo verso lo spettatore. E’ visibile quasi un doppio braccio del traditore, segno di una stesura non finita o di una fase di studio proprio della diversa posizione dell’arto. E’ vivace il contrasto tra l’aranciato del braccio di Giuda ed il rosso acceso del panneggio, forse a base di cinabro, che incorona le due teste, con pieghe ben definite plasticamente, dalle forme appuntite.
Lo strato pittorico appare sottile e la preparazione resta in vista in alcuni punti, secondo la tradizionale tecnica en reserve: ad esempio si nota l’effetto della ruggine sull’armatura (FIG. n. 15), dove il nero è ridotto ad una velatura sottile ed emerge la preparazione aranciata sottogiacente: questo effetto realistico è stato ottenuto probabilmente raschiando con l’estremità del pennello la superficie pittorica. E’ un dettaglio interessante, evidente anche nella tela di Dublino: Bellori descrivendo il dipinto di Caravaggio parlava proprio di “armatura rugginosa”.
Appaiono ben curate le ombre sulle mani, che costituiscono il fulcro prospettico e si prestano ad un confronto con la S. Orsola (FIG. n. 16).
Alcune striature bianche, visibili ad occhio nudo in corrispondenza dei profili delle teste, potrebbero corrispondere a pennellate di biacca e nel fondo, vicino alla mano di Giovanni, traspare un profilo scuro, forse di una testa successivamente ricoperta.
Anche ad un esame diretto, in attesa di conferma da parte di esami scientifici e di uno studio più approfondito sono visibili alcuni dettagli significativi, che rimandano alla pittura di Caravaggio e affini variamente alla versione Bigetti o a quella irlandese, che suggeriscono di datarla entro i primi due decenni del Seicento.
E’ interessante un confronto dei volti delle figure (FIG. n.17), posti in primo piano:
ad esempio il volto di Cristo, che appare svelato, è emaciato, livido, scavato dal dolore, e fortemente espressionista, discostandosi da quello della tela di Dublino, ugualmente intenso, ma più largo ed arrotondato, e di fattura più morbida e levigata; le ciocche di capelli arricciate ricordano quelle del dipinto Bigetti: sono dipinte probabilmente a bitume misto a nero di vite, con leggere velature. Il volto di Giuda (FIG. n.18) è di qualità elevata e interessante: stempiato, quasi calvo e con una specie di tonsura, con un profilo gibboso del naso ed una leggera intonazione rosata delle guance, ottenuta forse con l’impiego di cinabro.
Il contorno dell’orecchio è ben disegnato e sono dipinti gli occhi malinconici del manigoldo, anche se nemmeno osa guardare Gesù. Sono ancora presenti le irregolarità anatomiche, che sembrano ammorbidite nella versione irlandese: sulla sua mano è ben visibile la cicatrice, eseguita in modo scultoreo (FIG. n. 19).
Il blu del manto di Gesù è brillante (FIG. n. 20),
forse a base di lapislazzulo, con una velatura scura sovrapposta, per “ammorzare l’azzurro”, secondo il procedimento caravaggesco, descritto da Bellori, con un effetto simile a quello della S. Caterina, in collezione Thyssen (FIG. n. 21): ricorda quello della versione irlandese, mentre nella versione Bigetti risulta più scuro[40].
Questi dettagli, congiuntamente al formato quadrato, la distinguono tra le varie repliche, derivate dall’esemplare di Dublino, connotandola come una replica eseguita di fronte alle due versioni, di cui offre una sintesi interessante o più probabilmente una versione intermedia. Fu tagliata, forse per adattarla ad un’ubicazione, magari come sopraporta, studiando l’effetto prospettico prodotto dalla riduzione del braccio: si può lasciare aperta l’ipotesi che sia una delle versioni documentate negli inventari Mattei, magari avviata dallo stesso Merisi in una fase di studio e poi terminata da un collaboratore o in una fase successiva da van Honthorst, citato negli inventari e a cui rimandano anche alcuni tratti nordici nei dettagli fisionomici.
Appare suggestivo ipotizzare un suo intervento in questa interessante versione della Presa di Cristo, anche se non è possibile fornire ulteriori conferme, allo stato attuale della ricerca.
Un’attenta pulitura ed un esame più approfondito potrebbero sciogliere alcuni dubbi e svelare parte del mistero, riservando sorprese interessanti.
La mostra di Ariccia è stata una palestra importante per l’esercizio del mio occhio e dal catalogo ho tratto una serie di spunti interessanti, che mi hanno stimolato a nuovi confronti e a riprendere lo studio delle varie versioni conosciute della Presa di Cristo, nelle loro varianti stilistiche, tecniche ed iconografiche.
Le numerose repliche sono un documento tangibile del successo dell’iconografia ideata da Caravaggio per i Mattei. La Presa di Cristo è una geniale invenzione: l’artista, maestro del chiaroscuro drammatico, s’ispira alle scene della Passione rappresentate per strada e cita con intelligenza dettagli da altre rappresentazioni dedicate al tema e dalle sue stesse opere, offrendo una sintesi del suo personale vocabolario.
L’occhio del conoscitore non riesce a distinguere un autografo se cerca solo la bellezza e la perfezione estetica, ma deve concentrarsi sulla ricerca di realismo e forza drammatica, fondamentali nel linguaggio del Merisi, che a volte inserisce dettagli crudi, imperfetti ed espressionisti. Caravaggio infatti non aspirava al bello ideale, ma preferiva portare sulla scena un dramma reale, astratto da precise coordinate spazio-temporali, che assume un valore universale.
I dipinti, impregnati di una forte spiritualità, sono entità vive, con personaggi che sembrano reali ed esercitano un’attrazione magnetica; in realtà sono il risultato di una sapiente regia compositiva e luministica, con una sintesi di più scene e con attori ritratti simultaneamente da più punti di vista. Queste composizioni a volte possono risultare criptiche, ma al tempo stesso sono aperte a più chiavi di lettura. La loro potenza non si rivela immediatamente, ma per gradi, con alcuni dettagli sofisticati che restano avvolti nel buio e nel mistero e richiedono tempo per essere apprezzati.
Il problema dei doppi, repliche autografe e copie, con o senza varianti, è al centro degli interessi degli studiosi dell’artista. Già al tempo di Caravaggio circolavano copie di diversa qualità, che si confondevano con il dipinto autografo, e che anche gli occhi più esperti spesso non erano in grado di distinguere, come sottolinea più volte Mancini. La ricostruzione critica del catalogo di Caravaggio è proceduta attraverso scoperte a volte clamorose e dalle copie spesso si è risaliti all’originale, secondo la metodologia già suggerita da Longhi: in alcuni casi si sono registrati pareri opposti da parte dei maggiori esperti, basandosi sull’individuazione di note stilistiche o tecniche distintive.
Il dibattito sui doppi di Caravaggio è segnato da vicende critiche interessanti, che spesso si sono risolte grazie all’apporto dei risultati delle indagini diagnostiche e allo studio incrociato di fonti ed inventari.
Gli esami scientifici consentono di conoscere meglio la tecnica dell’artista e rappresentano la strada più percorribile per operare una distinzione tra originali e copie, ma i dati vanno interpretati correttamente, evitando una valutazione schematica dei singoli elementi di tecnica esecutiva e mirando ad una lettura integrata.
E’ necessaria anche un’approfondita ricerca storica per orientarsi tra le varie repliche circolanti di un soggetto inventato dall’autore, effetto della sua fortuna critica: i documenti non sempre risolvono i problemi in modo definitivo, in assenza di una concordanza precisa tra le carte archivistiche e le notizie fornite dai biografi, che magari scrivevano sulla base delle copie di loro conoscenza. Gli inventari documentano la presenza di più versioni, senza specificarne a volte l’autore e senza distinguere originali e repliche. Spesso anche le dimensioni documentate non corrispondono, a causa di successive decurtazioni o cambi di cornici.
Questo stimola lo studioso a guardare la pittura caravaggesca da più punti di vista: per comprendere il linguaggio e l’evoluzione di un artista così rivoluzionario, aperto alla sperimentazione, bisogna modificare le proprie griglie di lettura e specializzarsi in vari campi.
Il metodo pluridisciplinare, già applicato nei dipinti della Presa di Cristo, potrà essere sperimentato e perfezionato in altri casi controversi. Il dibattito resta aperto: le vicende critiche caravaggesche favoriscono un’evoluzione dei metodi di studio, in un confronto vivace tra i conoscitori, gli studiosi d’archivio, gli storici, gli iconologi e gli esperti della tecnica, cui si stanno aggiungendo anche gli psicoanalisti.
Barbara SAVINA Roma 11 Febbraio 2024
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