di Barbara SAVINA
Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo contributo della dott.sa Barbara Savina, autrice del volume Caravaggio tra originali e repliche, edito nel 2013 per i tipi dell’editore etgraphiae, che ripercorre una vicenda collegata al collezionismo e all’attribuzionismo, temi sempre delicati, in particolare quando interessano la figura e l’opera di Caravaggio. La studiosa ha di recente approfondito ed ampliato l’argomento con un saggio dal titolo La produzione di repliche nella lettura di fonti ed indagini scientifiche, pubblicato nel volume a cura di Vittorio Sgarbi, Ecce Caravaggio. Da Roberto Longhi ad oggi, (La nave di Teseo, 2021); in questo intervento l’autrice riprende un suo saggio comparso nel volume Amica veritas. Studi di storia dell’arte in onore di Claudio Strinati, pubblicato dall’editore Quasar (Roma, 2020) che ringraziamo per la cortese collaborazione.
Recentemente ho avuto la fortuna di ritrovare in una collezione privata e di visionare questa tela di altissima qualità raffigurante i Bari, (fig.1), pubblicata in passato come originale di Caravaggio, già inserita nel libro Caravaggio tra originali e repliche, derivato dalla mia ricerca di dottorato (Cfr. Savina 2013).
Il dipinto ha una vicenda intrigante e parallela a quella dell’esemplare di Caravaggio, conservato in Texas, al Kimbell Museum, scoperto posteriormente ed oggi considerato l’originale dalla maggior parte degli studiosi (fig. n. 2).
L’iconografia è un’invenzione geniale del giovane artista e godette di straordinaria fortuna presso gli amatori: già ai tempi del maestro ne circolavano più versioni, tra le quali non è stato semplice individuare il prototipo. Questo, stando alle fonti, dipinto intorno al 1596, venne esposto in una bottega vicino a piazza Navona, fu acquistato dal cardinal Del Monte, e poi venduto ai Barberini nel 1628.
Il timbro della raccolta delmontiana è stato ritrovato da sir Denis Mahon sull’esemplare americano, scoperto nel 1986 e l’autografia è stata confermata sulla base delle caratteristiche stilistiche e tecniche. Ma prima di questo evento era proprio la tela in questione (vedi fig. 1), scoperta precedentemente, ad essere ritenuta l’originale, citato dalle fonti e da Bellori, che lo vide nel 1672 in casa di Antonio Barberini.
Questa è una prova certa della sua qualità, evidente ad un esame diretto, che la distingue da altre copie circolanti nell’ambiente collezionistico. Rispetto all’esemplare americano l’iconografia e l’impianto compositivo appaiono identici, mentre le dimensioni leggermente superiori, ne confermano la datazione antica: in un’incisione settecentesca compare una striscia aggiunta nella parte superiore del dipinto di Caravaggio, successivamente rimossa nella tela del Kimbell (fig. 3).
Di questo dipinto circolava solo una modesta riproduzione fotografica in bianco e nero, che apparve per la prima volta sulla rivista Commentari in un articolo che recava la firma prestigiosa di Lionello Venturi, autore della sua scoperta nel 1950 in un magazzino di New York: la tela era in precarie condizioni, appariva ridipinta, con cadute di colore, evidenti soprattutto in prossimità dei volti delle due figure in primo piano e con la zona superiore del fondo ripiegata per adattarlo ad una cornice
Grazie al restauro riemersero le tinte vivaci, Venturi ne fu entusiasta e pubblicò la tela come l’originale citato dalle fonti, definendolo “una delle più felici invenzioni cromatiche del Caravaggio”, nella sua prima maniera veneziana, secondo le parole di Bellori, e “con una grande sapienza nell’espressione degli stati d’animo”(Cfr. Venturi 1950). Sembrava confermare l’attribuzione un cartellino, ritrovato sulla cornice, con l’iscrizione “Rotschild”, da cui si è generato un interessante equivoco: il dipinto di Caravaggio, già nella raccolta Del Monte e poi in collezione Barberini, era passato nell’Ottocento nella Galleria Sciarra, alcuni dipinti della quale erano poi confluiti nella collezione Rotschild.
La tela, scoperta da Venturi, già presso la galleria Knoedler di New York, è stata in seguito messa in vendita all’asta Sotheby di Londra del 1969 (lot. 36) come un Caravaggio e, dopo il passaggio attraverso la Galleria d’arte Bosoni, è scomparsa dal mercato antiquario alla fine degli anni Sessanta, fino al recente ritrovamento.
Gli studiosi hanno espresso pareri discordi sull’autografia, confrontando la foto pubblicata da Venturi con quella dell’esemplare caravaggesco eseguita nell’Ottocento dallo studio parigino Braun e Clement in palazzo Sciarra. Sono documentate copie commissionate dai Barberini e, anche sulla base del cartellino presente, è stato supposto che questa replica avesse preso il posto dell’originale (Cfr., Moir 1976 e Marini 2001): negli inventari delle collezioni antiche non sono inusuali gli scambi tra originali e repliche.
Quest’interessante vicenda critica offre un’opportunità preziosa per tornare sulla questione del rapporto tra originali e copie di Caravaggio nella Roma del Seicento.
Quando ho avuto la possibilità di vedere la tela direttamente, ho provato una grande emozione, e forse lo stesso entusiasmo di Venturi, convinto di aver scoperto l’originale del Merisi. Il suo articolo può essere riletto oggi con una nuova consapevolezza critica.
L’opera è sicuramente caravaggesca: si distingue infatti per il luminismo vibrante ed i vivaci contrasti chiaroscurali. Nella bella fotografia a colori, eseguita in occasione del recente ritrovamento, sono già evidenti le note luministiche e coloristiche, che si leggerebbero meglio dopo un ulteriore intervento di pulitura.
La luce è la vera regista della composizione e caratterizza in senso drammatico la composizione, guidando l’occhio sui dettagli. Non c’è fiacchezza o rigidità esecutiva. Gli attori s’impongono con risalto plastico sulla scena, che si distingue nel realismo e nella vivacità espressiva delle figure, ben caratterizzate psicologicamente: lo spettatore è coinvolto nell’inganno, che si sta svolgendo davanti ai suoi occhi, attraverso la rete prospettica delle diagonali.
Sopravvive un residuo manieristico nel giocatore di sinistra, con l’espressione assorta e concentrata, vittima dell’inganno, mentre sembra studiata dal vivo l’altro che spia le carte e con astuzia fa cenni al compagno (figg. 4 e 5).
L’autore, sicuramente esperto ed aggiornato sulle novità della tecnica caravaggesca, riesce ad emulare il maestro nella resa del chiaroscuro, nella pennellata e nell’esecuzione dei dettagli dei costumi, tipici della commedia dell’arte, come i ricami sul collarino del giovane ingannato ed il guanto scucito del truffatore.
La stesura pittorica è sciolta: i volti sono modellati con energia e si notano i tocchi veloci nel vestito del giovane ingannato e la tensione nella mano che trattiene le carte. Ritornano note tecniche distintive della maniera caravaggesca: i bordi degli incarnati sono profilati con un contorno scuro, tracciato forse con il manico del pennello. Direttamente in primo piano non sfuggono ad un occhio esperto le profilature delle unghie delle dita del baro, che nasconde la carta dietro la schiena (fig. 5).
Attraverso indagini diagnostiche si potrebbero individuare dati compatibili con la tecnica caravaggesca e l’uso di pigmenti seicenteschi.
E’ una replica tratta direttamente dall’originale, molto probabilmente attraverso un lucido, che conserva la freschezza dell’invenzione, tutti i tratti caratteristici ed è intercambiabile con il prototipo, al punto da ingannare anche l’occhio più esperto sia tra gli antichi che tra i moderni critici. L’autore va cercato nella cerchia di caravaggeschi attivi a Roma nei primi decenni del Seicento, con artisti esperti e specializzati nel replicare le composizioni del maestro richieste da un mercato sempre più vasto e dagli amatori collezionisti. Per repliche di così alta qualità come questa, si è anche supposto l’intervento manuale del maestro e la sua supervisione nell’esecuzione di più versioni autografe di dipinti di successo.
Questo tipo di repliche ai tempi di Caravaggio erano fortemente apprezzate e ricercate, godettero di straordinario successo e sono state protagoniste di interessanti vicende critiche di inversione originale-copia: avevano lo stesso valore culturale degli originali, poiché davano priorità all’inventio, che restava invariata.
Il dibattito critico rimane aperto: già ai tempi del maestro c’era confusione tra originali, repliche e copie, come dimostrano le citazioni negli inventari e gli atti del processo del 1621, successivo ad un furto, documento interessante della circolazione di varie versioni di questo soggetto.
Barbara SAVINA Roma 3 ottobre 2021
Bibliografia
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B. Savina, Il ritrovamento di un’interessante versione dei Bari: ancora su Caravaggio tra originali e copie, in Amica Veritas. Studi di storia dell’arte in onore di Claudio Strinati, Roma 2020, a cura di A. Vannugli, pp. 447-459.
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B. Savina, Caravaggio tra originali e copie. Collezionismo e mercato dell’arte a Roma nel primo Seicento (Foligno, et Graphiae 2013), V, n. 11, p. 117 e pp. 111-116, con bibliografia precedente;
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L. Venturi, Il Baro di Caravaggio ritrovato, Commentari, I, 1950, pp. 41-43;
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W. Friedlander, Caravaggio studies, New York 1955, p. 154;
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A. Moir, Caravaggio and his copysts, New York 1976, p. 105;
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M. Cinotti, Michelangelo Merisi detto il Caravaggio. Tutte le opere, in I pittori bergamaschi dal XIII al XIX secolo. Il Seicento, Bergamo 1983, p. 555;
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M. Marini, Caravaggio pictor praestantissimus, Roma 2001, p. 404;
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J. Spike, Caravaggio, New York Londra 2001, nuova ed. 2010, n. 7, p. 28