di Francesca SARACENO
“ANIME SALVE”. Nel ricordo del grande cantautore genovese, a 83 anni dalla sua nascita
Chi lo vuole “santo” e chi lo vuole “miscredente”.
É l’italica attitudine all’incasellamento forzoso, all’etichettatura obbligatoria che favorisca l’altrettanto italica tendenza alla faziosità a tutti i costi. E chi non è con me è contro di me…
Niente di più tragico, quando questa infausta attività si applica a un artista. É il segno che, più che tentare di comprenderlo e apprezzarlo per il valore assoluto della sua arte, si cerca di farlo assomigliare alla nostra “idea” di realtà. A quella che riteniamo più vicina al nostro modo di intendere la vita e il mondo. Gli cuciamo addosso il nostro modo di guardare le cose per illuderci di avere ragione.
Molti studiosi ed esegeti, nel tempo, hanno visto in Caravaggio un fervente e scrupoloso osservante della dottrina cattolica; altri invece lo hanno ritenuto ateo e sferzante, convinto oracolo (a sua insaputa) di future ideologie riformiste. Posizioni diametralmente opposte che, per loro stessa natura, non credo si possano condividere totalmente. Sulla religiosità di Caravaggio si è discusso molto, in un senso e nell’altro, ma senza mai approdare a una visione comune, condivisa. Forse perché l’argomento è stato sempre affrontato sulla scorta delle varie interpretazioni che, via via, si sono affermate riguardo alle sue opere, tenendo conto anche di testimonianze e documenti a supporto, ora dell’una ora dell’altra teoria. Eppure credo che, in realtà, non si sia mai provato a ragionare a un livello diverso. Non “superiore” ma “super partes”.
Poterglielo chiedere: “Maestro, voi credevate in Dio?”. Probabilmente Caravaggio risponderebbe qualcosa del tipo:
“Non ebbi il dono della fede ma nella mia vita non potei prescindere da Cristo.”
Nell’ipotizzare una supponibile risposta del Merisi alla mia immaginaria domanda, ho volutamente parafrasato l’affermazione di un altro sommo artista, un “ateo” (lui si) per sua stessa ammissione.
A Fabrizio De André, infatti, lo chiesero più volte se credeva in Dio; quasi a sfidarlo, a strappargli una sorta di confessione a cui poterlo “inchiodare”. E lui rispondeva con quelle parole, spiazzando tutti.
Ebbene, personalmente troverei verosimile che Caravaggio e De André fossero “atei” più o meno allo stesso modo. Nel senso che entrambi avessero oggettive difficoltà – per ragioni diverse – a confrontarsi con il Dio prescritto dalla Chiesa. Quel Dio lontano, invisibile, misterioso, insondabile; con cui non si può parlare, che non si può dipingere “dal vero”, e che però organizza e condiziona la vita dell’uomo sulla terra secondo i parametri dogmatici stabiliti dai suoi “ministri”. Ciò che probabilmente diverge in questa visione, tra i due artisti, è proprio in quest’ultimo punto: Faber anticlericale convinto, Michelangelo “fedele” a Santa Romana Chiesa “per forza” se non “per vocazione”. E dunque, come accettare l’idea di una Chiesa-legge che condanna e assolve, che predica e non razzola, che sembra e non è…?
I sostenitori del Caravaggio “santo”, ovvero, fervente araldo dei precetti tridentini, nonché convinto osservante della filosofia borromiana, amico e frequentatore di acclarati oratoriani, vedono nei suoi dipinti l’espressione chiara di una forte religiosità; la testimonianza visibile di una personale adesione al cattolicesimo più ortodosso. E dimenticano spesso che quella espressione pittorica così crudamente, appassionatamente pauperista, proprio in quanto figlia legittima dell’arte della Controriforma e della provenienza dagli austeri ambienti borromiani, costituiva per l’artista lombardo un fondamento concettuale obbligato, un bagaglio culturale e artistico imprescindibile; ma questo non implica necessariamente un coinvolgimento personale. Così come non lo nega, né lo spiega. Peraltro è difficile immaginare, nel suo tempo, che a qualcuno potesse venire in mente non dico di negare, ma anche solo di mettere in dubbio l’esistenza di Dio. Non fosse altro che per la paura di essere tacciati di eresia.
Quelli che lo vogliono “ateo”, invece, si attaccano spesso alle turbolenze del suo carattere, a una certa manifesta indifferenza verso le convenzioni e, in definitiva, a quello che considerano un chiaro rigetto delle imposizioni ecclesiastiche, avvalorato dai suoi numerosi pellegrinaggi a “nostra signora del carcere” e che si sarebbe manifestato, nei suoi dipinti, attraverso l’esaltazione della verità della miseria opposta all’ipocrisia e alla corruzione del ricco clero. E dimenticano, che proprio quel “ricco clero” fu il più munifico ed entusiasta committente del Caravaggio; quello che, con sua grande soddisfazione, determinò la sua fortuna e la sua gloria.
Similmente per De André, molta critica non ha mai voluto credere davvero al suo affermato ateismo, per via delle sue frequentazioni con alcuni sacerdoti (don Carlo Scaciga, ad esempio, che gli fece dono dei Vangeli Apocrifi; oppure don Antonio Gallo, il “prete di strada” fondatore della Comunità di San Benedetto al Porto, che faceva apostolato tra i diseredati di Genova), nonché per le tante canzoni in cui ha trattato la materia religiosa, dimostrando non solo di conoscerla profondamente ma anche di averne assimilato i significati più reconditi. Peraltro, quando arrivò “La Buona Novella” nel 1970 (fig. 1), nel bel mezzo delle manifestazioni di piazza, delle lotte di classe, i “laicissimi” colleghi di De André, cantautori “politicamente impegnati”, criticarono aspramente Fabrizio che, proprio in quel momento storico, se ne usciva – invece – con un album di canzoni sulla storia di Gesù.
Ma forse nessuno di loro considerò che, un uomo colto, di grandissima intelligenza e di ancor più ampie vedute, com’era Faber, poteva tranquillamente interessarsi e studiare il fenomeno “religione”, come qualunque altro argomento filosofico, senz’altro movente che non fosse la curiosità, la sete di conoscenza, la voglia di “capire”.
Proprio per questo, Caravaggio e De André, sebbene in epoche e contesti operativi diversi, in quanto artisti e dunque “intellettuali”, elaboratori del pensiero, tradotto ora in forma di immagine, ora in forma di poesia/canzone, semplicemente non poterono prescindere dal confronto con il divino.
Ma, fermo restando che sia l’uno che l’altro hanno trattato la tematica religiosa muovendosi nell’ambito dell’arte (pittorica e musicale) e che dunque le loro “visioni” sono comunque da ricondurre nel solco di una espressione “libera” del pensiero creativo, io azzarderei l’ipotesi che la loro spiritualità (preferisco definirla così) – consapevole o meno – avesse origine in una visione più “larga” dell’idea del divino, che non quella circoscritta al culto asfittico, alla liturgia passiva, al dogma che prevale sul pensiero.
Osservando le loro “Marie”, ad esempio, possiamo notare come esse siano tanto lontane dalla trascendenza quanto inarrivabili nella loro essenza umana. Entrambi gli artisti hanno interpretato la figura della Vergine con l’unico metro della realtà oggettiva. Maria è donna prima ancora che Madonna. “Femmina un giorno e poi madre per sempre”, dice di lei De André, rimarcando l’assoluta, imprescindibile umanità di una donna che è sì “ancella del Signore”, ma prima di tutto è madre. E madre nel senso più intimamente, più “religiosamente” terreno.
Madre quando perde il figlio e corre a cercarlo al Tempio, madre quando lo ammonisce alle nozze di Canaa, madre quando, affranta, lo segue sul Golgota e Fabrizio le caccia in gola l’unico vero grido di una madre “umana”…
“Non fossi stato figlio di Dio, ti avrei ancora per figlio mio.”
Una visione eterodossa, decisamente rivoluzionaria rispetto all’iconografia tradizionale che vorrebbe la Vergine mite e obbediente, profondamente immersa nel suo ruolo di entità celeste, astratta, avulsa dai sentimenti umani. Eppure, mai come nel mistero della maternità “terrena” si può incontrare il mistero divino: la facoltà della “creazione” della vita. E il dolore profondo della sua perdita, che non ne nega la sacralità, anzi, la accentua.
E le Madonne di Caravaggio hanno tutte quella stessa viscerale corporeità terrena, quella stessa urgenza di verità che le allontana da eterei cori celesti e le immerge, invece, in una quotidianità totalmente umana. Eppure la Maria di Caravaggio è autorevolmente “Madonna” proprio quando è inderogabilmente “madre”.
Puerpera stanca, distesa sulla paglia nella stalla della “Adorazione” di Messina (fig. 2), mentre mostra ai pastori il frutto benedetto del suo ventre; mamma indaffarata eppure luminosa e solenne, sulla porta di Loreto, col suo bimbo in braccio, mentre – generosa – concede udienza e benedizione alla più infima umanità prostrata (fig. 3);
madre attenta, operosa e solerte, con la veste annodata su un fianco, mentre sorregge e assiste il Figlio nella vittoria sul male, sotto lo sguardo compiaciuto di Anna (fig. 4);
“materdolorosa” in ogni piega del volto, al cospetto del Figlio morto deposto dalla croce, eppure viva e partecipe, al dramma terreno della morte come alla profezia celeste della resurrezione (fig. 5). Madre fino e oltre l’ultimo suo respiro terreno, distesa esanime su un umile catafalco, dove il suo ventre prominente esalta ed eterna la maternità quale valore assoluto (fig. 6).
Trascendenza e immanenza, in Caravaggio, si compenetrano senza negarsi, senza perdere ciascuna la propria identità.
Caravaggio e De André, artisti alla ricerca del divino nelle creature terrene, profeti entrambi di una spiritualità concreta. Se credevano in Dio? Mi avvalgo della facoltà di non rispondere… ma certamente avevano ben chiaro il messaggio di Cristo, e ciò che Egli rappresentò per la storia dell’umanità: l’incarnazione – se non della divinità – sicuramente della “filosofia del bene e della giustizia”.
E in quanto tale, per Fabrizio De André Gesù fu “il più grande rivoluzionario di tutti i tempi”; per Caravaggio una “verità” oggettiva, prima ancora che ideologica, più ancora che di fede, e raffigurabile in quanto umana. La manifestazione “plastica”, corporea, del divino. Quello “possibile”. Quello esperibile. Non il “figlio di Dio” ma il “figlio dell’Uomo”, venuto per gli ultimi.
Non c’è un Cristo dipinto dal Caravaggio che mostri una trascendenza congenita, “canonica”, ma una luce potente, quasi violenta, lo investe e lo riveste, ogni volta, di una autorevolezza regale e spirituale che lo distingue, pur nella sua umana caducità, nel dolore fisico, nei gesti.
É un Caravaggio che spesso sfida l’ortodossia iconografica e devia dai rigidi canoni dell’arte imposti da certo classicismo “politicamente corretto”, e attinge, invece, a piene mani e quasi alla lettera dai testi sacri. Non una “sequela” dottrinale, ma un intimo, “artistico” bisogno di verità. L’urgenza del suo realismo lo portò a quelle scelte che gli costarono malignità e amarezze. Eppure, era fin troppo chiaro che il divino abitasse tra le setole dei suoi pennelli e prendesse forma visibile sulle sue tele, attraverso la sua luce spirituale.
E rispondendo a quel bisogno di verità, se il Vangelo proclama che Cristo è venuto per gli ultimi e per i peccatori, Caravaggio e De André non possono che dipingere e cantare gli ultimi e i peccatori; riservare ad essi l’onore degli altari e dei palcoscenici, anche se questo procura scandalo e li conduce “in direzione ostinata e contraria”. Anzi, proprio per questo.
Il Matteo della “Vocazione” di Caravaggio (fig. 7) e il Tito del “Testamento” di De André: due “senza legge”, ladri entrambi, ciascuno nel proprio nome, ma mai “nel nome di Dio”.
Gli “hortacci” e via del Campo: i reietti e i disillusi, le cortigiane e le “graziose”. Perché mai non si dovrebbe poter “spezzare il pane” sotto l’immagine di un santo scalzo, o non ci si dovrebbe poter inginocchiare sotto l’effige di una Madonna popolana? Michelangelo esaltava “l’amore sacro” nei volti della povera gente, dei peccatori, quelli per cui Dio si era fatto uomo; Fabrizio nobilitava “l’amor profano”, dando un nome a persone che la società aveva trasformato in “categorie”.
É scritto:
“i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio.” (Mt 21, 28-32)
Caravaggio non fece che attenersi scrupolosamente al dettato Evangelico, trovando nella figura di Cristo il compimento di quella umanità estrema – terrena eppure divina – che si estrinseca in una forma d’Amore assoluto. Quello che Faber definisce “inumano”. Non sovra-umano ma in-umano, ossia che va oltre l’umano. Perché “inumano è pur sempre l’amore, di chi rantola senza rancore, perdonando con l’ultima voce, chi lo uccide tra le braccia di una croce”. L’uomo che fu capace di una tale, inusitata forma d’amore fu certamente “diverso”, ma comunque un uomo.
La stessa “mite potenza” del Cristo di Caravaggio che accetta la flagellazione (fig. 8) o l’incoronazione di spine (fig. 9) senza un cenno di biasimo, senza un moto di condanna.
Soffre come un uomo, perdona con una forza “in-umana”.
E se riuscì a farlo un uomo inchiodato a una croce, possiamo farlo anche noi. Non ci hanno detto forse che siamo tutti figli dello stesso “Padre”, dello stesso Amore? E allora “Gesù è anche mio fratello”, dice De André, e se è fratello suo è fratello di tutti. Come Lui tutti possiamo perdonare, tollerare, accudire, accogliere. Amare è nella nostra “natura”, se sappiamo ancora vederla. La sequela della filosofia di Cristo è una scelta “morale” prima ancora che un precetto religioso. É questo che traspare dalla spiritualità di Faber come di Caravaggio.
La tanto declamata “moralità” che la Chiesa invocava e raccomandava come dogma inderogabile, anche attraverso l’arte, con Caravaggio – e poi con De André – si anima di un significato nuovo, come espressione autentica e “possibile” dell’essere umano che, nell’esempio di Gesù, di Maria, dei Santi, compie pienamente il significato più vero e profondo del cristianesimo: l’Amore universale, che nulla esclude e nessuno dimentica. La pittura e la musica hanno la facoltà di rendere eterno questo concetto di Amore.
De André forse non credette mai che Gesù fosse l’incarnazione di Dio sulla terra ma nel suo messaggio vide la via per una redenzione che solo gli uomini possono compiere per se stessi.
E Caravaggio avrà davvero presenziato al rito delle “Quarant’ore” con Prospero Orsi, quella mattina di ottobre del 1597, ma con quale “spirito” non è dato sapere. Né se abbia effettivamente “adorato” l’Eucaristia o se abbia fatto solo atto di presenza “a scopo promozionale”.
Ciò che sicuramente “adorarono” entrambi gli artisti fu la verità. Quella dei “quartieri (di Genova) dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi”, e quella dei vicoli di Campo Marzio, delle bettole e degli “hortacci” della Roma del Seicento. Perché se esisteva, invece, Dio era proprio lì.
Il Dio di Caravaggio e di De André è un “Grande Spirito in cui si ricongiungono tutti i minuscoli frammenti di spiritualità dell’universo”. Tutti. Nessuno escluso.
É forse con questa intima coscienza che Caravaggio elesse la “natura” a suo unico “modello”. Era la sola entità in cui potesse riconoscere il divino in quanto visibile, e dunque raffigurarlo. Nel mondo e nella materia Caravaggio seppe cogliere il soffio dell’Assoluto. Nella natura umana, seppe indagare e scoprire il significato profondo dell’esistenza. Egli vide, “fece esperienza” del divino, nella mela bacata e nella foglia avvizzita, nelle rughe del volto e nel disfacimento della carne. Il Dio di Caravaggio non è un’entità estrema e inarrivabile, non abita cieli azzurri e non si manifesta nella gloria di indefinibili figure alate incorporee. Egli è nella “verità” delle cose. L’alito dell’Infinito che spira nella polvere e nel mattone, nella luce abbagliante che rischiara l’acqua limpida e il fango, in ogni più insignificante manifestazione del creato, in ogni cosa che è parte di un “tutto”.
E quel “tutto” è il Dio di Caravaggio. E probabilmente anche quello di De André…
Due “credenti alternativi”, forse, e per questo… “anime salve”.
“Ricorda Signore questi servi disobbedienti / Alle leggi del branco / Non dimenticare il loro volto…”
(F. De André, “Smisurata preghiera”, album “Anime salve”, 1996)
Francesca SARACENO Catania 19 Febbraio 2023