di Elena Tamburini
Che la data del 1830 sia d’importanza cruciale per il movimento romantico è noto:
è l’anno della battaglia per l’Hernani di Victor Hugo, inequivocabilmente vinta dai romantici. Meno spesso si pensa che è anche l’anno della “prima” di un’altra rappresentazione, forse meno clamorosa, ma gravida di conseguenze su un altro versante, quello del melodramma: l’Anna Bolena di Donizetti. Non è ancora la Lucia, che si potrebbe dire il vero maturo capolavoro del genere, ma certamente apre la via a questa come a tante altre opere successive, in Italia e fuori d’Italia. Un anno davvero cruciale anche da altri punti di vista (si pensi ai moti del 1830-31 in tutt’Europa, che portarono, in Francia, perfino alla detronizzazione di Carlo X), un anno che riuscì a dimostrare come la Restaurazione imposta risultasse in tutti i sensi davvero molto stretta.
Delle nuove sensibilità inquiete sono specchio le due opere che furono commissionate per la stagione del teatro Carcano, l’Anna Bolena e la Sonnambula, rispettivamente a Donizetti e a Bellini allo scopo di “lanciare” in maniera forte anche il teatro concorrente della Scala e spostare così da Napoli a Milano il centro della cultura musicale italiana. Impresa, com’è noto, riuscita. A questo scopo si poteva anche sfruttare la rivalità “interna” dei due musicisti più in voga dell’epoca, anche se il già affermato (ma non abbastanza) Donizetti e l’astro nascente Bellini non erano del tutto incompatibili e Anna Bolena lo dimostrerà ampiamente. Una rivalità quindi giocata in maniera spregiudicata: nello stesso teatro, con lo stesso librettista Felice Romani, lo stesso scenografo Alessandro Sanquirico (anch’essi innovatori di successo) e perfino la stessa coppia di cantanti, due veri “divi” dell’epoca, Giuditta Pasta e Giovanni Battista Rubini.
Tra questi valorosi artisti è Giuditta a meritare qui qualcosa più di un accenno.
Se il librettista ha qui immaginato percorsi di interni labirintici, se lo scenografo ha saputo esprimerli efficacemente chiudendo l’unico esterno entro una cancellata che ha il merito di prefigurare la prigione finale, Giuditta è senza alcun dubbio l’interprete di riferimento del nuovo repertorio. Non solo. Essa ospita Donizetti nella sua villa sul lago di Como in quel suo mese di folle lavoro per mettere a punto l’opera. E Donizetti la penserà, quest’opera, come la pensava un uomo di teatro quale egli era, cioè pensando innanzitutto al momento dello spettacolo e dunque subordinando la sua scrittura musicale alla vocalità della Pasta: estesa, ma aliena dagli “ornamenti”, tragica ed espressiva e dolce, tutto al più alto grado. I commenti dell’epoca sono superlativi a suo riguardo. Il grande attore tragico francese Talma riconobbe in lei l’arte di commuovere, quell’arte “sacra e inviolabile” da lui stesso inseguita. Secondo Stendhal (che avrebbe proprio quell’anno pubblicato Le rouge et le noir) era capace di “mettere le lagrime nella voce”. Il Morning Magazine la definì la “più grande attrice tragica che si sia mai vista” e insieme la “miglior cantante del giorno”. L’opera si potrebbe dire dunque il risultato della collaborazione tra il musicista compositore e la virtuosa delle scene; e se ricordiamo l’ammirazione da lei tributata anche a Bellini, si potrebbe dire che il nuovo melodramma romantico reca il segno forte della sua straordinaria personalità di interprete.
Non a caso si è voluto vedere nella Pasta, nelle due vene che in lei convivevano, quella regalmente tragica e quella teneramente elegiaca, l’inizio di un percorso che, dopo un lungo periodo di oblio, avrebbe portato fino a un recente passato: fino alla Callas, che in uno spettacolo memorabile, con un cast d’eccezione e la regia di Visconti (1957), è certamente la principale responsabile della resurrezione dell’opera. Se quasi tutte le opere hanno il loro corredo di ricordi mitici, questa ne ha dunque uno davvero importante.
Da allora Anna Bolena si può dire rientrata a pieno titolo nel repertorio e costituisce una vera attrazione, con le sue melodie lunari, le sue violente invettive e la sua celebre follia. Una follia già cavallo di battaglia delle prime attrici, divenuta in seguito senza soluzione di continuità un vero banco di prova delle primedonne nel melodramma e particolarmente nell’Ottocento quando si assiste a una vera esplosione di soggetti che soffrono i vincoli di una società oppressiva e tirannica.
Il regista di questa Anna Bolena romana, Andrea De Rosa, ha affrontato il pericolo di troppo autorevoli confronti valendosi di due ottime voci come quelle di Maria Agresta (Anna Bolena) e Carmela Remigio (Giovanna di Seymour) e di un cast più che adeguato: René Barbera (Riccardo Percy), Alex Esposito (Enrico VIII), Martina Belli (Smeton).
A lungo aiutoregista di Mario Martone, con una qualificata esperienza sia nel teatro recitato che nel melodramma, il regista crede infatti nella libera circolazione delle idee tra generi diversi, una circolazione che almeno una volta è riuscito a realizzare, mettendo in scena lo stesso titolo nelle due dimensioni: Maria Stuarda, quella di Schiller e quella di Donizetti, che in questa Anna Bolena non sono davvero dimenticate. Re e regine (queste ultime in particolare) non sono infatti sentiti dal regista come “divi per il loggione”; com’era del resto nelle intenzioni dei loro autori, rispettati nelle loro motivazioni fondamentali. Ci sono evidentemente anche ragioni politiche, se è vero che Mazzini sperava di fare delle opere di Donizetti dei punti di convergenza per la nostra identità nazionale (l’operazione riuscirà invece, come è noto, a quelle di Verdi) e che egli vide in Enrico VIII il vero prototipo del tiranno. Ma De Rosa si dichiara più attratto dal contrastante rapporto dei personaggi con una parte misteriosa di sé, oscura e dolorosa, spesso riemergente da un passato che si vorrebbe negare; ed è attratto ancora dal rapporto tra le esigenze del potere e la vita intima di ognuno. In questo senso è visto il personaggio del re, innamorato e tiranno insieme; in questo senso è visto soprattutto il contrasto fra le due protagoniste, di cui Anna, sia pure sublimata dal perdono finale concesso alla rivale, a suo tempo ha cercato il trono e ora lotta fino all’ultimo per non morire; mentre Giovanna, benché lucidamente persegua lo stesso disegno di “amore e fama”, è contemporaneamente tormentata dal rimorso. Un contrasto che è il vero fulcro di questa regia davvero non invasiva, con un coro sempre vestito di nero e immobile, come a denunciarne la condizione di totale sudditanza e insieme dare una ragione del costante clima cupo dell’opera.
De Rosa è aiutato da un dispositivo scenico essenziale dovuto a Luigi Ferrigno (da un’idea di Sergio Tramonti): tre pareti trasparenti che sembrano riproporre la “parapettata” ottocentesca, da cui avanza al centro prima un tronco sanguinosamente squarciato (la scena di caccia), poi il letto a baldacchino concepito, con chiara simbologia, come una prigione (le stanze della regina) e infine la prigione vera e propria (divisa verticalmente in tre parti, con il patibolo al centro). Un’essenzialità non contraddetta dai costumi storicizzanti di Ursula Patzak e dalle luci espressive di Enrico Bagnoli: ricordo quelle finali in faccia al pubblico a significare la decapitazione della regina.
“io voglio affetti e non battaglie in scena” .
Regale e appassionata sul filo teso tra bellezza ed espressione.
Elena TAMBURINI Roma marzo 2019