di Emilio NEGRO
Il San Francesco in preghiera di Annibale Carracci (olio su tela, cm 75 x 57) è certamente una delle opere più significative della ricca raccolta d’arte della Pinacoteca Capitolina di Roma (inv. PC 61) (fig. 1).
La sua presenza alla mostra pisana dedicata ad Orazio Riminaldi scrupolosamente curata da Pierluigi Carofano (2021), mi ha dato l’opportunità di redigerne la scheda (Negro, 2021) e di rivederlo più volte, consentendomi anche di formulare alcune nuove considerazioni da aggiungere a quelle riportate nel catalogo.
La più antica nota inventariale del dipinto risale al 1641, quando fu dettagliatamente registrato nella raccolta Pio di Savoia come un
“quadro con un San Francesco che guarda un Crocifisso appoggiato sopra una testa di morto et esso tiene le punte delle mani al petto in tela, alto p.mi 3 1/3 largo p.mi 2 1/2” (Cappelletti-Testa 1990).
Il quadro venne catalogato come opera del più giovane dei Carracci sia nella succinta descrizione del 1697 – compilata al tempo dell’esposizione del “S. Francesco d’Annibale Carracci, mezza figura, da palmi 4” in una delle mostre di quadri organizzate nei gloriosi chiostri della chiesa romana di S.Salvatore in Lauro (De Marchi, 1987) – che in un inventario del 1724 (Guarino, 1994). Nell’elenco del Venuti del 1750 l’attribuzione fu mutata in un’altra meno credibile, in favore del più anziano cugino di Annibale, Ludovico (Guarino, 1991): questa variazione avvenne nel medesimo anno in cui le severe norme emanate da papa bolognese Benedetto XIV Lambertini, conseguenti alla traballante condizione economica dei Pio di Savoia, forzarono il principe Gilberto a rinunciare a 126 opere appartenenti alla notevole quadreria di famiglia, che andarono ad aggiungersi a quelle della collezione Sacchetti acquisite due anni prima e parimenti destinate ai costituendi Musei Capitolini. Malgrado ciò, nella prima guida ottocentesca della raccolta romana compilata dall’accademico di San Luca Agostino Tofanelli (1817), il dipinto venne nuovamente ascritto ad Annibale (Guarino-Masini, 2006).
Nel 1956 l’opera fu restaurata da Carlo Matteucci e Sergio Pigazzini, prima di essere inviata alla storica Mostra dei Carracci inaugurata a Bologna nel settembre dello stesso anno. Attualmente il suo buono stato di conservazione permette di vedere chiaramente la palpitante immagine del santo foriera di una diversa concezione del popolare soggetto, la cui rappresentazione costituisce effettivamente un unicum fra quelle dedicate al Poverello d’Assisi (1182 ca.-1226), sebbene tale particolarità sia stata pressoché ignorata dai numerosi studi dedicati al dipinto.
Pur attenendosi alla descrizione lasciata dal primo e più accreditato biografo dell’assisiate, Tommaso da Celano, nel dipinto è rappresentato un modello iconografico rinnovato e per molteplici aspetti rivoluzionario: il santo è ritratto come una persona ancora giovane, emaciata, secondo una tipologia ascetica conforme ai canoni dell’arte devozionale promossa dal clero negli anni turbolenti della Controriforma, stando ai quali la rappresentazione dell’effige di Francesco doveva rassomigliare a quella di un uomo ispirato e pervaso dalla luce salvifica della redenzione. E così lo ritrasse magistralmente Annibale Carracci a poco più di mezza figura, lievemente in tralice, col saio di colore bruno, ruvido, rappezzato e stretto in vita da una corda, lo sguardo rivolto in basso verso il crocifisso, le stigmate ben visibili e soprattutto, come è puntualmente descritto nella nota inventariale seicentesca, con “le punte delle mani al petto”: per l’esattezza la sinistra, all’altezza del cuore, per indicare che lo offriva a Dio. Inoltre, coerentemente con l’agiografia francescana, l’artista bolognese – giunto ormai “nel mezzo del cammin” della sua vita – ambientò la scena in un paesaggio volutamente brullo e desolato, atto a ricordare la misera cupezza della vicina caverna in cui la tradizione vuole che il santo si fosse isolato per meditare; la luce fredda che dall’alto lo illumina evoca la visione avuta sul monte della Verna, in Umbria, dopo la quale comparvero miracolosamente sul suo corpo le medesime ferite di Cristo. Non meno degne di nota sono le stigmate aperte nella viva carne, le unghie sporche e la straordinaria natura morta, che costituiscono brani di pittura “al naturale” conformi al magistero accademico dei Carracci.
Dunque, come è risaputo, il vibrante ritratto di San Francesco e gli oggetti disposti dinanzi a lui, furono dipinti recependo le osservazioni dello scienziato Ulisse Aldrovandi e le indicazioni post-conciliari del cardinale Gabriele Paleotti; è invece meno noto che Annibale seguì le indicazioni altrettanto importanti, dell’“abile e maraviglioso Cerusico” bolognese Leonardo Fioravanti, anch’egli appartenuto alla cerchia ristretta dei clinici illustri che furono pure perspicaci scrittori d’arte: nell’enciclopedico “Specchio di scienza universale” (1564), nel paragrafo dedicato al “Depintore”, Fioravanti rimarcò come fosse fondamentale saper ritrarre “uno che sia mesto e addolorato” con tutti i suoi “accenti”, facendo sì con “tale artificio” che dal “volgo” sia riconosciuto “per figura mesta, e addolorata” (Negro, 2022).
Pertanto Fioravanti in primis, come Aldrovandi e Paleotti, che equiparava il catechismo dei pittori a quello di “teologi mutoli”, erano concordi nel ritenere le immagini rispondenti al vero più facili da capire e ricordare, giacché lo scopo della pittura doveva consistere nel servire da libro agli incolti. È per tale ragione che ciascun dettaglio così aderente al vero di questa palpitante raffigurazione dell’assisiate e delle povere cose sistemate davanti a lui, ha parimenti un significato evocativo, allegorico e teologico, sinora non adeguatamente indagato.
Va detto innanzitutto che nell’uno e nell’altro caso si tratta di segni esteriori di povertà interiore, quella che l’“accademico di nulla academia” Giordano Bruno collegava direttamente alla grandezza dell’Ente Supremo, da cui discendono tutte le infinite realtà del mondo, migrando dall’oscurità al lume: poiché “niente impedisce che…gradatamente le infime [cose]…siano richiamate alle supreme” (Bruno, 1582). Laddove il crocifisso audacemente scorciato con la forma corporea del Salvatore ridotta eppure iperrealistica, denota un’eccellente conoscenza dell’anatomia necessaria per la realizzazione di un’immagine veridica che non veniva considerata una semplice raffigurazione di carattere ecclesiale, ma effettiva presenza della divinità da essa riprodotta; il teschio, messo crudamente di profilo e appoggiato all’angolo di un parallelepipedo di pietra, indica un’esemplare conoscenza osteologica del cranio e, parimenti, equivale ad un inclemente memento mori che induce a meditare sulla caducità dell’esistenza terrena; il pezzo di carta con i segni delle pieghe tipiche di una lettera, reca un’iscrizione perfettamente leggibile composta da cinque righe suddivise in due unità che già sono state opportunamente interpretate, seppure parzialmente, da Donald Posner (1971): nel primo versetto (“Absit mihi gloriari nisi, in cruce domini mei”), lo studioso identificò una variante della lettera di San Paolo ai Gàlati, che era diventata il manifesto dell’ordine francescano conventuale; nel secondo (“in qua est salus, vita et resurrectio nostra”), individuò la trasposizione dell’Introito alla liturgia della messa della Settimana Santa.
A tali spiegazioni di Posner va aggiunto che in passato la medesima variante della lettera di San Paolo veniva recitata dai credenti durante la festa per la Celebrazione delle Stigmate di San Francesco: nella tela della Capitolina le due stigmate sul dorso delle mani dell’assisiate sono ben visibili, mentre era stato il cardinale oratoriano Cesare Baronio ad includere la solennità nel Martyrologium Romanum (1583), accogliendo l’invito del collega francescano Felice Peretti di Montalto che, dopo essere diventato papa Sisto V (1585), estese la celebrazione a tutta la Chiesa; in seguito la direttiva pontificia fu annullata da Clemente VIII e al presente la ricorrenza è festeggiata solamente dai monaci francescani, dunque il San Francesco in preghiera potrebbe essere stato eseguito proprio tra il 1583 e il 1585.
È altrettanto importante rimarcare che la seconda parte dell’iscrizione era già recitata fin dai secoli precedenti all’esecuzione del quadro anche durante la messa dedicata all’Esaltazione della Santa Croce, che si celebra il 14 settembre. Il candido foglio è dunque da interpretare come la lettera di presentazione con cui San Francesco mostra al mondo le sue credenziali. Il groviglio di vimini vicino ai sassi raffigura un rustico flagello avvoltolato, cioè un invito all’autoflagellazione penitenziale a cui si sottoponeva il santo che la raccomandava a tutti i suoi seguaci per sfuggire alle tentazioni della carne; infine il voluminoso libro di preghiere che evidenzia sulla copertina consunta una guarnizione romboidale con una croce al centro, corrisponde ad un palese invito alla lettura e allo studio delle Sacre Scritture.
Riguardo alla commissione di questa efficace immagine “al naturale” di San Francesco – non penitente come è stato letto in passato, bensì in meditabonda preghiera -, va evidenziato anche il profondo legame, non ancora rilevato dagli studi, tra la nobile famiglia Pio di Savoia e l’Ordo fratrum minorum cappuccinorum che proprio nel XVI secolo annoverò fra i suoi protettori un influente membro di quella casata: il cardinale Rodolfo Pio di Savoia, deceduto nel 1564.
L’indicazione stilistica che rimanda alla più creativa attività bolognese di Annibale Carracci è stata messa in relazione con le pitture di Federico Barocci (Cavalli, 1956; Emiliani, 1984), mentre sono invece piuttosto evidenti le maggiori influenze giorgionesche e correggesche (poiché i principali e più precoci punti di riferimento dei Carracci furono comunque la pittura veneta e quella parmense, Giorgione, Tiziano e Correggio), e soprattutto una naturalezza espressiva nuova e caratteristica della cultura figurativa promossa a Bologna dall’Accademia degli Incamminati. La tela è pervasa infatti da un’atmosfera carezzevole ma allo stesso tempo assai realistica e naturale, ottenuta con una materia compatta dalle tinte calde, tipicamente annibalesche.
L’intensità della raffigurazione è caratterizzata da quella peculiare classica compenetrazione tra spazio, figura e luce – ovvero la luminosità cara all’espressività di Annibale – e da quel sapore di gioiosa vitalità che aleggia nelle atmosfere da lui ricreate ad arte, desunte dalle opere di Tiziano come, ad esempio, gli affreschi della padovana Scuola del Santo e la Pala Pesaro (Venezia, Basilica di Santa Maria Gloriosa ai Frari). Pitture che, contrariamente a quanto sostenuto dalla maggior parte delle pubblicazioni dedicate ai Carracci, i tre cugini felsinei ebbero modo di studiare con agio grazie al porto fluviale di Bologna e al collegato Navile; entrambi costituirono per secoli una fondamentale via di comunicazione che, grazie alla riscossione dei pedaggi delle imbarcazioni in transito, fu anche una considerevole fonte di reddito per la Gabella Grossa felsinea, in primis le barche dei corrieri che salpavano da Bologna per Venezia o facevano il percorso inverso due volte alla settimana con diritto di precedenza su gli altri natanti.
Questo collegamento fluviale, rilevato solo recentemente (Negro-Roio 2021), fu fondamentale per la crescita artistica dei maestri bolognesi che, imbarcandosi dentro le mura cittadine, raggiungevano la Serenissima con poco più di una giornata di placida navigazione fluviale: più comoda, rapida e sicura di un viaggio via terra, fra strade infide e dissestate, quegli stessi paesaggi con corsi d’acqua che furono dipinti da Agostino e Annibale (fig. 2), basati quasi certamente sui ricordi di quelle trasferte.
Va rimarcato infine che rispetto alle opere sacre di più grandi dimensioni dell’artista bolognese, questo San Francesco in preghiera rivela la freschezza propria dei dipinti di più intima destinazione cultuale eseguiti dal grande maestro di Bologna intorno al 1584.
Emilio NEGRO Bologna 27 Agosto 2023
BIBLIOGRAFIA