di Nica FIORI
“Antonio Donghi. La magia del silenzio”.
“Ho guardato i grandi pittori del passato, senza esagerare, ossia senza prendere da essi motivi di composizione e atteggiamenti. Ho scelto per dipingere tutto ciò che dell’umanità più mi ha colpito per un senso di semplicità nella composizione e nel colore. Nell’esecuzione ho voluto sempre finire, anche con scrupolosità, sperando che l’osservatore potesse leggere con chiarezza quello che io ho visto e sentito”.
Queste parole di Antonio Donghi (1897-1963), maestro italiano del “realismo magico”, accolgono i visitatori della mostra “Antonio Donghi. La magia del silenzio”, ospitata a Palazzo Merulana fino al 26 maggio 2024.
Il Palazzo, che prende il nome dall’omonima via del rione Esquilino, è un bell’esempio di trasformazione in museo di un edificio del primo Novecento, già sede dell’Ufficio di Igiene, che versava in uno stato di forte degrado dopo molti decenni di abbandono. Grazie a una meritoria opera di rigenerazione urbana e sociale, il palazzo, aperto al pubblico nel 2018, ospita la collezione d’arte della Fondazione Elena e Claudio Cerasi e diversi eventi culturali collaterali. Proprio partendo dalla presenza di tre importanti dipinti di Donghi presenti nella collezione (Le lavandaie del 1922-23, Gita in barca, capolavoro del 1934 scelto come immagine guida della mostra, Piccoli saltimbanchi del 1938), è stata realizzata l’esposizione, curata da Fabio Benzi, comprendente 34 quadri provenienti da importanti collezioni pubbliche e private (in primis quella di UniCredit, con ben 16 prestiti), che danno un’idea dell’intero percorso artistico del pittore. Si tratta di paesaggi, nature morte, ritratti, scene di vita quotidiana, personaggi dell’avanspettacolo e del circo.
Fu proprio un quadro di ambientazione circense, Piccoli saltimbanchi (1938), a essere acquistato per primo dai Cerasi, che ne furono letteralmente “rapiti” quando lo videro nel 1985 in una mostra a palazzo Braschi. I due bambini raffigurati dal pittore dovrebbero rallegrare con i loro abilissimi giochi una platea che possiamo solo immaginare, ma i loro occhi sgranati trasmettono un senso di malinconia.
Un’altra opera emblematica di quel mondo è Il giocoliere, del 1936, che regge sulla punta del suo sigaro un cilindro, in bilico come la sua arte tra realtà e magia.
Nato e morto a Roma, Donghi fu per tutta la vita un artista introverso, apparentemente un “sempliciotto” che amava dipingere scene di vita popolare della sua città, ma in realtà colto e aperto alle novità che venivano dal cinema (soprattutto quello tedesco) e dal teatro della sua epoca, tanto da riuscire a inserirsi nell’avanguardia artistica europea, che lo avrebbe incluso nel 1925 in quella tendenza del Magischer Realismus, lanciata in Germania dall’artista e critico d’arte Franz Roh.
“Gentileschiano” fu un appellativo che gli venne dato da Roberto Longhi per la capacità di cogliere quella fissità lucida, di secentismo luministico caravaggesco, ma nella sua opera, oltre a Orazio Gentileschi, si potrebbero ravvisare reminiscenze di molti altri pittori, quali Giotto, Piero della Francesca, Jan Vermeer. Ci si potrebbe cogliere anche la sottile ironia di artisti più vicini al suo tempo, quali Henri Rousseau e Georges Seurat.
Scrive Fabio Benzi nel catalogo:
“Il percorso artistico di Antonio Donghi è silenzioso e misterioso almeno quanto i contenuti della sua pittura, espressi in una forma algida e apparentemente impenetrabile. Ne è una dimostrazione efficace la sua storia critica, che non fa che esaltare quell’epifania di forme tornite immerse in un universo senz’aria, come una campana di vetro che contenga l’idea iperurania delle cose”.
Dopo i primi quadri caratterizzati da uno stile tradizionale di matrice ottocentesca, che esprimono un sentimento post-impressionista (in mostra troviamo La basilica di Massenzio del 1920, La fontana dei cavalli marini e Il Minatore del 1922), la sua pittura cambiò radicalmente tra la fine del 1922 e gli inizi del 1923 proponendo una realtà all’apparenza semplice e decifrabile, ma che nasconde un magnetico e magico senso di aspettativa. Dipinto emblematico di questo cambiamento di stile è Le lavandaie, caratterizzato dalle figure massicce di due donne (una, scalza e con la gonna rimboccata, è vista da dietro) che si stagliano in una terrazza quasi priva di ombre. Il tempo sembra essersi fermato e lo sguardo della massaia vista di lato, pur vivo, appare magicamente enigmatico.
Il momento del mutamento coincide, secondo Benzi, con la visione di una mostra di Ubaldo Oppi, che si tenne presso la Galleria Bragaglia nel maggio 1922. Il pittore Oppi arrivava a Roma come un maestro già affermato, dopo il successo ottenuto al Salon des Indépendents di Parigi l’anno precedente. Stranamente, però, questa importante mostra di Oppi è stata finora quasi ignorata, perfino negli studi monografici sul pittore. È ai dipinti di Oppi, più che alla metafisica di Giorgio de Chirico (proposta da Maurizio Fagiolo), che Donghi deve il suo super-realismo calmo, ma vagamente inquietante:
“Le opere di Oppi, con i personaggi immobilizzati in un’atmosfera senz’aria, i paesaggi costruiti da edifici geometrici sovrapposti nella loro volumetria come negli affreschi giotteschi, il disegno nitido e affilato, le espressioni interrogative e penetranti, l’aria di realismo magico al limite della “Nuova Oggettività” tedesca devono essere state il vero precedente saliente e l’ispirazione scatenante per Donghi. Ma la folgorazione di Donghi non fu passiva. Al glamour rarefatto di Oppi, egli preferì una popolarità nostrana, quasi romanesca, che spogliava la figurazione dai preziosismi e la adattava a pollarole, lavandaie, donne del popolo, cacciatori e teatranti dell’avanspettacolo”.
Probabilmente Donghi iniziò a frequentare assiduamente la Galleria Bragaglia a partire dal 1922, quando venne trasferita in via degli Avignonesi, non lontano da via del Lavatore, dove il pittore aveva il suo studio, e fu lì che due anni dopo tenne la sua seconda mostra. La galleria si caratterizzava per una ricerca estremamente eclettica, con una forte continuità futurista, alla quale alternava esposizioni delle avanguardie europee (Bauhaus, Dadaismo, Espressionismo ecc.) e contemporaneamente presentazioni di giovani artisti di diverse tendenze, tra cui Romano Dazzi, Filippo De Pisis, Carlo Socrate, Lorenzo Viani, Benvenuto Ferrazzi, Michele Cascella e altri.
A partire dal suo cambiamento stilistico, Antonio Donghi ottenne un notevole successo di pubblico e di critica e, grazie alla sua amicizia con Lauro De Bosis (del quale è esposto il bel ritratto del 1924, che nel catalogo è accostato a un capolavoro di Antonello da Messina), espose a New York (il dipinto “I piccoli saltimbanchi,” prima di essere acquistato da Paolo Cerasi, si trovava in una collezione newyorkese).
Nel 1927 venne premiato in una mostra internazionale al Carnegie Institute di Pittsburgh. Negli anni ‘40 il suo lavoro era molto al di fuori della corrente principale del modernismo e la sua reputazione si appannò, sebbene continuasse a esporre regolarmente. In mostra troviamo numerosi paesaggi, che dopo il cambiamento stilistico datato 1922-23 vengono dipinti in uno stile molto più conciso rispetto ai primi. Anche se Donghi amava viaggiare e vedere luoghi diversi (come documentato in dipinti come Toscana, Monte Amiata, Veduta di Città di Castello e altri), è certamente Roma che prevale, con i suoi scorci di luoghi noti (troviamo in mostra Ponte Cestio) e angoli più intimi come Via del Lavatore e Convento di San Bonaventura.
Il suggestivo dipinto Fabrica di Roma, che mostra il monte Soratte in un paesaggio non antropizzato, dove regna il silenzio degli alberi secolari, risale al 1946.
Un po’ naïf appaiono le sue nature morte e soprattutto i fiori, presenti a volte anche nei ritratti femminili, come in quello d’ambientazione borghese Ritratto di madre e figlia (1942, olio su tela, Collezione Gruppo UniCredit) o in Figura di donna (1937, olio su tela, Galleria Nazionale d’Arte moderna).
Nel 1936 Donghi ottenne la tanto agognata cattedra all’Accademia (un posto statale che gli dava la sicurezza economica) e forse il Ritratto a cavallo del Duce (olio su tela, 1937, collezione Paolo Ventura), esposto ora per la prima volta al pubblico, può essere visto come una sorta di adeguamento alla realtà dell’epoca, ma senza alcun coinvolgimento personale (tra l’altro è stato ricordato dal curatore che il suo amico De Bosis era un antifascista), tanto che egli sembra dare più importanza al cavallo che al cavaliere, il cui volto sembra quasi un fotomontaggio privo di vita.
Nel corso della presentazione della mostra è stata evidenziata la silenziosa bellezza della Roma di Donghi:
“In questo momento storico sentiamo che la città ha bisogno di essere raccontata secondo i codici narrativi di Donghi, che rappresenta una romanità popolare, elegante, gentile. Rappresenta quei tempi lenti che rievocano proprio il mito della Città Eterna ma rimettendo al centro le persone”,
ha dichiarato Letizia Casuccio, direttrice generale di CoopCulture, che gestisce il museo di Palazzo Merulana e ha promosso l’evento.
Oltre a farci conoscere la “romanità gentile” del pittore, la mostra ha il merito di essere “inclusiva”, nel senso che rende l’arte accessibile a tutti (e non solo nel senso dell’abbattimento delle barriere architettoniche). Grazie alla partecipazione al bando del Ministero della Cultura per l’accessibilità nei luoghi della cultura, finanziato dal PNRR, Palazzo Merulana ha potuto usufruire di risorse finanziarie per completare con il progetto Open Merulana un percorso di buone pratiche per la creazione di un vero e proprio “Museo Gentile”. In particolare ricordiamo che l’app Palazzo Merulana AR permette, mediante il QR code, di inquadrare alcune opere che prendono vita “magicamente” in un’installazione artistica, in interazione fra intelligenza naturale e artificiale. L’operazione comprende in realtà aumentata anche l’interpretazione di una attrice che usa il linguaggio dei segni (LIS) per la perfetta accessibilità dell’esperienza di fruizione alle persone sorde. Le opere animate sono otto, di cui cinque finanziate dal MIC e tre finanziate da UniCredit: Le Lavandaie e Gita in barca di Antonio Donghi e Primo Carnera di Giacomo Balla.
La visione di questa mostra, per quanto non molto ampia, è certamente consigliabile perché trasmette l’atmosfera incantata di diverse immagini senza tempo di Donghi, ne evidenzia la tecnica raffinata e ci fa esplorare il suo mondo fatto di personaggi nei quali sembra di cogliere le stesse domande che Pirandello si poneva nei suoi drammi: “Perché siamo qui ?”.
Figure incerte non solo del loro ruolo, ma persino del presente che stavano vivendo (ricordiamo che il 1922 è l’anno della Marcia su Roma), presaghe di una tragedia latente che si stava consumando intorno a loro.
Nica FIORI Roma 18 Febbraio 2024
La mostra è inclusa nel biglietto di ingresso di Palazzo Merulana (via Merulana 121), che comprende la visita alla Collezione Cerasi. È aperta al pubblico dal mercoledì alla domenica, ore 12- 20.
Info: www.palazzomerulana.it