di Dominique LORA
Dominique Lora dal 2004 ha lavorato come curatrice in molti paesi europei e internazionali tra Stati Uniti e Sud America, approfondendo i suoi interessi storico artistici E’ stata assistente curatrice nel 2001 presso il dipartimento di Special Collections del Getty Research Center di Los Angeles e, dopo tre anni, è entrata a far parte del nuovo progetto espositivo per la collezione permanente del museo Thyssen-Bornemisza di Madrid. Dopo aver lavorato come assistente direttrice all’Archivio Boetti di Roma dal 2009 fino ad oggi, ha curato numerose mostre di arte moderna e contemporanea provenienti da collezioni pubbliche e private italiane in diversi musei in Italia e all’estero, spesso in collaborazione con il MAE e l’UNESCO. Tra i progetti più recenti: Cani in posa, dall’antichità ad oggi alla Venaria Reale, Torino (2018-2019), La scuola di Bernini e il Barocco Romano, capolavori di Palazzo Chigi ad Ariccia, National Gallery, Sofia, Georgian National Museum, Tbilisi, Jules Collins Museum, Auburn, AL, USA (2018-2021) e La Forma del Colore, da Tintoretto a Canaletto, Capolavori dalla galleria nazionale di Trieste (National Gallery of Armenia, Yerevan, Georgian National Museum, Tblisi (2020-2021), Italia. I Racconti (In)visibili, arte contemporanea e il nostro Patrimonio Immateriale, Ed. 1 e 2, Istituto Cultural las Condes, Santiago del Cile, National Gallery, Sofia, National Gallery of Bosnia and Herzegovina, Fundacion Ponce, Merida (MEX), IIC Madrid, Insituto de Bellas Artes Barcelona (2018-2024), Arshak Sarkissian: Angels and Demons, Palazzo Chigi in Ariccia, Roma, Mimmo Cattarinich. Beyond the Scene, Cairo e Amsterdam (2020), Tina Modotti, la genesi dello sguardo moderno, Museo Saint Bénin, Aosta e Museo di arte Moderna Tel Aviv (2022-2023), Pasolini ‘100 e la fotografia di scena, Cairo e Amsterdam 2020-2022, Antonio Ligabue, I misteri di una mente, Museo della Fanteria, Roma 27/09/2024-12/02 2025. Infine, dal 2021 ho iniziato a collaborare come docente di museografia e museologia per il Master di Exhibition Design presso la Facoltà di Architettura dell’Università La Sapienza di Roma. Con questo articolo inzia la sua collaborazopne con About Art
La mostra Antonio Ligabue: i misteri di una mente è il risultato di una collaborazione fra storici, curatori ed organizzatori che da anni lavorano ad un progetto espositivo fondato sulla logica di un artista e di collezioni private che, personalmente, ha avuto origine durante la realizzazione della mostra “Cani in Posa, dall’antichità ad oggi”, alla Venaria Reale di Torino (2018-2019).
In quella occasione, il Prof. Francesco Petrucci, curatore scientifico dell’esposizione, mi chiese di curare una sala conclusiva dedicata alla rappresentazione cinegetica, in senso lato, nell’arte contemporanea. Fu allora che mi resi conto di quanto la rappresentazione del regno animale nelle arti visive, nelle pratiche artigianali, in letteratura e nelle manifestazioni folkloristiche dei popoli della terra abbia viaggiato da sempre in simultaneo e in parallelo all’evoluzione dell’uomo, quale simulacro imprescindibile e inscindibile dell’organizzazione della vita stessa sul nostro pianeta.
Sempre in quell’occasione, a metà del percorso espositivo era stata allestita un’intera sala – quasi un “passage” alla Walter Benjamin tra età moderna e contemporanea – dedicata ai lavori di Antonio Ligabue che emergeva tra tutti come un antieroe intento a raccontare il mondo con paradossale sincerità, ricorrendo ad una immagine visionaria del creato per elevare i soggetti e gli oggetti delle sue composizioni al di sopra della brutalità della natura umana. Come nella “fattoria degli animali” di George Orwell, le creature di Ligabue sembravano confondersi con gli esseri umani nell’intento di liberarsi da un ‘esistenza altrimenti miserabile e opprimente [1]. In tale contesto, il maestro di Gualtieri è l’erede di tanti artisti del passato che hanno consacrato tempo e talento ad indagare, rappresentare e dunque comprendere l’universo che ci circonda e che, ben oltre le indagini scientifiche e l’osservazione dal vero, hanno generato e ispirato invenzioni ed allegorie di carattere sociale, politico e religioso.
L’artista scolpisce, disegna e dipinge freneticamente immerso in uno spazio naturale che è al contempo reale e immaginario, in un processo di costante metamorfosi del suo essere e del mondo. I suoi dipinti presentano pennellate materiche e potenti che, unite alla straordinaria gamma cromatica della sua paletta, costituiscono elementi preziosi nel rappresentare ciò che potremmo definire una biodiversità creativa dell’Io. Un cantico pittorico delle creature e una visione “en plein air” che, tra sconfinamenti e contaminazioni, tra realtà e fantasia, rappresentano con intelligenza e sottigliezza l’umana esistenza.
Per esprimere il suo “vitalismo inquieto” – per usare un’espressione che era stata propria del gruppo artistico “Die Brücke” durante la prima decade del Novecento – Antonio Ligabue racconta il disagio esistenziale con opere pittoriche, disegni e sculture nelle quali alterna la cosmologia intima e domestica della laboriosità di stampo agricolo alla dimensione feroce e selvatica di boschi e foreste dove prede e predatori sono ancora soggetti alle leggi crudeli della sopravvivenza. Nel ricreare scenografie dettagliate, ricche di piante, alberi e animali, l’artista sviluppa una serie di racconti fantastici fondati sul rapporto tra elementi autoctoni ed esotici, tra entità immanenti e materiali e tra individualità e alterità, trasformando i suoi incubi in visioni incantate e rigogliose. Così, campi e fattorie fanno da cornice a cavalli da basto e mucche da latte che riposano, mentre nelle brughiere vagabondano lepri e cinghiali.
Le foreste invece, ricche di fiori e di fogliame, mutano in giungle popolate da grandi felini in agguato o sono improvvisamente invase da mute di cani in corsa. In una sinfonia di arancioni, di verdi e di blu – nelle loro diverse gradazioni – e per mezzo di schizzi e gesti vivaci e spontanei, il maestro compone un elogio poetico della vita e della morte attraverso paesaggi ritmici e movimentati che gridano a squarcia gola la necessità di un’armonia nel (suo) mondo e che esprimono un’attitudine mimetica e spirituale nei confronti della vita e degli esseri viventi.
Tanto tempo fa, in terre lontane …
Ô lion, malheureuse image / Des rois déchus lamentablement / Tu ne nais maintenand qu’en cage / À Hambourg, chez les Allemands
Guillaume Apollinaire, Le bestiaire ou cortège d’Orphée[2]
Si racconta che in antichità, allorché i romani desiderassero indicare sulle carte geografiche i confini del loro vasto impero, le terre considerate sconosciute o non sottomesse all’impero – tipicamente quelle dell’Asia e dell’Africa – venissero segnate con la locuzione “Hic sunt leones”, letteralmente “Qui ci sono i leoni”; un’espressione che sembra facesse riferimento alla presenza di popoli barbari (paragonati a bestie feroci e non civilizzate) più che a segnalazioni di ordine zoologico. L’idea è che fin dai tempi immemori bestie e mostri siano stati associati a sentimenti di ferocia, instabilità e rivolta e che spesso la natura esotica di tali creature abbia suscitato timore e fascinazione.
1) Il leone della Via delle Processioni, sacro alla dea Ištar, Pergamonmuseum, Berlino. 2) Leone ucciso dalle frecce, 645 e il 635 a.C – La caccia al leone di Assurbanipal, British Museum. 3) A. Ligabue, Leone ruggente, 1936
Così dalle incisioni delle grotte di Lascaut e delle Espélugues, alla porta babilonese di Ishtar costruita da Nabucodonosor II, oggi a Berlino [3], passando per le innumerevoli opere che sono arrivate fino a noi dalle civiltà di Greci, Egizi, Etruschi e Romani, la rappresentazione del regno animale è costante e onnipresente. Innumerevoli sono infatti i manufatti e le immagini del passato che ritroviamo regolarmente nell’iconografia della storia dell’arte europea moderna e contemporanea. Ad esempio, il magnifico Cavallo di bronzo del Metropolitan Museum potrebbe essere il prototipo di molte opere di Mimmo Paladino, mentre il rilievo assiro del leone reale durante la caccia di re Ashurbanipal o il Toro di Avrigney [4] sembrano modelli arcaici di molte sculture bronzee di Antonio Ligabue. E ancora, la Chimera di Arezzo richiama le opere di artisti come Fernand Khnopff, Alberto Savinio o, più di recente, il maestro milanese Dario Ghibaudo. Attraverso i secoli, queste rappresentazioni artistiche o archeologiche perpetuano una ricerca estetica volta ad esplorare il concetto di evoluzione ma soprattutto la relazione tra natura, artificio e divino.
In altre parole, le testimonianze sull’importanza del regno animale, – che sovente diviene bestiario – sono al contempo lo specchio e la metafora dell’evolversi degli esseri umani che dalla notte dei tempi trovano espressione in sculture, bassorilievi, mosaici, dipinti e manoscritti miniati, decorando templi, spazi pubblici, cortili e palazzi privati su tutta l’estensione delle terre che si affacciano sul mediterraneo, dalla Spagna all’Egitto, dalla Grecia a Bisanzio. Umberto Eco, nella sua “Storia della bruttezza” ci fa notare inoltre come durante periodo medioevale fu operata una “moralizzazione dei mostri” nel momento in cui il mondo cristiano procedeva ad una vera e propria “redenzione” delle bestie in quanto riflesso dell’esistenza di Dio sulla terra. Nelle parole di Sant’Agostino:” I mostri sono belli in quanto creature di Dio”.[5] In Oriente e quasi nello stesso periodo storico, la leggenda narra che prima di entrare nel Nirvana, il Buddha chiamò a sé tutti gli animali del creato (reali e surreali). Solo dodici risposero al suo appello: il topo, il bue, la tigre, il coniglio, il drago, il serpente, il cavallo, la capra, la scimmia, il gallo, il cane e il cinghiale che divennero per tanto animali sacri, uniti indissolubilmente al destino degli uomini. Trovo significativo che molti di questi animali corrispondano alle creature predilette da Antonio Ligabue in una sorta di corrispondenza universale e atemporale.
Ma la fascinazione per il mondo animale in occidente si intensifica realmente solo all’alba del Cinquecento grazie alle spedizioni che, dalle Indie alle Americhe, producono una profusione di raccolte e collezioni straordinarie altrimenti conosciute come Wunderkammern o Gabinetti delle Meraviglie, volte a comprendere ed indagare l’universo sensibile. L’osservazione scientifica che classifica e illustra la fauna e la flora dei nuovi mondi diventa parte integrante del processo di conoscenza dell’uomo. Connoisseurs, collezionisti e artisti, desiderosi di comprendere il mondo naturale e le sue leggi indagano e sperimentano attraverso l’osservazione di specimen che includono scheletri, animali impagliati, studi di botanica e di zoologia.
Figura chiave di tale processo conoscitivo è Athanasius Kircher che con il suo “museum kircherarium” romano[6] incarna una cultura di stampo scientifico che studia dal “vero” l’universo naturale e che include appunti sul comportamento di animali domestici e selvatici, gettando le basi per la futura scienza etologica. Per usare le parole di Umberto Eco:
“Il gusto del meraviglioso leggendario lascia il posto alla curiosità per l’interessante scientifico aggiungendosi ai vari tipi di mostri che affollano le Camere delle Meraviglie e altre collezioni moderne“.[7]
Nel disegno e nella pittura, il genere del “giardino terrestre delle creature“ trova interpreti magnifici in maestri come Pisanello, Albrecht Dürer, Hans Hoffmann, Leonardo da Vinci, Jan Breughel dei Velluti, Roelandt Savery o Pieter Paul Rubens, tra gli altri, che indagano la natura e il processo di civilizzazione seguendo criteri di confronto comuni: la regola e la diversità, il terreno e l’ultraterreno, la natura e l’artificio. In tale contesto, la pratica artistica genera un’iconografia universale che si presenta come un modo per conoscere e per conoscersi, per comunicare e per comunicarsi.
Il sogno, la stranezza e lo sciamano
Ci sono infinite parole che possono descrivere un evento attraverso la scrittura, e poi c’è il poeta che usandone pochissime riesce ad evocare una quantità straordinaria di pensieri. Sono parole che continuano ad arricchirsi di suggestioni e di immagini a seconda di chi legge, è una relazione senza fine e le rende vive. Anche un’opera visiva ha bisogno della sintesi: si tratta di un’ espressione della materia che ha l’immediatezza della realtà che ci circonda.
Giuseppe Penone, 2022
Nel 1797 per la serie dei “Caprichos”, Francisco de Goya realizza un’opera intitolata “il sogno della ragione genera mostri”. Queste composizioni nascono dal desiderio del maestro spagnolo di realizzare un lavoro critico ed ironico sull’ignoranza intellettuale che pervade la società del suo tempo. Per realizzare queste scene ibride e spaventose Goya disegna uomini e donne con parti del corpo presi in prestito all’universo zoologico muovendoli sullo sfondo di macabri rituali di gruppo. Confondendo e contaminando generi e specie, il maestro spagnolo racconta il disagio dell’essere umano in generale e quello dell’artista in specifico, all’interno di un’organizzazione sociale “bestiale” e barbara che fatica ad accettare la differenza, spesso mistificata e stigmatizzata come forma di follia socialmente inaccettabile.
Il tempo di Goya è anche quello delle prime esplorazioni illuministico-scientifiche che portano ad una conoscenza del comportamento animale e degli usi e costumi di popoli considerati come “selvaggi” che, dalle Americhe al continente asiatico, vengono trasportati in Europa per studio o per sfarzo. Lo sviluppo delle scienze biologiche nella seconda metà del diciannovesimo secolo fornisce ad artisti e scrittori nuovo materiale per la scrittura di favole e racconti metamorfici dando origine a generi che esprimono l’idea di un’esistenza extra-ordinaria dell’umano e ponendo nuovi interrogativi riguardo al ruolo dell’essere umano in relazione al suo ambiente eco-biologico.[8]
L’estensione geografica del mondo conosciuto corrisponde inoltre alla scoperta degli sciamani e dei popoli di cacciatori per i quali gli animali coadiuvano l’umano nel contatto con l’aldilà. L’animale è riconosciuto come l’incarnazione di impulsi presenti in cui elementi come la paura e la speranza, quando esistono nella sua natura, emergono in relazione agli oggetti che si trovano dinanzi a lui, alla portata dei suoi impulsi; mentre il campo percettivo dell’uomo abbraccia tutta la sua vita estendendosi sia nel passato che nel futuro.[9] Nasce anche la consapevolezza di una convivenza necessaria e conveniente tra gli esseri umani e alcune specie animali. Per citare le parole di Giorgio Verzotti:
“Come l’animale sulla terra conduce l’uomo attraverso le gole pericolose, gli suggerisce dove conviene alzare il campo, allo stesso modo gli rende gli stessi servigi nel viaggio denso di pericoli nell’al di là”.[10]
Infine, credo sia importante menzionare la celebre conferenza intitolata “Il rituale del serpente” del grande storico dell’arte Aby Warburg in cui alcune forme di sciamanesimo proprie della tribù indiana dei Pueblo vengono messe in relazione con le origini del paganesimo e della magia in Europa, gettando una luce inedita sul potere psichico delle immagini, capaci di ferire ma soprattutto di guarire.[11]
La fabula e l’estraneamento
Il comportamento dell’artista, se pure lucido per definizione, è tuttavia carico di un’ambivalenza tipica: da una parte indica la posizione di forza di colui che esorcizza la realtà con la forza del pensiero e del progetto, dall’altra tutta l’infelicità di chi è ricacciato in un ruolo decentrato e privo di frontalità rispetto agli eventi.
- Bonito Oliva, 2010
Nel 1915 Franz Kafka pubblica il racconto “La Metamorfosi”, una straordinaria favola moderna sul tema della solitudine e dell’”estraneamento” nel contesto dell’inestricabilità dell’esistenza individuale e sociale. Il protagonista, Gregor Samsa, si sveglia una mattina scoprendo all’improvviso di aver assunto la forma di uno scarafaggio. Il libro rientra in una pratica millenaria di racconti e “fabule” volti a spiegare l’esistenza attraverso la trasformazione e l’utilizzo metaforico dell’universo animale come strumento per indagare i meccanismi legati alla psiche e alla condizione dell’individuo, producendo simultaneamente una critica e, più di recente, una satira sociale.
Così, da Esopo a Ovidio dai bestiari medievali a Jean de La Fontaine fino ai classici sempre contemporanei di Rudyard Kipling, Herman Melville, Carlo Collodi e George Orwell, ad esempio, la narrazione di carattere zoomorfico assume la funzione di conoscenza quale metafora della natura umana dove le leggi del regno animale incarnano un archetipo dei vizi e delle virtù, della forza e debolezza, dell’indigeno e dello straniero. Ecco allora centauri e sirene, cicale e formiche, balene bianche, gatti e volpi richiamati alla vita dalla classicità a fare da protagonisti in nuovi scenari letterari ed estetici fino a riemergere prima nei giochi automatici dei surrealisti poi nel cuore delle ricerche artistiche contemporanee. Si tratta, come diceva Alberto Savinio: “da un lato del pio desiderio di umanizzare il mostro, o piuttosto, diciamo noi, di rispecchiarci in esso, dall’altro dalla disposizione a ripensare al tempo in cui “uomini e bestie convivevano una vita concorde e mite”, un’occasione perduta o promessa futura, è da vedere…” [12] Rappresentazioni dunque che esistono in bilico tra immaginario e realtà e che riflettono la relazione creativa tra genio e follia quale motivo persistente della nostra cultura e che, dal Fedro di Platone, ci insegnano che “tutto ciò che è grande è accaduto nel delirio”. La “stranezza” diventa un elemento imprescindibile del genio artistico in cui, facendo eco alle teorie di Freud e Jung, il sogno e il mito del “mostro” costituiscono la componente necessaria per una visione comprensiva e comprensibile dell’uomo. Queste idee riguardano specificamente la metamorfosi di un essere umano in una forma di vita alternativa, un argomento mitico e antico e ampiamente diffuso che, in termini di narrazione letteraria e arti visive e applicate, ritroviamo in maniera costante nella nostra storia.[13]
Un filo invisibile sembra così unire la ricerca dei maestri Hieronymus Bosch, Francisco de Goya, Henri Rousseau, Franz Marc, Pablo Picasso, Antonio Ligabue, Keith Haring o Mimmo Paladino, per citarne alcuni, i cui lavori sconfinano di continuo da realtà a surrealtà e da autenticità a finzione, per mezzo di opere ambigue e polisemiche che definiscono la relazione tra il “bello e la bestia”. Una ricerca estetica ed etnografica che li accomuna tutti nell’indagare la perenne dicotomia natura / artificio in un confronto perenne tra l’Io e gli altri.
Il critico d’arte Achille Bonito Oliva sostiene che, attraverso questi giganti dell’arte moderna e contemporanea: “l’arte pratica una strategia di avvicinamento alla vita proprio per risolverne la realtà mancata, cioè quella quotidiana e puramente cronologica, attraverso l’affermazione di una surrealtà costruita dall’immaginazione, dal sogno, dalla follia che il quotidiano riesce solo a sospettare. […] A un mondo fissato in schemi rigidi e chiuso sul proprio auto-funzionamento, l’artista risponde con la strategia del linguaggio inteso come eversione permanente, dove, paradossalmente, l’arte (e la rappresentazione di universi paralleli e immaginari) serve a spingere la vita verso una condizione di impossibilità: per vita si intende la globalità dei fenomeni collegati alla trasformazione del mondo.”[14]
Un ultimo esempio, che penso sia importante menzionare in relazione alla produzione artistica contemporanea, è costituito dal caso dall’artista tedesco Joseph Beuys il cui percorso radicale, in termini di linguaggi e intenzionalità dell’arte incarna spesso – per citare un espressione di Alain Borer – figure sciamaniche e folli quando si accompagna ad animali per imparare da essi. Come ad esempio nell’opera Sinfonia Siberiana, con lepri morte, coyote o cavalli bianchi vivi…[15]
In somma…
La civiltà non è più quel fragile fiore che abbiamo preservato, che abbiamo sviluppato con grande fatica in alcuni angoli protetti di una terra ricca di specie rustiche, senza dubbio minacciose per la loro vivacità, ma che hanno permesso di variare e rinvigorire i nostri sensi.
Claude Lévy Strauss, Tristes Tropiques, 1955
In conclusione, possiamo dunque affermare che la raffigurazione di creature reali e fantastiche abbia caratterizzato la cultura occidentale (e non solo), dall’epoca dei Faraoni fino al regno di Luigi XIV e dalla Rivoluzione Francese fino al terzo millennio, trovando nella raffigurazione delle creature del mondo una componente fondamentale per una riflessione costante e costruttiva sulle disuguaglianze di potere e di genere tra individui e comunità. La simbologia legata agli animali nella produzione artistica contemporanea risente inoltre di un atteggiamento post darwinista molto più libero rispetto al passato degli esseri umani di fronte alla natura. Gli animali sono sempre al centro di opere e artefatti di varia natura e forma ma entrano “vivi” in eventi artistici e culturali che segnano nuovi linguaggi di radicalità e di forza rivoluzionaria, che includono problematiche pericolosamente attuali come il rischio di estinzione di molte specie o la necessità di mondo eco-sostenibile per considerare un futuro possibile per l’umanità.
In tale contesto, Antonio Ligabue è po’ folle e un po’ stregone. La sua opera è portatrice di una semantica eversiva e costituisce una prova tangibile di un vivere la realtà quale immagine contraddetta di un mondo minacciato e minaccioso.[14] Nel tentativo di svelare l’ipocrisia e la crudeltà che la società impone attraverso le maschere della convenzione, l’artista esplora l’etologia e la zoologia come strumenti per combattere l’atavismo arcaico e sconsolante del pregiudizio e della disparità verso una pacificazione universale con la vita.
Dominique LORA Roma 1 Settembre 2024
NOTE