di Sergio ROSSI (Foto di Luca Farasini)
Un Paradiso chiamato Namibia
Se vi è un Paese che più somiglia al mio Paradiso terrestre immaginario questo è la Namibia: una terra sterminata, silenziosa, incontaminata, che regala aurore e tramonti indimenticabili (1),
notti stellate, savane e deserti sempre diversi e sempre uguali, dove anche un termitaio gigante può assumere, avvinghiato ad una acacia, la forma di una piramide in miniatura fatta di sabbia (2)
e dove gli animali, visti nel loro habitat naturale e nella loro dimensione quotidiana hanno una nobiltà e una bellezza mai viste prima.
Perfino il rinoceronte bianco (3), che in realtà è grigio chiaro (del resto il suo nome non deriva da white ma dall’afrikaans wyd, ossia largo, grosso) questo enorme pachiderma dal muso camuso che gli permette di pascolare a terra e dalle corna che ricordano un animale preistorico, libero nella savana (dove evidentemente si sente al sicuro) assume un’andatura sorniona e caracollante che a me ha fatto venire in mente i “camei” che Alfred Hitchcock amava inserire nei suoi film dove appariva per brevi secondi leggiadro proprio come un grosso ippopotamo.
In pochi altri Paesi del resto puoi vedere una varietà così impressionante di animali di ogni forma, stazza e grandezza: la nobile e supponente giraffa che guarda tutto e tutti dall’alto in giù ma che per bere deve piegare le gambe a compasso e assumere un’aria sgraziata che poco le si addice (4);
la zebra di pianura, dalle strisce alternate di nero e marrone che nemmeno un pittore saprebbe disegnare con tanta precisione (5);
il minuscolo dyk-dyk dalle orecchie a ventaglio, il saltellante e agilissimo springbok, il poco più grande impala, tutte varietà di antilopi capaci di sopravvivere nelle situazioni più estreme. E ancora i kudu dalle corna ritorte come il berniniano baldacchino di San Pietro o gli orici che hanno invece corna a scimitarra alte anche un metro e si muovono lenti e sospettosi come un agente segreto sotto copertura. E aumentando le dimensioni ecco gli gnu, i bisonti africani e infine gli elefanti, padroni incontrastati di queste terre, su cui mi soffermerò più avanti, così come su tanti altri animali che ho incontrato nel mio viaggio e che si muovono tutti in spazi che sembrano infiniti e in condizioni che non parrebbero a prima vista consentire la vita a nessun essere animato, come gli struzzi, dalla vista infallibile e dal cervello minuscolo, che però vedere quando corrono velocissimi tutti in fila come atleti ai 3000 siepi è sempre uno spettacolo unico.
Ecco l’altipiano centrale con le sue boscaglie spinose che si alternano a montagne isolate dalla caratteristica cima piatta; e poi orridi e canion che viaggiando verso nord e dopo spazi sconfinati di nulla, al confine con l’Angola diventano improvvisamente terre fertili e verdissime. Ecco la terribile Skeleton Coast avvolta dalla nebbia, punteggiata dai relitti di navi che vi si sono andate ad infrangere e che di tanto in tanto compaiono, squassate e arrugginite come opere d’arte postmoderne. Ecco Cape Cross, paradiso di oltre 80.000 otarie che si crogiolano al sole e si tuffano in mare incuranti dei turisti che le infastidiscono con le loro foto ossessive e per farlo sono disposti a sopportare il puzzo infernale che questi pinnipedi così agili in mare e goffi sulla terra emanano.
Ecco le meravigliose dune di sabbia dai colori più vari, dal beige, all’ocra al rosso che spicca sui candidi banchi di terra salina squarciata dal sole e ancora, dopo WalvisBay, migliaia di fenicotteri rosa che intrecciano danze d’amore leggiadri come ballerine di Degas e tingono la baia ed il cielo con i loro colori pastello.
Come si diceva all’inizio la Namibia è una terra sterminata, di 824000 kmq quadrati per due milioni e mezzo di abitanti, il che la rende, con una stima di tre ab. per kmq il secondo paese meno abitato al mondo dopo la Mongolia. Si tratta anche di una delle nazioni più giovani dell’Africa, avendo raggiunto l’indipendenza dal Sud Africa solo nel 1990, dopo una dura lotta armata condotta dallo SWAPO (Organizzazione del popolo dell’Africa del Sud Ovest), poi trasformatosi nel partito che, abbandonando il suo orientamento iniziale marxista-leninista verso posizioni più filoccidentali, mantiene a tutt’oggi il controllo quasi esclusivo della vita politica del Paese, anche se con percentuali leggermente meno “bulgare” che nel passato. Il suo leader incontrastato ed eroe nazionale, Sam Nujoma, ha abbandonato spontaneamente il potere nel 2005, ma anche l’attuale presidente Hage Geingob e la primo ministro Saara Guugongelwa-Amadhila fanno parte da sempre dello SWAPO.
Pur essendo stata amministrata dai tedeschi solo dal 1884 al 1918, al prezzo tra l’altro dello sterminio della grande maggioranza delle popolazioni indigene, la Namibia mantiene una forte impronta germanica, insieme naturalmente a quella afrikaans, dato che i sud africani sono succeduti ai tedeschi già a partire dal 1920 imponendo in questo paese un duro regime di apartheid. Anche se solo il 6% della popolazione è bianco (il 6,5 meticcio ed il resto autoctono) i bianchi controllano di fatto l’economia e le principali risorse del paese (a partire dalle miniere di diamante e fino a tutte le più importanti strutture turistiche). Tuttavia, pur non mancando forti disparità sociali, sacche di degrado e gravi problemi legati all’AIDS, che coinvolge ancora l’11% della popolazione, pur con tutto questo, l’impressione che si ha è di trovarsi davanti ad uno dei paesi meno poveri e più evoluti del continente nero, con un reddito pro capite superiore anche di dieci volte a quello delle più povere tra le nazioni sub sahariane e con uno sforzo a livello educativo veramente encomiamibile. Basti pensare che la spesa per l’istruzione è superiore più del doppio a quella del nostro paese e che gli anafalbeti sono l’8,5 per cento, a fronte, per esempio del 38% della Nigeria o addirittura del 65% del Niger.
Dopo questo lungo cappello introduttivo sono pronto ad iniziare il resoconto del mio viaggio che in effetti non era cominciato nel migliore dei modi. Giunti infatti all’aeroporto di Francoforte per il transfert verso la capitale namibiana Windhoek siamo stati sottoposti alla tortura di un controllo di sicurezza ossessivamente, burocraticamente e stupidamente pedante, che ha sfiorato l’ora e mezza con un solo varco aperto, urla e risse sfiorate tra chi voleva saltare la fila sostenendo che stava per perdere l’aereo e coloro che assolutamente volevano che ognuno rispettasse il proprio turno e il tutto con il personale tedesco che continuava imperterrito a frugare nei bagagli a mano e gettare con sadica soddisfazione bottigliette d’acqua o creme ritenute pericolose armi terroristiche, incurante del caos che lo circondava. Comunque in aereo abbiamo poi avuto tutto il tempo per riposarci ed iniziare subito il nostro tour una volta giunti a destinazione.
Ci si è quindi messi in marcia verso nord attraverso una savana arida e sterminata, scandita solo dal verde delle acacie, dal rosso/ocra dei termitai e dagli enormi nidi degli uccelli (i cosiddetti “condomini”) che pendevano dagli alberi coi loro intrecci bizzarri. All’ora di pranzo siamo arrivati all’Otijwa Game Lodge nell’omonimo parco privato che ospita oltre trecento rinocenorenti bianchi. Quasi tutti i lodge o i campi tendati fissi dove abbiamo dormito presentano un’ampia struttura centrale dove ha sede la reception e dove si svolgono i pranzi e poi i vari bungalow circostanti e più o meno facilmente raggiungibili dalla sede centrale, comunque tutti con bagno privato, camere ampie e pulite per essere immerse nella savana e letti abbastanza comodi. Anche il cibo, che presenta evidenti tracce della dominazione tedesca è stato nella maggior parte dei casi di buona qualità: si comincia con delle zuppe, poi vi è il piatto principale prevalentemente di carne (abbondano le wienerschnitzel di pollo o manzo) accompagnate da verdura e patatine fritte e non mancano mai i filetti della fauna locale, kudu, orici, springbok veramente gustosi se cotti sul momento alla brace. Non mancano inoltre né la birra locale né il vino sud africano a prezzi veramente d’affezione. Ma la presenza tedesca si fa sentire soprattutto nelle ottime torte di mele o negli strudel che si riesce a gustare anche in improbabili pasticcerie che compaiono all’improvviso in minuscoli villaggi sparsi nel nulla.
Già il primo giorno ci siamo dunque attrezzati, con i rangers locali, ad un safari nell’omonimo parco e abbiamo potuto subito ammirare springbok, kudu, impala e altri animali della savana ma eravamo già quasi arrivati al termine del nostro giro e ancora mancava l’incontro più atteso, quello con i rinoceronti bianchi: ecco però che poco prima del tramonto, all’improvviso e ad una distanza molto ravvicinata, una splendida rinocerontessa con accanto il suo (si fa per dire) piccolo si è abbeverata in un enorme recipiente messo lì appositamente dai quardiani del parco e poi si è allontanata con tutta calma rendendo emozionante già questo primo nostro impatto con la fauna africana, che abbiamo festeggiato con un picnic al tramontare del sole insieme ai rangers. E a proposito di questi ultimi, dovunque siamo andati in tutta la durata del viaggio e nelle varie località visitate, ci hanno sempre garantito incontri ravvicinati con gli animali in tutta sicurezza, rendendo dunque superflui gli avvisi che la Guida di Lonely Planet dispensa saggiamente ai propri lettori (provare per credere) del tipo: 1) se vi imbattete all’improvviso in una elefantessa col suo cucciolo evitate di infastidirla o di emettere rumori molesti altrimenti sono guai; 2) evitate di nuotare in acque dove possono trovarsi coccodrilli o ippopotami; e last but not least (pag. 25) se campeggiate da soli in un posto isolato dormite sempre dentro la tenda ben chiusa e se sentite un leone o un elefante che vuole entrare, magari perché ingolosito dalle arance e dalla frutta che sciaguratamente vi siete portati dentro restate immobili. Anche se la Guida non precisa cosa succede dopo.
Il secondo ed il terzo giorno sono stati interamente dedicati ai safari nell’Etosha National Park, uno dei più grandi e belli di tutta l’Africa, con una superficie di 22.570 kmq. ed una vegetazione che proprio perché rada e intermittente permette un avvistamento della fauna particolarmente efficace. Quanto alla flora dominano ancora le acacie di varie dimensioni, l’albero del mopane, detto anche albero-farfalla per i suoi fiori gialli e leggiadri e vari arbusti spinosi del genere euphorbia che punteggiano una pianura per altri versi arida e desertica, dove di tanto affiorano pozze d’acqua e dove si recano a turno ad abbeverarsi gli animali. Naturalmente rispetto al piccolo parco privato qui l’impatto visivo è stato subito molto diverso. Ed oltre ai soliti kudu, springbok, orici, gnu, impala, ecco subito un numero impressionante di zebre (5) che quasi si mimetizzano con il deserto circostante, ed ecco le giraffe che per bere devono fare strane acrobazie.
Ma gli elefanti? Come per i rinoceronti del primo giorno era quasi giunto il momento di ritornare alla base quando di fronte ad una pozza d’acqua più grande delle altre ecco che un nutrito gruppo di questi pachiderma, con maschi dominanti, femmine e cuccioli ancora attaccati alle madri, si è fatto largo nella radura e subito tutti gli altri animali gli hanno concesso il diritto di precedenza (6).
Ancora più proficui sono stati gli avvistamenti del giorno successivo, interamente dedicato all’Etosha, perché accanto a tutti gli animali prima citati, ai bufali, agli struzzi, alle fameliche iene, abbiamo potuto scorgere (sia pure in lontananza) due leonesse e altrettanti leoni (7) appena reduci da una lauta caccia e sorprendere anche un bellissimo ghepardo nascosto tra gli arbusti.
Inoltre abbiamo raggiunto il “pan”, bacino perfettamente piatto, lungo un centinaio di chilometri e largo una quarantina, che in un tempo remoto era un lago collegato al fiume Cunene ma ora è solo un abbacinante deserto di sale e argilla dove sopravvivono pochissime specie alofile e dove si spingono, nella stagione secca, struzzi, orici e pochi altri animali di piccole dimensioni. E’ un luogo metafisico dove paradiso e inferno sembrano incontrarsi oltre il limitare del nulla, come in un viaggio in un pianeta sconosciuto dal quale ritornare presto nella propria dimensione quotidiana.
Abbandonato l’Etosha ci siamo diretti verso nord, proprio al confine con l’Angola, in una zona ancora poco frequentata dai tour organizzati. In primo luogo abbiamo attraversato il territorio degli Herero, questo antico popolo oggi noto soprattutto per gli strani abiti imposti alle donne dai missionari protestanti al seguito dei colonizzatori tedeschi, che ritenevano i loro costumi troppo lascivi. E infatti ancora oggi le Herero indossano strani e complicatissimi abiti che ricordano quelli tedeschi di fine Ottocento, con corpetti, gonne, sottogonne, crinoline ed un copricapo a forma di corna di bue che le contraddistingue. Ma gli Herero (e in parte anche l’affine popolo dei Sama) sono stati oggetti del primo e ancor oggi misconosciuto genocidio della storia moderna loro perpetrato dai colonizzatori tedeschi che hanno sterminato in pochi anni l’ottanta per cento degi Herero e il cinquanta per cento dei Sama. Inoltre parte della popolazione sopravvissuta venne ridotta in schiavitù, vennero creati campi di concentramento e addirittuta effettuati esperimenti medici sulla razza umana che anticiparono sinistramente quelli compiuti dai nazisti poche decine di anni più tardi.
Meta finale di questa deviazione nel nord del paese sarà poi l’incontro col popolo Himba, che al contrario vive indossando ancora costumi adamitici e di cui parlerò a breve. Sosta d’obbligo nello spostarsi in questa direzione è Opuwo, capitale della regione del Cunene pur essendo un agglomerato di case e baracche di circa 5000 abitanti, dove si incontrano i vari popoli della zona e dove si trova l’ultimo frequentatissimo centro commerciale prima di addentrarsi in zone quasi del tutto spopolate: ed è qui che abbiamo acquistato mais, patate e altri generi di prima necessità da portare in dono al villaggio Himba che avremmo visitato il giorno seguente. Prima però abiamo compiuto una sosta rigenerante nell’Epupa Camp ai confine con l’Angola, da dove abiamo potuto visitare il fiume Cunene e le piccole ma affascinati Epupa Falls. Davanti ai nostri occhi si è aperto un paesaggio del tutto diverso e sorprendente, fatto di palme, frutti tropicali ed una vegetazione lussureggiante che non avremmo più ritrovato.
Ed eccoci finalmente al nostro incontro con gli Himba. Si tratta di un gruppo ormai ridotto a circa 12000 persone, affine agli Herero, ma che a differenza di questi ultimi non ebbero, mi viene da dire fortunatamente, contatti con i colonizzatori tedeschi, perché si erano già spostati oltre i confini con l’Angola nella seconda metà dell’Ottocento. Tornati in Namibia, occupano la parte nord occidentale del paese e sono sparsi in diversi villaggi dove vivono rimanendo profondamente legati ai loro costumi ancestrali. Le donne sono famose per la loro bellezza (8) e per indossare solo una succinta gonnellina di pelle tingendosi il resto del corpo, interamente nudo, con un mix di ocra, burro ed erbe che conferisce loro un colorito inconfondibile. I loro villaggi sono formati da abitazioni di rami e paglia dalla forma conica allineati intorno ad una capanna centrale dove si trova “il fuoco sacro”, fulcro della loro religione animistica e che viene custodito dall’anziana del villaggio affinché non venga mai spento.
Il capo villaggio esercita un potere quasi assoluto. Vige la poligamia, ma come ho potuto constatare io stesso in realtà i bambini nati al di fuori delle relazioni coniugali sono molto frequenti e di loro si occupano tutte le donne della comunità, in una sorta di mutua assistenza che è alla base della vita di questo piccolo gruppo etnico.
L’accoglienza che ci è stata riservata è stata particolarmente festosa, specie da parte dei bambini felici di farsi fotografare ed osservare poi le loro immagini sui telefonini. Molti di loro ci hanno preso per mano, alcuni hanno voluto anche essere presi in braccio e ci hanno accompagnato insieme ad alcune giovani del villaggio che si sono recate a prendere l’acqua presso un piccolo ruscello nelle vicinanze. Ma questa atmosfera idilliaca è stata turbata dalla considerazione amara che più di un piccolo soffre di tracoma e quindi se non curato (e non credo che questo avverrà a breve) rischia la cecità mentre altri recano evidenti segni di rachitismo (9). E qui sorge il solito dubbio su quanto sia lecito che il rispetto degli usi e costumi tradizionali, certo da salvaguardare, prevarichi addirittura la salute e la sopravvivenza stessa di alcuni gruppi in via di estinzione. Dubbio che non mi sento in queto momento di sciogliere né in un senso né in un altro.
Abbiamo poi ripreso il trasferimento verso sud, nel Damaraland, terra anch’essa desertica ma non completamente piatta, ed anzi punteggiata da protuberanze rocciose di varia natura e da arbusti salini spesso endemici solo di queste zone. E’ qui che subito dopo Sesfontein, un villaggio di circa seimila abitanti e varie case e baracche sparse anch’esse nel nulla abbiamo affrontato in 4×4 uno dei “nature drive” più interessanti del nostro viaggio, in una zona frequentata da struzzi, giraffe ma soprattutto dagli schivi elefanti di montagna, in genere difficili da scorgere ma che noi abbiamo potutto ammirare da vicino mentre compivano i loro abbondanti pasti e questo grazie all’abilità dei rangers, capaci di individuare attraverso minimi segnali che a noi sfuggono interamente, le migliori piste per avvicinarsi in tutta sicurezza alla fauna del luogo.
L’attraversamento del Damaraland è proseguito anche il giorno successivo fino al museo all’aperto di Twyfelfontein, dove, dopo un accidentato percorso montuoso, tra i residui di rocce di arenaria caduti dalle pareti, è possibile ammirare una serie di petroglifi risalenti al neolitico e che più che incisioni vere e proprie appaiono come delle raschiature delle pareti dove individuare figure di animali (soprattutto giraffe), disegni astratti e di natura simbolica, mentre manca quasi del tutto la figura umana (10).
Confesso che rispetto ad altri luoghi simili da me ammirati ad esempio in Armenia e soprattutto in Azerbaigian (Kobustan) queste incisione namibiane mi hanno coinvolto ed interessato molto meno, per un certo non so che di approssimativo che non sono riuscito ad allontanare dalla mia mente.
Molto più affascinante è stato allora l’incontro di poco successivo con la superba Welwitschia mirabilis (11), vero capolavoro della natura, appartenente al gruppo delle gimnosperme ma con delle caratteristiche del tutto particolari. Innanzi tutto la sua eccezionale longevità, che può arrivare anche a 2000 anni; il suo aspetto da grande matassa che consta di un tronco cortissimo e di due sole foglie verdi attorcigliate fra loro che arrivano fino a cinque metri di lunghezza e che progressivamente si inaridiscono e muoiono esclusivamente nell’estremità finale; infine il fatto di sopravvivere praticamente solo nelle zone deseertiche del Kalaari e del Namib grazie all’assorbimento dell’umidità portata dalle nebbie costiere.
Eravamo infatti ormai giunti in prossimità della famigerata Skeleton Cost, questa lunghissima spiaggia battuta dai venti dove moltissime navi sono andate ad infrangersi nel corso del tempo e che è stata raggiunta per la prima volta dal navigatore portoghese Diego Caio nel 1486 nei pressi di Cape Cross, oggi famosissima per la colonia di circa 80000 otarie che la popolano. Si tratta in effetti di uno spettacolo veramente emozionante, paragonabile forse solo alla Pinguinera della Terra del Fuoco, anche perché questi pinnipedi si possono ammirare veramente da vicinissimo senza che loro sembrino minimamente curarsene, a patto di resistere all’odore veramente terribile che questa enorme moltitudine emana. Come ho scritto all’inizio si tratta di particolari mammiferi tanto goffi e lenti sulla terra quanto agili e veloci nel mare, che restano immobli a crogiuolarsi al sole per un lunghissimo tempo e poi improvvisamente, tutti insieme, come guidati da un impulso a noi sconosciuto si tuffano in acqua per poi tornare sulla riva ad asciugarsi emettendo strani suoni gutturali (12).
Ed all’ora di pranzo ecco finalmente concederci un pranzo a base di merluzzo dopo tanti giorni di sola carne e successivamente riposare in vero hotel cittadino dopo tanti lodge e campi tendati sparsi nel deserto.
Eravamo infatti giunti a Swakopmund, la terza città della Namibia con i suoi circa 45000 abitanti. Contrariamente a quanto scritto su tutte le guide e i blog che riguardano questo luogo in realtà Swakopmund ha ben poco di tedesco o bavarese a parte qualche chiesa luterana e qualche casa a graticcio e ricorda piuttosto quelle cittadine americane degli anni Cinquanta ricostruite negli studios sul tipo di Suburbicon il bel filme del 2017 diretto da George Cloony e interpretato da Matt Damon e Julianne Moore. Si tratta comunque di una sorta di miraggio nel deserto dove al posto di palme e datteri appaiono negozi di ogni genere, hotel, ristoranti, che era dall’inizio del viaggio che non vedevamo più. A proposito di questi ultimi abbiamo cenato in un pub del centro pienissimo, rumorosissimo e disorganizzatissimo, gestito da degli afrikaans che non riuscivano assolutamente a tenere testa alle ordinazioni, tanto da attendere un’ora e mezzo per avere il nostro cibo e rimpiangere la lenta ma cortese e silenziosa indolenza dei camerieri di colore dei vari lodges dove abbiamo alloggiato.
Da Swakopmund abbiamo effettuato un’escursione in 4×4 (tra le più belle dell’intero nostro tour) attraversando Walvis Bay, piena di splendide ed eleganti ville affacciate sull’Oceano e Sandwich Arbour: abbiamo quindi costeggiato la spiaggia che si tingeva di incredibili varietà di grigio, viola, azzurro per la quantità di alghe e crostacei che popolano la zona. E poi lungo le varie pozze create dal rifrangersi delle onde ecco un moltitudine incredibile di pellicani rosa che danzano a fior d’acqua e colorano di malva il cielo ed il mare (13); ecco, proseguendo, cormorani, pellicani e ancora otarie, di dimensioni minori di quelle viste a Cape Cross.
Ed ecco, infine, addendrandosi verso l’interno, enormi dune di sabbia dalle dimensioni di vere e proprie colline sulle quali gli abilissimi rangers salivano e scendevano come fossimo su delle soffici montagne russe dalle quali ammirare lo spettacolo insieme magnifico e spaventoso delle onde dell’oceano che si infrangevano sul bagnasciuga (14):
e a ricordarci la pericolosità di questa costa ecco ancora il relitto di una nave che qui si era andata ad incagliare alcuni decenni fa (15). E proprio nelle sue vicinanze gli stessi rangers ci hanno offerto un delizioso pranzo a base di ostriche e spumante degno di un ristorante stellato degli Champs Elysées.
Il giorno seguente abbiamo intrapreso un lunghissimo viaggio verso l’interno dove abbiamo superato il Tropico del Capricorno, con le immancabili foto di rito e dopo un ottimo pranzo a base di orice in un lodge immerso anche questo nel nulla, abbiamo raggiunto un luogo dal nome emblematico, Solitaire, formato da una piccola chiesa luterana, un benzinaio, un meccanico circondato da carcasse di vecchie automobili (16)
e una pasticceria dove un certo scozzese Mac non so come, ormai morto, spinto da chissà quale spirito di frontiera, bisogno di solitudine o di fuga dal mondo ha aperto la pasticceria dove gustare ancora oggi la più buona torta di mele dell’intera Namibia e che frequentata un tempo da avventurieri e viandanti occasionali è diventata ormai una meta obbligata per i giri turistici che si spingono fin qua. Continuando il nostro peregrinare siamo giunti infine nella località di Sesriem, meta della nostra incursione della mattina successiva.
Attraversando il deserto del Namib ancora dune, quelle di Sossusvlei, definite le più alte del mondo, ma questa volta di un colore ocra acceso, che varia di tonalità a seconda delle ore del giorno e che risalta ancora di più perché tutt’intorno si aprono quattro “viei”, bacini perfettamente tondi, lisci e pianeggianti, di un bianco abbacinante perché letti di antichi laghi ormai prosciugati e ricchi di sale (17).
E visti dall’alto e in lontananza le persone che vi passeggiano sembrano appartenere ad un quadro di Pieter Brughel il giovane pieno di pattinatori sulle supefici ghiacciate delle Fiandre di inizio Seicento. Ma basta girarsi verso le dune color albicocca per rendersi conto di dove ci si trovi realmente. Ora lo spettacolo sarebbe magnifico se non fosse che l’eccessiva moltitudine di turisti finisce per rovinare l’atmosfera e se si continua con questo ritmo finirà col rovinare le stesse dune.
Il nostro viaggio stava ormai per giungere al termine, attraverso il deserto del Kalahari e fino all’ultimo lodge dove avremmo sostato, il Bagatelle. Da qui siamo partiti per l’ennesimo emozionante safari tra strisce di terra rossa intervellate da una vegetazione rigogliosa dove abbiamo potuto dire addio per l’ultima volta alle giraffe (18), ai rinoceronti bianchi, agli orici, agli struzzi, alle zebre, ormai diventati nostri inseparabili amici.
E proprio nella stessa mattinata del nostro ritormo a Francoforte abbiamo avuto un incontro con un gruppo di Boscimani (o popolo San) che vivono nel Kalahari e fino a qualche tempo fa lo facevano in condizioni veramente primitive tanto da esprimersi ancora con la lingua a click, con consonanti non polmonari ottenute facendo schioccare la lingua contro il palato o attraverso i denti. Ormai, come ci hanno spiegato le nostre guide locali, i San si sono quasi completamente integrati e le loro sono più che altro esibizioni a scopo turistico effettuate anche per non perdere completamente il contatto con le loro radici, ma l’impressioni di qualcosa di artefatto rimane e questo incontro non ha avuto niente a che fare con quello molto più autentico con il popolo Himba.
Sergio ROSSI 3 Settembre 2023