di Giuseppe RESCA
Quando mi chiedono a che scuola psicoanalitica appartengo, se freudiana, junghiana o altro, per togliermi dall’imbarazzo dico: “sono caravaggiano”.
Col tempo poi mi sono accorto che non lo faccio per vezzo, e sorrido quando l’interlocutore la ritiene una battuta di spirito evasiva: no, è proprio vero.
È nell’analisi approfondita su Caravaggio che ho individuato l’ibrido rapporto tra creatività e autodistruzione, secondo me il fondamento teorico dello sviluppo della nostra civiltà a partire dalla rivoluzione scientifica. Un rapporto malato che già Sigmund Freud aveva intuito come dialettica tra Eros e Thanatos, tra istinto di vita e istinto di morte, e che il dimenticato Marcuse aveva superbamente esplicitato in “Eros e Civiltà”, insuperabile testo di sociologia, altrettanto inumato. In fondo, la mia teoria psicoanalitica centrata sulle identità persecutorie parte da lì, facendo di Caravaggio il maestro e il nume tutelare.
Questo per sottintendere l’influenza che Michelangelo Merisi ha avuto sulla storia, non solo dell’arte ma anche del pensiero umano. E con pensiero intendo quello scientifico, politico, psicologico soprattutto, o psicosociale.
Mi è difficile ritrovare un altro uomo che abbia avuto influenza pari o maggiore di lui, almeno tra gli artisti, anche se di uomini che hanno cambiato la storia, più di lui e meglio di lui, ce ne sono tanti. Il suo linguaggio ha una potenza evocativa senza paragoni, riconoscibile perfettamente da chiunque, in qualsiasi latitudine viva. Per fare un confronto, l’enorme influenza del filosofo Marx sulla storia dell’uomo ha preteso milioni di ore di studio prima di avere un seguito universale.
E anche se la sua presenza nel mondo è transitata come una cometa fuggente, Caravaggio ha stregato la sua generazione, pur senza che essa si riconoscesse in lui finendo persino col demonizzarlo. Perché egli difettava di quel carisma dovuto all’eroismo, all’altruismo o a qualche particolare virtù dell’anima, dello spirito o del valore. Ma la sua cupa ossessione del Male, della predestinazione a commetterlo e della pulsione alla morte, infliggendola agli altri e dandola a sé, possiede qualcosa di icastico nel modo di rappresentazione suo prediletto: la decapitazione, gesto cruento e brutale.
Eppure, lui avrebbe potuto essere uno qualunque di noi, certamente dotato, ma neppure tanto in vista se gli fosse mancato l’afflato alla morte. Se avesse fatto un altro mestiere avrebbe potuto manovrare masse, ispirare moti o imprese: lo vedrei bene a guidare una crociata di quei poverelli, senza arte né parte, che giravano il mondo solo per farsi ammazzare. E non mi stupirebbe nemmeno immaginarlo astronauta, perduto nell’iperspazio per un’imprevista avaria del modulo LEM e catapultato fuori, nel buio che avvolge molte delle sue opere.
Ma per una fenomenologia di Caravaggio di un qualche valore sono proprio le sue opere, e soltanto queste, quelle che vanno compulsate. Tutto il resto, tutto quello che sappiamo di lui e che ci viene tramandato, difetta di obiettività. Trovo, perciò, inaccettabile che il suo principale biografo, il famigerato Baglione, fosse il più invidioso dei suoi critici. Ma trovo altrettanto singolare che il suo principale esegeta, Roberto Longhi, si vantasse di averlo riesumato alla Storia, quando magari alla storia passò lui grazie a Caravaggio. Sia l’uno che l’altro hanno fatto con l’artista la propria fortuna, e tutta la critica si è necessariamente uniformata alle loro convinzioni, senza riflettere sulla fenomenologia stessa di Caravaggio, che trascende di molto quel che ci è stato insegnato.
Basti pensare che, infuriato, egli si accaniva sulle tele col dorso del pennello, infliggendovi incisioni più e meglio di un Fontana. Un artifizio tecnico per sopperire alla mancanza del disegno preliminare, come ci hanno insegnato? Forse. Ma perché non pensare che le tele erano per lui esseri viventi, e le stimava migliori dei suoi simili, ma non immuni dai suoi colpi? Non procederà parimenti Jackson Pollock imbrattandole di colori, o Burri e Fontana violentandole artisticamente?
Per non parlare dei personaggi delle sue opere (meglio chiamarli persone) che figurano tutti come stralunati abitanti di un pianeta sconosciuto: sbalorditi, terrorizzati, perplessi, spaventati, increduli, ammassati; nessuno mai pare impratichito nell’arte di vivere, e per quasi tutti loro il futuro si prospetta oscuro. E che dire poi del pittore che mozza la testa a sé stesso, nel doppio autoritratto di Davide e Golia, stessa persona in due corpi diversi? Per una fenomenologia caravaggesca che abbia un minimo di senso occorre partire da questa immagine, espressione potente di autodistruttività costruttiva. Ossimoro perfetto.
Non esiste infatti nessun artista che, a mia conoscenza critica, abbia illustrato il proprio destino di morte con tanta pervicacia, in modo totalmente ossessivo. Se c’è un valore universale che attribuiamo all’arte, al fare arte come professione e al fruirne come spettatori, esso è l’anelito spirituale a un mondo ideale in grado di sconfiggere il sentimento di morte che tormenta gli esseri umani.
Caravaggio non solo non partecipa a questo anelito, ma nutre talmente di incubi la sua opera che sembra aspirare proprio alla morte. Non una morte qualunque, che possa essere scambiata come l’imprescindibile destino dell’essere umano, ma una morte dissacrata e ingiuriosa in toto, senza alcuna redenzione possibile. Quella che incombe sul peggiore degli uomini: colui che ha tradito sé stesso.
Se abbiamo spesso adombrato l’idea di suicidio nei sogni, fantasie o pensieri, e nella stessa vita del nostro pittore, ci pare ora di poter intuire quest’ombra anche nella sua concezione del mondo: un mondo che inevitabilmente volge a distruggersi, nella fatale cadenza del male sugli atti della storia umana.
È come se Caravaggio portasse alle estreme conseguenze quell’Istinto di morte che sarà il principio fondante della psicologia freudiana, tre secoli dopo: se una specie vivente è dotata di questo Istinto, sembra anticipare il pittore, come potrà sopravvivere evolutivamente?
Questo dilemma è cruciale nel pensiero filosofico del nostro tempo, dopo due conflitti mondiali totalmente suicidi, l’uso sempre più frequente della bomba all’idrogeno, le devastazioni ambientali e i mutamenti climatici cui assistiamo, inerti o impotenti, a seconda delle interpretazioni: come potremo sopravvivere come specie? Come potrà sopravvivere il mondo stesso, che tanto violentiamo?
Ecco, questo è Caravaggio. Un anticipatore oculato o una Cassandra ispirata?
A noi la risposta, per una fenomenologia della nostra specie che possa discostarsi dal destino di cui la fenomenologia caravaggesca è anticipatrice.
Giuseppe RESCA Roma 6 Agosto 2023