di Francesco MONTUORI
La palazzina a Roma fra gli anni 1940 e il ‘50
Migranti sull’About
di M. Martini e F. Montuori
SECONDA PARTE
Negli anni fra il 1920 e il 1940 si accentua il passaggio, nell’edilizia romana, dalla tipologia del villino alla palazzina. Questo nuovo modulo della città si mostrò utile, flessibile e particolarmente adatto in un momento in cui l’ amministrazione della città si misurava con il grande problema della ricostruzione e con la forte espansione economica e demografica del paese.
A Roma, questa espansione si manifestò con il moltiplicarsi delle imprese edilizie, spesso piccole e artigianali. La ripresa economica del dopoguerra fece leva sull’affermazione di un ceto medio borghese cui venne offerto un prodotto seducente e alla moda; ricorda Paolo Portoghesi come “la palazzina… fosse popolare presso l’utenza in virtù del suo valore simbolico” grazie alla sua capacità di corrispondere ad una precisa struttura della società italiana; nella palazzina si sanciva “il rifiuto” di un modello abitativo che esorbitasse dalla centralità del nucleo familiare. Così il piano Ina Casa che si basava nello spirito collettivo come fattore fondante, rimaneva marginale nella crescita della città.
L’edilizia di iniziativa privata fu indissolubilmente collegata con la città speculativa. Si assisterà, nel primo decennio del dopoguerra, ad una eccezionale accelerazione del processo produttivo tendente ad eliminare qualsiasi possibile controllo pubblico nella fase che si apriva di modernizzazione e sviluppo della città.
Il processo fu alimentato dallo Stato centrale con le leggi Tupini ed Audisio che concedevano finanziamenti alle cooperative con mutui venticinquennali assai favorevoli al tasso irrisorio del 4%. Le cooperative che si venivano formando tendevano a coincidere con i condomini a “proprietà indivisa” grazie alla riduzione del minimo di soci a nove. “Condomini” e proprietari diventavano in tal modo organici alla tipologia stessa della palazzina romana.
Il prezzo dell’acquisto era infine connesso allo strato sociale cui la palazzina era indirizzata: “abitare a via Archimede”, seppur luogo inabitabile rispetto agli stessi quartieri popolari, faceva parte del nuovo status sociale e veniva incontro alla mancanza di spirito civico della borghesia media e medio-alta.
La palazzina romana diviene la cellula della città in espansione, in grado di ricoprire senza soluzioni di continuità vaste distese del territorio urbanizzato di Roma. Per avere un’ “consenso sociale” occorrevano modelli insediativi facilmente imitabili ed omologabili, modelli esemplari in grado di essere apprezzati dalla borghesia a cui erano destinati, prodotti originali ed esclusivi. Un modello dunque popolare in virtù del suo valore simbolico.
Il tipo edilizio è costituito da una tripartizione del volume fabbricabile: un piano terreno sopraelevato che permettesse l’illuminazione dei locali seminterrati; tre piani in elevazione suddivisi in due, tre, massimo quattro alloggi; un coronamento con l’attico e un possibile e spesso abusivo, ambitissimo superattico. Ogni appartamento veniva suddiviso in tre parti: zona giorno, zona notte, e servizi con la camera per la servitù. La dimensione del lotto e del corpo di fabbrica determinava la presenza di cortili e chiostrine da cui prendevano aria la scala di servizio, i servizi igienici, i corridoi. Elementi caratteristici saranno la pensiline di ingresso, il corpo scala, i balconi e soprattutto la facciata, elemento autonomo per antonomasia, dove si concentravano le ambizioni stilistiche dei progettisti. Particolari e dettagli, infissi, balconi, paramenti murari, legittimavano l’alto costo dell’edificio. La modesta volumetria come la frantumazione in parti della costruzione, favoriva la piccola-media dimensione dell’imprese edilizie che fiorivano all’occasione per poi sparire a cantiere concluso.
La cultura architettonica romana, che pure criticava aspramente questo modello insediativo, non seppe arginare questo processo.
A sinistra si creò l’alibi della palazzina “impegnata”. Così tutti, ma proprio tutti i più importanti architetti e urbanisti dell’epoca si cimentarono, inevitabilmente, con questo tema: Luigi Piccinato, Vincenzo Monaco e Amedeo Luccichenti, Ugo Luccichenti, Giò Ponti, Carlo Aymonino e numerosi altri. Ovviamente con esiti più o meno felici in virtù della parziale autonomia delle singole scelte architettoniche. Il Moderno Movimento architettonico aveva messo a disposizione un patrimonio pressoché illimitato di forme, soluzioni, particolari architettonici cui gli architetti romani attinsero e svilupparono arricchendo in tal modo in modo spesso efficace le loro esperienze più impegnate.
Il caso dei Parioli e sintomatico.
Il quartiere più ricco di Roma offriva fino agli anni ’40 un ambiente estremamente confortevole: strade tranquille su cui si affacciavano giardini, case signorili, ville. Ma fra gli anni del dopoguerra e gli anni ’50, un’ondata di palazzine tutto sommerse. Grazie ai forti dislivelli gli edifici riuscirono ad arrivare a sette otto piani, in barba al Regolamento edilizio. Le strade, strettissime per guadagnare terreno, non permettevano più di parcheggiare le lussuose automobili. Per la sete di un facile e immediato guadagno a favore di una marea di piccoli impresari edilizi e per la stupidità di una ineffabile moda, i Parioli diventarono presto un quartiere da incubo, come ancor oggi appare (fig. 1)
Nella palazzina in via Archimede 148, del 1939, (figg. 2-3) Luigi Piccinato, che sarà addirittura il principale redattore del nuovo Piano Regolatore di Roma del 1962, propone un edificio che sfrutta la conformazione collinare del lotto.
L’edificio ospita quindici appartamenti; ciascun appartamento è stato progettato come fosse un’abitazione isolata, il più possibile separata dagli appartamenti limitrofi. Diversamente dall’impostazione canonica, per cui la facciata principale è allineata con la strada di ingresso all’edificio, il volume risulterà molto articolato con due affacci ben distinti: l’uno interno su via Archimede, risolto unitariamente con una sequenza regolare di logge; l’altro verso valle, attraversato per l’intera lunghezza da balconi che si affacciano su uno straordinario panorama verso la valle del Tevere ed il Soratte. Piccinato trarrà spunto in questo edificio per riproporre le sue ricerche e rielaborazioni degli studi sul Movimento Moderno e sull’edilizia a basso costo, che aveva appreso da Piacentini di cui fu a lungo assistente universitario. L’articolazione dei volumi e il rapporto con la magnifica veduta della valle del Tevere rimangono gli aspetti più apprezzabili di questa originale palazzina.
Sempre ai Parioli il piazzale delle Muse, forse per la sua posizione privilegiata, stimolò la creatività di Giò Ponti e di Ugo Luccichenti che ebbero l’occasione di due incarichi di grande prestigio su questa vera e propria terrazza sulla città.
La Palazzina Salvatelli di Giò Ponti (fig.4) del 1939-40, unico progetto di edilizia residenziale di Ponti a Roma, volge il prospetto principale verso il vasto piazzale.
Gio’ Ponti dichiarò di voler offrire una “signorilità di funzionamento” contrapposta ai “pacchiani attributi signorili” delle palazzine che in quegli anni avrebbero soffocato la verde collina dei Parioli. L’edificio è semplice ma raffinato e si riconnette alle idee razionaliste anticipate da Giò Ponti nell’Istituto di matematica alla Città Universitaria; il fronte sul piazzale presenta sei finestre, apparentemente banali, raggruppate in blocchi di tre a creare una sottile simmetria sottolineata da due ordini di balconi. Il rivestimento esterno era, in origine, in mosaico di gres bianco latte, per rendere, secondo Ponti “gentile e pura” la superficie esterna. Purtroppo un recente intervento ha riportato la superficie muraria ad un banale intonaco bianco. Rimangono tuttavia leggerissime ripartizioni orizzontali che alludono ad un trattamento modulare delle facciate.
Grazie al suo stretto rapporto con la Società Generale Immobiliare, protagonista e dominatrice del mercato edilizio della città, l’ing. Ugo Luccichenti potrà realizzare numerose palazzine in vari quartieri della città: Cassia, Monte Mario, Talenti, Vigna Clara, Casal Palocco, Olgiata. Luccichenti seppe coniugare le esigenze di profitto dell’Immobiliare con una seria ricerca funzionale cui corrispose una notevole capacità progettuale. Luccichenti mantenne una sicura sensibilità razionalista, anche con influssi espressionisti, unita ad un attenta scelta dei materiali, cura dei particolari, soluzioni architettoniche efficaci. Il suo rapporto con la Società Immobiliare fu costruito nel reciproco rispetto; Luccichenti fu talmente preciso nella progettazione che i suoi interventi non necessitavano di varianti o correzioni; la sua profonda disciplina professionale e affidabilità gli permise di realizzare un numero consistente di edifici residenziali ed il più contestato grande albergo della città, l’Hilton sulla collina di Monte Mario. Rimangono notevoli numerose palazzine, simbolo del potere economico e politico su Roma della Società Generale Immobiliare, che infischiandosene del sito, dell’impatto paesaggistico, dell’urbanistica, del panorama, della storia, della natura, impresse indelebilmente il suo status di “padroni della città”.
Ancora sul belvedere di Piazza delle Muse si può ammirare la palazzina Bornigia grande borghese, imprenditore e corridore automobilistico (fig.5).
In uno dei punti più panoramici del monte Parioli fu realizzata da Ugo Luccichenti fra il 1938 ed il ‘40 a fianco della palazzina Salvatelli di Gio’ Ponti. Il volume è risolto con grande semplicità: il prospetto rivolto verso il paesaggio, appoggiato su un basamento in cortina di mattoni, è modulato dal ritmo regolare di sette pilastri, e risolto da lunghe regolari terrazze avvolgenti in aggetto, che scandiscono in orizzontale la semplice facciata con sei ampie finestre perfettamente identiche. Il volume è concluso da un attico che ripete uniformemente il ritmo dei quattro piani sottostanti. Tutti gli appartamenti sono proiettati all’esterno verso il paesaggio laziale.
Nel 1949-50, approfittando della ristrettezza del lotto edificabile ed adattando esattamente l’edificio al profilo curvilineo della strada Luccichenti compie nella cosidetta “Nave”, in via Fratelli Ruspoli, un vera e propria acrobazia architettonica (fig.6).
Il contrasto fra le pareti in vetro degli alloggi e l’espressionistico aggetto dei balconi che disegnano con arditezza un angolo acuto a dare l’impressione di una prora di nave, conferiscono al fabbricato un esplicito richiamo all’immagine di un’imbarcazione pronta a staccarsi dall’edilizia circostante.
Nella palazzina in largo Spinelli del 1953 (fig.7) Luccichenti fa uso spregiudicato di una conquista dell’architettura razionalista.
La facciata ridotta a un foglio completamente slegato dalla struttura dell’edificio viene ritagliata in altezza in modo libero ed irregolare. Un modo di trattare la facciata come diaframma-maschera, da disegnare e proporre in quanto tale, in cui viene utilizzata con naturalezza, benché respinta dai tardo epigoni del Movimento Moderno, come momento della separazione e della differenza: fra pubblico-esterno e privato-interno, limite carico di funzioni simboliche.
La struttura frammentata dell’edificio sarà dunque, nei casi migliori, ricomposta nel dettaglio architettonico; cosi la palazzina apparirà come un campionario di frammenti stilisticamente riferibili al movimento moderno. Tanto più si spezzetta il materiale compositivo tanto più facilmente si sarebbe potuto fargli assumere la forma del recipiente in cui versarlo.
L’attenzione fu dunque rivolta alla cura del materiale, alle finiture, all’approfondimento tipologico dell’abitazione. Sul piano culturale la ricerca architettonica applicata alla palazzina determinò la crisi dello storico riferimento al movimento moderno europeo e al razionalismo in particolare. Ne risultò al contrario una acritica diffusione della maniera moderna frantumata nei più minuti particolari tipologici. L’inquieto zigzagare delle facciate ed in particolare del prospetto principale che si allinea sulla strada di accesso, l’impianto strutturale spesso anonimo, le ardite pensiline d’ingresso, la sequenza dei balconi aggettanti: non un nuovo linguaggio bensì il moderno ridotto a particolare architettonico funzionale ad un processo di rapida diffusione. La facciata libero piano geomterico permetteva di movimentare le masse, di proiettare gli ambienti interni verso l’esterno e di alludere ad un rapporto con la natura circostante, nei fatti inesistente.
Il caso-limite è realizzato fra gli anni ‘50 e il ‘51 da Mario Ridolfi nella casa Zaccardi a via G. B. De Rossi (fig.8).
Come suggerisce Manfredo Tafuri nella sua Storia dell’Architettura Italiana, Mario Ridolfi, proseguendo l’esperienza del villino Alatri in via Paisiello, lavora esclusivamente sulla piccola scala, quella che gli offre ancora la possibilità di esprimere il “fare artigianale” a lui così congeniale. La somma dei dettagli definisce la grande scala dell’edificio. Ma la palazzina di via De Rossi, sottolinea Tafuri, ci segnala “che non è più possibile affrontare il tema con la stessa astrazione utilizzata nell’anteguerra nella vicina palazzina di via di Villa Massimo” (fig. 9).
Non vi è più ormai una nuova tipologia da proporre al ceto medio borghese, nessun nuovo “modo di vita”. Ne esce un espressionistico cozzare di forme, di distorsioni geometriche, una sorta di autoritratto della committenza privata che, eliminato qualsiasi controllo pubblico, ormai disgregata, inutilmente ansiosa, in definitiva volgare, travolta dal suo stesso furore speculativo, si dimostrerà economicamente soddisfatta e del tutto incapace, in definitiva, di indirizzare ragionevolmente la crescita urbanistica della città.
Francesco MONTUORI Roma settembre 2019