di Francesco MONTUORI
Migranti sull’About
di M. Martini e F. Montuori
LETTERA DA MADRID
A Madrid due mostre molto differenti: l’Opera lirica al Caixa Forum e Fra’ Angelico al Museo Nazionale del Prado.
Dopo che nell’ottobre 2007 è stata ufficialmente inaugurata la nuova ala del Museo del Prado realizzata, dopo un lungo iter burocratico, da Raphael Moneo, l’intero Paseo del Prado è diventato una sorta di grande galleria a cielo aperto: attraversando il vasto spazio alberato, in direzione della stazione di Atocha, si incontrano, dopo il Prado, il Museo Thyssen Bormenisza e, poco più avanti il Centro culturale Caixa Forum e il Museo Reina Sofia con l’imponente addizione realizzata da Jean Nouvel.
La breve mostra sull’Opera Lirica al Caixa Forum si esaurisce nel piacevole ascolto delle opere di Monteverdi, Mozart, Richard Strauss, Wagner che, passeggiando per le sale espositive del Caixa vengono trasmesse negli auricolari. Nessun intento critico o filologico bensi’ solo una piacevole “pennellata” dalla nascita a Venezia dell’opera lirica fino alla grande opera di Wagner.
Ma è l’edificio che mostra se stesso. La centrale elettrica Mediodia, costruita agli inizi del ‘900 e vincolato come patrimonio architettonico, un edificio a due piani in mattoni coperto da un tetto a doppia falda e rifinita alla base da un basamento in granito, è stato reinventato fra il 2001 e il 2007 dagli architetti svizzeri Herzog e De Meuron. L’edificio si affaccia su un lato in una piccola piazza ove originariamente era una pompa di benzina; rimossa la pompa il piccolo spazio si è trasformato in un luogo urbano di incontro e di riposo a disposizione del nuovo edificio.
Il progetto di Herzog e de Meuron si orienta verso un intervento che, senza annullare totalmente la traccia figurativa, materiale, storica dell’edificio lo trasformano irrimediabilmente in un opera del tutto nuova. D’altronde, come affermano gli stessi architetti, conservare un edificio del passato ha senso solo se questo possiede qualità eccezionali o se la demolizione non può essere una strada praticabile. Beati loro!
L’operazione dei due architetti svizzeri può essere sintetizzata in tre semplici mosse: sospendere, svuotare, contenere.
L’eliminazione del basamento in granito trasforma l’edificio preesistente in un pesante volume magicamente sospeso nell’aria come in lotta con la forza di gravità. Il grande atrio coperto a lastre triangolari di acciaio appare come una piazza coperta su cui galleggia il fabbricato.
In realtà l’edificio riposa su tre cubi di cristallo scuro con funzione di piedistallo, dove sono previsti i collegamenti verticali. La figura a imbuto della scala centrale, anch’essa rivestita in acciai,o che collega l’atrio con il sottostante auditorium, si contrappone al semplice quadrilatero dell’edificio mimando il “precipizio” che conduce alla “caverna” sottostante.
L’edificio preesistente è stato svuotato e completamente trasformato e destinato ad esposizioni, workshop, attività culturali.
Eliminato il tetto di copertura l’edificio è stato sopraelevato di due piani con un prisma volumetrico irregolare che allude alle forme dei fabbricati circostanti. Ma, attenzione, senza nessun intento imitativo, bensì alludendo provocatoriamente a un “coperchio” appoggiato sul preesistente edificio industriale. I pannelli d’acciaio che lo rivestono, in corten sabbiato, hanno una grana e un colore assai simile a quello dei mattoni della vecchia centrale. Va sottolineata la raffinata cornice di appoggio fra i due differenti partiti delle facciate. Coraggio dell’ironia. L’ultimo piano, che ospita la caffetteria ed il ristorante, è contenuto dentro un involucro metallico, in gran parte traforato “a caso” per poter traguardare verso l’esterno.
In luogo dei due piani originari ora ve ne sono sette, due dei quali sotterranei destinati ai parcheggi, servizi per il pubblico e ad un auditurium, dislocato al di sotto della piccola piazza di accesso.
Ben più importante ed impegnativa è la vasta rassegna su fra’ Giovanni da Fiesole, Angelicus pictor, negli spazi rinnovati del Museo Nazionale del Prado: “Fra Angelico e l’inizio del Rinascimento a Firenze” (curatore Carl Brandon Strehlke, fino al 15 settembre http://museodelprado.es ) si avvale di oltre 80 opere grazie ai numerosi prestiti di importanti istituzioni museali quali il Museo Nacional d’Art de Catalunya, lo Statens Museum for Kunst di Copenhagen, il Detroit Insitute of Art; la Galleria degli Uffizi di Firenze, il Polo Museale della Toscana, Museo di San Marco di Firenze, la National Gallery di Londra.
Il fascino del Beato Angelico è contenuto nelle sue profonde contraddizioni. L’essere vissuto a cavallo delle profonde trasformazioni fra la maniera della rappresentazione gotica e la nuova spazialità rappresentata dalla rivoluzione rinascimentale. Comincia a dipingera avendo come riferimenti Lorenzo Monaco e Gentile da Fabriano per riconoscere infine in Masaccio il fondatore dell’arte moderna.
Angelico apprese, negli affreschi della Cappella Brancacci (1425-26), che il paesaggio di montagna, in cui si muovono Adamo ed Eva cacciati da Paradiso Terrestre, conserva il suo carattere simbolico anche dopo che le proporzioni sono diventate naturali. Le astrazioni di Masaccio appartengono ad un ordine naturale, sono interpretazioni individuali della natura che osserviamo. Esse creano una nuova natura, la natura della pittura, parallela alla natura reale. La potenza della rappresentazione masaccesca sta nel rendere concrete anche le sue astrazioni, così che le deformazioni del paesaggio possono apparire come naturali. Egli dimostrò che esiste un nuovo rapporto fra la figura umana e lo spazio secondo la visione prospettica, accentuò la pesantezza dei corpi e seppe imprimere moto alla pesantezza.
Un passaggio stilistico non senza conseguenze che lascia profonde tracce nella pittura dell’Angelico. Egli si avvarrà dei nuovi metodi di Masaccio per esprimere le idee tradizionali sui temi religiosi. Da Masaccio apprese il reale rapporto fra la figura umana e lo spazio organizzato nella rappresentazione prospettica brunelleschiana. Apprese che la realtà pittorica è diversa da quella naturale, eppure è capace di apparire naturale.
Il momento della transizione dalla maniera gotica alla spazialità rinascimentale avverrà intorno agli anni ’30 del Quattrocento, esemplificato nell’altare di San Domenico di Fiesole, nelle pale di altare di Madrid, Cortona e nella Deposizione di San Marco a Firenze.
Un secondo nodo riguarda il carattere mistico dell’Angelico. Sarà il Vasari, nelle Vite degli Artisti ad indurre molti, in particolare la critica romantica, sulla falsa via dell’Angelico “pittore di Dio”.
“Schivò tutte le azioni del mondo; e puramente e santamente vivendo, fu de’ poveri tanto amico, quanto penso che sia ora l’anima sua del cielo. Si esercitò continuamente nella pittura, né mai volle lavorare altre cose che per i Santi. Potette essere ricco, e non se ne curò; anzi usava dire, che la vera ricchezza non è altro che contentarsi del poco……. Ed i Santi che egli dipinse hanno più aria e somiglianza di Santi, che quelli di chiunque altro. Aveva per costume non ritoccare né raccorciare mai alcuna sua dipintura, ma lasciarle sempre in quel modo che erano venute la prima volta per credere che così fosse la volontà di Dio.”
Sarà Giulio Carlo Argan, nel suo saggio del 1955 a mettere in luce, diversamente da Vasari, la sua profonda consapevolezza e “strategia” culturale dentro il moto innovativo dell’Umanesimo e di Masaccio. Nato con il Quattrocento, alla pittura del suo secolo offrì una chiave che fruttificò almeno da Piero della Francesca al Caravaggio. Fra i due principali filoni di cultura scaturiti da Masaccio – quello volumetrico di Paolo Uccello e Piero della Francesca e quello lineare di Lippi e Castagno – l’arte dell’Angelico si colloca in una posizione particolare; egli non si indirizza a una definizione plastica della forma ma alla sua definizione cromatica pur sempre nei termini spaziali-prospettici della visione rinascimentale. L’Angelico assume da Masaccio il valore normativo della luce sullo spazio, ma conserva allo stesso tempo gli elementi di un cromatismo che gli derivavano dalla sua giovanile frequentazione di Lorenzo Monaco.
Esattamente come lo stesso Ghiberti era rimasto fedele ad alcune concezioni dell’arte gotica senza rifiutare le nuove scoperte del suo secolo, Fra’ Angelico si valse dei nuovi metodi di Masaccio per esprimere le idee tradizionali dell’arte religiosa. Nella su maturità artistica questi aspetti contrastanti si fonderanno in una pittura che troverà il suo unico riferimento ideale negli affreschi della cappella Brancacci. Gli mancò tuttavia, rispetto al maestro, di rappresentare la realtà corporea in forme meno statiche e più naturali.
Beato Angelico insieme a Benozzo Gozzoli, Domenico Veneziano, Paolo Uccello potrà dunque essere annoverato nella schiera di quegli artisti del Quattrocento fiorentino che pur riconoscendo nel linguaggio denso e plasticamente scultoreo di Masaccio un sicuro riferimento ideale, si orientarono per una visione più distesa in cui l’armonia cromatica, l’accordo di tinte, l’equilibrio delle velature, promuove una pittura che si fa chiara e trasparente, dove le ombre diventano nitide, i toni si fanno delicati come l’aria tersa in una mattina di primavera.
Così la sua opera è insieme tradizionale e nuova, una serena meditazione che si pone come tramite fra natura e divinità, una dimostrazione dell’esistenza di Dio: questa dimostrazione è affidata alla luce che fa brillare i colori come gemme, rivelando lo splendore del Creatore e del creato.
E’ il Beato Angelico che tra il realismo di Donatello e le teorie sulla storicità dell’Alberti ha creato il compromesso del naturalismo, aprendo così la via a un’arte che non è più una rappresentazione immobile, ma, al contrario un discorso animato, un colloquio umano. Partendo da questa prospettiva storica si possono cogliere appieno i due cardini del linguaggio angelicano: una pittura apertamente naturalistica in una precisa visione prospettica e la poetica della luce. Come conclude Argan nel suo saggio del 1955:
è lui “che ha identificato nella luce quel principio di qualità che permette all’esperienza umana, limitata e attaccata alla “quantità”, di elevarsi fino a comprendere l’idea suprema dell’essere. Piero della Francesca partirà di qui per raggiungere quell’identità di spazio e di luce che è la sintesi di tutti i grandi temi dell’arte nei primi anni del XV secolo: la ricerca di una conoscenza che ha dell’umano e del divino, di una forma che possa esprimere altrettanto bene il dramma e il contrasto della vita umana, e le leggi eterne e razionali della natura”.
Francesco MONTUORI Madrid giugno 2019