di Massimo PIRONDINI
Nel dipinto è narrata una vicenda dell’antica Roma tramandataci da una lettera di Plinio il Giovane, che a sua volta pare l’avesse appresa da Fannia, nipote della stessa protagonista, Arria.
Arria è raffigurata di fronte al marito Caecina Petus, incarcerato per aver partecipato alla ribellione contro l’imperatore Claudio guidata da Lucio Scriboniano (42 d.C.): al marito, al di là delle sbarre della cella e titubante di fronte al suicidio, la donna porge il pugnale con il quale si è trafitta il petto, proferendo le parole di incoraggiamento “non dolet, Paete” (non fa male, Peto).
La specifica matrice stilistica e pittorica di questa raffinata e singolare opera (olio sutela, cm 144 x 120) ci induce senz’altro a ritenerla un importante inedito di Luca Ferrari (Reggio Emilia, 1605 – Padova, 1654), artista ormai giustamente reputato uno dei maggiori protagonisti del Seicento emiliano[i] e veneto, anche se gli studi, su di lui, che operò in sedi diverse (Reggio e Padova), furono a lungo privi di una visione organica e globale.
A ciò si è tentato di porre rimedio con la prima nostra, e finora unica, monografia sull’artista [ii], studio che ha messo a frutto sia le ricerche tracciate in terra veneta da illustri specialisti[iii], sia le precedenti indagini condotte in Emilia dallo scrivente[iv].
Fin dall’età giovanile Luca si mostra ben attento a quanto famosi maestri emiliani, come Leonello Spada, Carlo Bonone ed Alessandro Tiarini, andavano affrescando nel Santuario reggiano della Madonna della Ghiara[v]; dello stesso Tiarini egli è documentato come collaboratore, nel 1627, al servizio del Duca di Modena. Verso il 1630 è già, probabilmente, a Padova [vi], ove si sposa, nel 1632, e dipinge, nel 1635, una grande tela votiva per lo scampato pericolo della peste per incarico dei conti Papafava, fra i nobili più in vista della città. Il soggiorno padovano è l’avvio, per lui, al successo ed alla notorietà, consentendogli inoltre l’agevole studio dei grandi testi della pittura veneta, sia cinquecentesca (in primis Veronese), sia contemporanea (Renieri, Strozzi, ecc.).
Al suo ritorno a Reggio (1645) ne mostra i frutti in quel felice “fiato per la grande decorazione” (come, in proposito, osserverà l’Arcangeli) nei grandiosi affreschi nella Basilica della Madonna della Ghiara, nonché in numerose e ragguardevoli tele per altre chiese e per privati committenti del ducato estense.
Nel 1650 l’artista risulta di nuovo documentato a Padova, ove tiene bottega con diversi allievi, con i quali sarà coinvolto in prestigiose imprese, fra cui la decorazione di Villa Selvatico Emo-Capodilista a Battaglia Terme nonchè, in città, l’importante pala per la basilica di Sant’Antonio e le sette grandi tele per la chiesa di San Tomaso.
La sua scuola è formata da un gruppo affiatato di giovani appena o quasi diciottenni al rientro del Ferrari in Veneto, come Francesco Viacavi, reggiano[vii], già suo aiuto in Ghiara, i padovani Giulio Cirello ed Andrea Mantova, capeggiati dal ventiquattrenne Francesco Minorello[viii], che diventerà a sua volta pittore di rilievo, nell’ambito della pittura veneta, dopo la morte del maestro. Si tratta di una bottega ben organizzata e assai attiva, che nulla aveva da invidiare a noti esempi del tempo quali la “stanza” di Regnier a Venezia o quelle di Reni e Guercino a Bologna.
Ne sortì una copiosissima produzione di dipinti destinati a far fronte alle esigenze collezionistiche delle più importanti famiglie venete del tempo, opere che ancor oggi compaiono frequentemente alle aste o sul mercato antiquario, con attribuzione a Luca Ferrari. Di esse molte sono quelle da ricusarsi decisamente rispetto alle rare acquisizioni accettabili; in ogni modo anche i dipinti genericamente “alla Ferrari” stanno ad indiretta conferma dello straordinario successo dell’artista in terra veneta.
Richiestissime, per far fronte alle dette esigenze di raccolte o di arredo, furono poi certe particolari “invenzioni” di Luca, talune replicate integralmente dallo stesso maestro, altre affidate in parte o in toto alla collaborazione degli assistenti. Si passa così, per questi fortunati temi, dalle versioni del tutto autografe, a quelle con marginale intervento di aiuti, a quelle, via via, con maggiore partecipazione della bottega, fino alle semplici copie, talvolta di mani estranee, coeve o, magari, successive. Una pratica che rende particolarmente insidiose le sabbie mobili attribuzionistiche riguardo a diverse opere di questo ultimo lustro di attività del nostro, inducendo a qualche precario distinguo anche in imprese straordinarie, come, ad esempio, nei magnifici affreschi di Villa Selvatico a Battaglia Terme[ix].
Tre soggetti, in particolare ed in tal senso, sembra abbiano goduto un singolare favore: Il commiato di Ettore da Andromaca, Crise che domanda ad Agamennone la restituzione di Criseide e Arria e Cecina Peto; ciascun tema con il suo carico di archetipi, repliche e copie da offrire all’attenzione degli studi, sollecitando l’esperienza e l’occhio del conoscitore a talvolta non facili o problematici giudizi.
Nel terzo di questi gruppi tematici [x], l’inedito Arria e Cecina Peto qui considerato viene a dichiararsi di straordinaria importanza, nell’ambito delle diverse inquadrature che il Ferrari dedicò a questo soggetto. Infatti, ferme restando, con qualche variante, le figure dei due personaggi, il Ferrari dovette progettare almeno tre prototipi, modificando il campo di ripresa.
Nella stesura più allargata, alle spalle di Arria, in secondo piano sulla destra, è presente una ancella, in atto di dolente stupore, personaggio che scompare nella seconda versione, sempre impostata in senso orizzontale, lasciando in risalto i sontuosi panneggi della matrona romana.
Della prima versione ci restano due testimonianze, chiaramente copie da un originale perduto: una in collezione privata di Verona [xi], l’altra, di Francesco Viacavi[xii], presso la Galleria Fontanesi di Reggio Emilia;
della seconda variante possiamo ricordare due esemplari, di discreta qualità, a Torino (collezione privata[xiii]) e a Guastalla (Biblioteca Maldotti[xiv]), opere di probabile collaborazione fra maestro e aiuti.
Il terzo modello è quello illustrato dal dipinto qui considerato. Esso, pur mantenendo l’impostazione recitativa dei due protagonisti, si differenzia dagli schemi compositivi di cui sopra per il formato, non più orizzontale ma verticale, e per altre numerose varianti: si vedano, ad esempio, nella figura di Arria, la raffinata acconciatura (qui raccolta in una ricercata retina a fili d’oro, là ornata da una semplice coroncina di perle), le vesti sontuose (là grigio-celesti tagliate da bande più scure, qui smaglianti d’azzurro oltremare), nonché l’aggiunta del prezioso fermaglio, sul davanti, con pendenti di perle.
Inoltre le peculiari caratteristiche dello stile e l’alta qualità dell’esecuzione contribuiscono ad individuarlo come un assoluto autografo, forse il primo pensiero a monte di tutte e tre le serie.
Ne certificano l’indiscutibile e piena paternità del Ferrari, oltre ai numerosi pentimenti riscontrabili ad un attento esame, l’immediata freschezza della realizzazione, la calibrata stesura cromatica, i morbidi e delicati passaggi di tono, la sensuale tipologia del personaggio femminile.
Modi ed espressioni che ben si accordano con altre significative opere di Luca riferibili a questi ultimi tempi della sua attività: alludo a capolavori come la Morte di Sofonisba o la Semiramide che apprende la rivolta di Babilonia [xv] (entrambi al Museo Puskin di Mosca), o all’Ercole e Onfale del Museo di Chaumont. Una replica del nostro, anche questa in senso verticale e ridotta sui quattro lati, fu esposta, agli inizi del nostro secolo, alla Galleria Canesso di Parigi[xvi].
Il nostro dipinto proviene dai nobili Cittadella di Padova, già proprietari della villa Bolzonella a Cittadella (ora dei Giusti del Giardino, eredi dei Cittadella). Non è escludibile poi che l’opera possa essere pervenuta a questa famiglia con la dote di una Dondi Dall’Orologio, andata in sposa, nel XIX secolo, a un Cittadella.
Ricordiamo che un dipinto raffigurante Arria e Peto di Luca Ferrari, con altri “quattro quadri istoriati” del medesimo artista, si trovava, secondo un inventario del 1750, a Padova, proprio presso i Dondi Dall’Orologio[xvii].
Massimo PIRONDINI Reggio Emilia Luglio2023
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