di Anna Lo Bianco
Vedendo e rivedendo in questi giorni da Palazzo Chigi il grande quadro di San Leone Magno che mette in fuga Attila, sempre inquadrato alle spalle dei vari rappresentanti del governo, mi torna in mente la vicenda che c’è dietro, ma anche i tanti rapporti con il potere che negli anni della mia direzione della Galleria Nazionale di Arte Antica sono stati frequentissimi, spesso contrastati, talvolta favorevoli, come in questo caso.
Questa grande tela è una copia seicentesca di grande qualità dall’originale di Raffaello nelle Stanze Vaticane.
Proveniva dalle collezioni Barberini ed era appena uscita da un restauro sapiente che ne aveva messo in luce la grandiosità dell’impianto, la gamma smagliante dei colori e una mano sicura e capace. Tutti elementi che ne facevano un’opera da guardare con interesse. Eppure difficile da esporre nel percorso museale: in primo luogo le dimensioni decisamente fuorimisura che superano i quattro metri e poi naturalmente l’assenza di una attribuzione, dati entrambi di cui si tiene grande conto nel progettare un allestimento. Eppure non si voleva destinare il quadro ai depositi ma cercare di valorizzarne proprio quella grandiosa ufficialità storica che lo caratterizza.
Era il periodo in cui Palazzo Barberini era in restauro in vista della sua completa riapertura al pubblico, dopo le incredibili vicende circa l’uso degli ambienti che il Ministero della Difesa voleva anacronisticamente conservare per il suo circolo.
Vicende su cui si potrebbe scrivere un libro per l’evidente arroganza del potere e per la mancanza di visione dell’allora classe politica. Alla fine tuttavia la ragionevolezza della cultura anche grazie ai tantissimi sostenitori del progetto, tra cui un ministro come Francesco Rutelli e un intellettuale come Salvatore Settis, ebbe la meglio e il museo riaprì i suoi tre piani espositivi.
Ma torniamo alla grande tela perché ci venne in mente l’idea per valorizzarla al meglio ovvero trovarle una destinazione ufficiale e solenne come meritava. Ecco allora che la proponemmo a Palazzo Chigi dove allora Gianni Letta manifestava tutto il suo interesse per la cultura offrendo anche un decisivo impegno sulla vicenda militari museo. L’offerta fu accolta con grande entusiasmo e da quel momento il quadro è testimone silenzioso e solenne della nostra recente storia.
Era la nostra proposta anche un modo per ribaltare quello che invece avveniva in quel periodo da parte del potere e dei tanti politici che con le loro segreterie ci contattavano.
Cosa volevano? Chiedevano che gli venissero destinati dipinti del museo, per adornare le proprie stanze che con opere antiche guadagnavano certamente in prestigio. Oggi può sembrare curioso e anacronistico eppure allora era un problema costante. Un problema da affrontare con una certa diplomazia, non troppa in verità, cedendo solo laddove impossibile fare diversamente e in ogni caso selezionando solo opere che alla gradevolezza decorativa univano attribuzioni incerte, per non privare il museo dei suoi capolavori. Eppure talvolta le richieste erano mirate e puntavano addirittura alle grandi vedute di Canaletto o di Van Wittel, richieste naturalmente dirottate verso altre meno significative opere.
Era davvero un problema frequentissimo e per questo quando invece la situazione si ribaltava recuperando dipinti non più nel museo, era un momento di grande soddisfazione.
Molti quadri, anche importanti, si trovavano infatti in luoghi diversi dalla galleria, dati in comodato da decenni in varie istituzioni e alcuni erano davvero indispensabili al nuovo assetto espositivo.
Così, mentre da una parte dovevamo cedere alcuni quadri, altri ne recuperavamo da varie istituzioni, che mostravano grande interesse a partecipare alla rinascita di Barberini. La Corte Costituzionale ci consentì di ritirare il Cristo Portacroce di Girolamo Muziano, capolavoro assoluto del pittore lombardo; l’ambasciatore italiano a Madrid fu altrettanto disponibile cedendo il San Giovanni nel deserto di Pier Francesco Mola, denso di suggestione e diversi altri quadri vennero ritirati dai corridoi del Ministero per la Cultura.
Forse per il clima di rinascita che si addensava prima della riapertura di Palazzo Barberini arrivarono anche le proposte dei collezionisti privati, intenzionati a lasciare al museo una loro opera importante quale segno di personale mecenatismo. I primi furono i fratelli Jacorossi che offrirono la grandiosa croce lignea di Alberto Sotio, esposta accanto alle Croci dipinte del museo, nel settore dei Primitivi.
Fu poi la volta di Mark Getty, nipote del fondatore dell’omonimo museo, che nel 2012 ci destinò in comodato una tavola grandiosa di Francesco Salviati raffigurante l’Allegoria della Carità romana. L’attuale direzione ha proseguito in questa direzione e altre importanti opere sono state acquisite a arricchire un percorso museale davvero articolato e esemplificativo delle tendenze figurative dai Primitivi al Settecento.
Nel frattempo il rapporto tra potere e cultura ha preso differenti e più tollerabili vie.
Anna Lo Bianco Roma 30 ottobre 2022