di Luca BORTOLOTTI
Massimo Pulini, Bartolomeo Mendozzi da Leonessa. Un maestro del Seicento tra l’Incredulità, il caso Ducamps e i nuovi documenti, NFC Edizioni, Rimini 2022. [FIG. 1]
Con questo volume monografico dedicato a Bartolomeo Mendozzi, noto fino a pochissimi anni fa con la denominazione di comodo “Maestro dell’Incredulità di San Tommaso”, Massimo Pulini aggiunge un tassello d’importanza tutt’altro che trascurabile alla ricostruzione della galassia caravaggesca: un’impresa sempre più centrale nelle tendenze attuali della storia dell’arte, i cui esiti, giorno dopo giorno, appaiono sempre più sorprendenti e si può ben dire inesauribili.
La fatica dello studioso giunge opportuna ad arricchire e precisare la fisionomia di un artista riemerso solo recentemente agli studi dalle nebbie dell’anonimato. Il percorso filologico che ha condotto alla restaurazione del vero nome di questo maestro (che, nella sua aurea mediocritas, si passi il termine, testimonia al più alto livello le rilevanti qualità indispensabili a un pittore di seconda fila per fare una buona carriera nel contesto romano della prima metà del Seicento) presenta dei connotati piuttosto esemplari, che si possono riassumere in poche battute.
Per merito di Gianni Papi, a partire da un contributo generativo su “Arte Cristiana” del 1997, è stato possibile individuare un primo nucleo seminale di opere che, nella necessità di più saldi punti di riferimento e di un inevitabile lavoro di scavo e di setaccio, manifestavano caratteri comuni tali da individuare una personalità notevole e dai connotati sufficientemente idiomatici. Punti di riferimento cardinali di questo anonimo maestro apparvero subito al Papi -oltre naturalmente Caravaggio- Valentin, Vouet, Ribera e Manfredi, cosicché egli veniva affiancato a caravaggisti “di seconda generazione”, attivi dalla fine del secondo decennio, quali Cecco del Caravaggio e Gerard Douffet.
Il name-piece da cui lo studioso partì alla ricostruzione di questa nuova personalità artistica fu il dipinto, a tutt’oggi da reputare il vertice assoluto della produzione del pittore, raffigurante l’Incredulità di San Tommaso oggi in Palazzo Valentini a Roma [FIG. 2]:
un’opera, come riassume brillantemente Pulini, dai cui “elementi fisici e formali, cromatici e chiaroscurali, si dispiega l’alfabeto stilistico dell’artista…”, e che rivela
“un insieme di caratteri che ritroveremo declinati in tante varianti … perfettamente aderente al clima del caravaggismo diffusosi a Roma all’indomani della morte del Merisi”.
Gianni Papi ritenne di poter associare il corpus di opere che veniva ricomponendo al nome del maestro francese Jean Ducamps, documentato a Roma in quegli anni e citato in termini lusinghieri dal Sandrart, ma pressoché sprovvisto di opere. L’ipotesi era ragionevole e ben congegnata e fu per lo più ammessa dagli studiosi, sia pur tra le opportune cautele.
Sono state le ricerche d’archivio di Francesca Curti (pubblicate in “Nuovi Studi” nel 2020), portata sulla giusta strada dalla corretta attribuzione al Maestro dell’Incredulità di San Tommaso di due tele nel Duomo di Rieti [FIGG. 3-4] operata da Giuseppe Porzio nel 2015, a risalire al nome di Bartolomeo Mendozzi, nato probabilmente nel 1600 nella cittadina del reatino Leonessa e quasi certamente allievo di Bartolomeo Manfredi.
Nel 1620 Mendozzi risulta già residente a Roma e nell’Urbe viene stabilmente registrato dai documenti disponibili sino al 1644. Lo ritroviamo presente, inoltre, negli atti dell’Accademia di San Luca dal 1627 al 1643 e in quelli dei Virtuosi del Pantheon tra il 1640 e il 1643. Tra le sue commissioni di maggiore rilevanza vanno citati, per conto di Urbano VIII, gli affreschi con Storie della vita di Sant’Andrea nelle Grotte Vaticane, eseguiti entro il 1630 e ricordati, tra gli altri, da Filippo Titi.
Se le indagini archivistiche della Curti hanno confutato l’associazione con Jean Ducamps, il catalogo che si stava costituendo intorno al vecchio nome, nelle sue linee fondamentali, si è dimostrato ben altrimenti saldo, fatte salve le inevitabili oscillazioni attributive, all’ordine del giorno nel campo tanto arduo quanto ossessivamente indagato della pittura caravaggesca.
Le ricerche condotte sul pittore, sotto entrambe i nomi, in questa trentina d’anni hanno consentito di far emergere un artista dalla produzione piuttosto cospicua, coinvolto in commissioni ecclesiastiche per lo più periferiche (in cui spiccano proprio le due tele per il Duomo di Rieti), ma con una prevalente attività di opere destinate alla devozione privata, spesso impegnato nella pittura di genere (musici e cantori, giocatori di carte, zingare che leggono il futuro etc. FIGG. 5-7) e perfino, sporadicamente, nei temi allegorici [FIG. 8].
Ma, ciò che più conta, hanno portato alla ribalta un artista capace di alcuni picchi di qualità di rilievo assoluto, tali da affiancarlo sporadicamente – a dispetto del sostanziale silenzio delle fonti coeve – ai suoi più celebri contemporanei, sia pure alternati a esiti di minore impegno e compiutezza formale.
Oltre che in Manfredi, Pulini rinviene i termini di riferimento più significativi della pittura di Mendozzi nei principali caravaggeschi francesi attivi a Roma nel secondo / terzo decennio del Seicento: Vouet, Regnier, Valentin, ma soprattutto Nicolas Tournier, con cui le affinità di stile paiono effettivamente stringenti, tanto da consentire allo studioso l’ipotesi per nulla peregrina di un’attività in comune a Roma col giovane Mendozzi. Non poteva ovviamente essere trascurato anche l’artista nel quale, come abbiamo visto, a lungo si è ritenuto di poter sciogliere l’anonimato del Maestro dell’Incredulità di San Tommaso, ossia Jean Ducamps.
La recentissima monografia dedicata al pittore da Gianni Papi ha peraltro restituito una più chiara fisionomia artistica, seppur ancora circoscritta a un numero minimo di dipinti, a questo che sino a pochi anni era poco più che un nome senza opere, consentendo a Pulini di rappresentare in modo conciso il tema delle sue relazioni col Mendozzi e concentrarsi piuttosto su un’interessante connessione, sin qui di rado messa a fuoco, con la fase di maggiore adesione caravaggesca dell’Alessandro Turchi romano.
Pulini non si esime coraggiosamente anche dal tentativo di delineare una sequenza cronologica generale al corpus di opere del Mendozzi: tentativo ovviamente non privo di una certa ipoteticità e di inevitabili rischi, ma che allo stato delle conoscenze non appare più un azzardo totale. Del resto, a rendere comunque ardua tale impresa è proprio una delle più marcate caratteristiche dell’artista, la prensilità rispetto all’esempio dei suoi maggiori contemporanei, efficacemente sintetizzata da Pulini:
“A pensarci bene non riesco a trovare un pittore che meglio di Bartolomeo Mendozzi incarni e condensi quell’articolato sistema di pensiero. Nelle sue tele sembra trovare sintesi l’intero movimento artistico internazionale che passa sotto il nome di caravaggismo europeo”.
Il catalogo delle opere proposto da Pulini conta ben 120 numeri, ai quali si aggiunge una sezione di 19 “opere dubbie e derivazione”. Un corpus incredibilmente ampio (sin troppo, forse), se pensiamo che esso è frutto di appena 25 anni di ricerche e quindi fatalmente soggetto, nei prossimi anni, a considerevoli incrementi, seppure bilanciati da qualche plausibile sottrazione. Per comporlo Pulini ha accolto la gran parte delle attribuzioni sin qui sedimentatesi, in primis attraverso i saggi di Gianni Papi, Giuseppe Porzio, Francesca Curti e lui stesso, arricchite da un buon numero di opere inedite o già pubblicate sotto altri nomi.
C’è da dire che non tutte, inevitabilmente, tanto tra le vecchie quanto fra le nuove attribuzioni a Mendozzi, approdano allo stesso grado di persuasività, anche perché i dislivelli qualitativi risultano abbastanza palmari da un dipinto all’altro: talché a opere piuttosto impressionanti per solidità costruttiva, energia narrativa, profondità di espressione e virtuosismo naturalistico ne succedono altre più fiacche e generiche nelle composizioni, nel colorito e nelle fisiognomica un po’ bolsa dei personaggi, manifestando una solo superficiale aderenza ai modi di Manfredi.
Fra le aggiunte dovute a Pulini vorrei segnalare come particolarmente convincenti e notevoli il Convivio in osteria presso Studiolo Fine Art, Milano (n. 9, FIG. 9)
la Flagellazione di Cristo (n. 34, FIG. 10)
passato in asta Pandolfini il 17 novembre 2015, il Salvator Mundi e santi della Concattedrale di Santa Maria a Sezze (n. 49, FIG. 10) i due Busti di Apostoli, transitati in asta Boetto il 1 marzo 2022 (nn. 66-67), il Cristo consegna il mandylon al messaggero del re Abgar del Museo Diocesano di Ferentino (n. 91, FIG. 12).
Ma c’è da dire che un certo eclettismo e mutevolezza di accenti, che sembrerebbe far parte dell’habitus mentale oltreché dell’arsenale tecnico di Mendozzi, potrebbe a volte rendere più scettici del dovuto di fronte a dipinti a lui autorevolmente attribuiti che però non aderiscano appieno alla sua cifra pittorica più peculiare e riconoscibile. È il caso di opere pur di alta qualità (come, tra gli altri, il San Giovanni Battista della Galleria Giamblanco di Torino, n. 38, il Busto di vecchio del National Museum di Stoccolma, n. 53, o il Giovane con cappello che mostra il gesto delle “fiche”, del Museo Nazionale di Palazzo Mansi a Lucca, n. 61) che si fa qualche fatica ad inquadrare all’interno di una sequenza che sotto il profilo stilistico risulti pienamente organica e coerente.
Il volume si avvale, in appendice, anche di un contributo di Alberto Marchesin che, muovendo dalla discreta fortuna della pittura caravaggesca presso la corte torinese di Carlo Emanuele I Savoia, perviene a una prima apertura sulla personalità, sin qui pressoché sconosciuta, del fossanese Giovenale Boetto, le cui sparute opere a lui attribuite dallo studioso mostrano interessanti tangenze con l’arte del Mendozzi.
A consuntivo vale la pena rimarcare il valore di un lavoro che, senza proclami, mette un necessario punto fermo su un artista di rango considerevole, seppur non tale da poter essere elevato alla categoria di protagonista su una scena i cui interpreti principali corrispondevano a nomi fra i più significativi di tutta la pittura del Seicento europeo (basti pensare, Caravaggio a parte, a Vouet e Valentin, Ter Brugghen e Baburen, Ribera e Orazio Gentileschi): e l’assenza di commissioni pubbliche di alto livello, come pure il silenzio della coeva letteratura artistica, in questo senso sono indicatori, se non infallibili, impossibili da trascurare.
Tra tanti vasi di ferro va detto però che il nostro Bartolomeo Mendozzi da Leonessa non fa certo la figura del vaso di coccio: ed è grande merito di Pulini averci fornito uno strumento critico che permette di coglierne sino in fondo le qualità.
Luca BORTOLOTTI Roma 12 Febbraio 2023