di Francesca SARACENO
Caravaggio Assassino del ”Decoro”
Nella vastità di articoli e notizie riguardanti Caravaggio e il suo “naturalismo”, non c’è una volta in cui non venga citata qualche “invettiva” del Bellori, biografo iper-critico del maestro lombardo, e non solo. È chiara e lampante la sua avversione verso questo pittore così eterodosso, così fuori dagli schemi, che osò sfidare (… e vincere) il classicismo. Com’è altrettanto chiaro il suo intento di delineare una gerarchia stilistica il cui vertice è l’ideale di perfezione che lo scrittore e storico dell’arte romano individuava nella figura di Raffaello Sanzio.
Questo il suo encomio solenne all’artista urbinate:
“Allora la pittura venne in grandissima ammirazione de gli uomini e parve discesa dal cielo quando il divino Rafaelle, con gli ultimi lineamenti dell’arte, accrebbe al sommo la sua bellezza, riponendola nell’antica maestà di tutte quelle grazie e di que’ pregi arricchita, che già un tempo la resero gloriosissima appresso de’ Greci e de’ Romani.”
Come dire che dopo Raffaello, depositario degli “ultimi lineamenti dell’arte”, la pittura non vide più gloria. Ma da dove aveva origine questa venerazione del Bellori per il “divino” Raffaello e il suo ideale di arte pittorica? Lo storico romano inizia il suo ragionamento da un assunto filosofico:
“Quel sommo ed eterno intelletto autore della natura nel fabbricare l’opere sue maravigliose altamente in se stesso riguardando, costituì le prime forme chiamate idee; in modo che ciascuna specie espressa fu da quella prima idea, formandosene il mirabile contesto delle cose create. Ma li celesti corpi sopra la luna non sottoposti a cangiamento, restarono per sempre belli ed ordinati, qualmente dalle misurate sfere e dallo splendore de gli aspetti loro veniamo a conoscerli perpetuamente giustissimi e vaghissimi. Al contrario avviene de’ corpi sublunari soggetti alle alterazioni ed alla bruttezza; e sebene la natura intende sempre di produrre gli effetti suoi eccellenti, nulladimeno per l’inequalità della materia, si alterano le forme, e particolarmente l’umana bellezza si confonde, come vediamo nell’infinite deformità e sproporzioni che sono in noi.”
Bellori distingue quindi il creato in due diversi contesti: uno “celeste” (divino), ordinato, armonico, scrigno della bellezza “pura”, e l’altro “terrestre”, fatto di entità create secondo l’ideale perfetto (“altamente in se stesso riguardando” ovvero “a Sua immagine e somiglianza”) ma che operano in un contesto materico e sono perciò soggette alla corruzione, al cambiamento e quindi alla bruttezza e al disordine. Un ideale di bellezza “divina” perfetta e immutabile contro l’imperfezione delle cose terrene e corruttibili. Esseri umani compresi.
Ciò che dovrebbe fare l’artista, secondo Bellori, sarebbe: osservare la natura, prendere da essa quanto di meglio possa offrire, nella sua varietà di forme ed espressioni materiali e, secondo il proprio ingegno, mettere insieme come in un puzzle l’ideale artistico supremo di bellezza, ordine e armonia.
Secondo tale principio Bellori si pone come obbiettivo la riaffermazione dell’arte classica che questa sintesi aveva saputo esprimere e aveva trovato la sua massima manifestazione nel Rinascimento (e in Raffaello in particolare). Questo ideale di espressione artistica vedeva adesso insidiata la sua “signoria” su due versanti: il manierismo estremo da un lato e il naturalismo dall’altro. Un “mostro bifronte” che si nutriva di eccessi. Là dove la pittura “di maniera” degenerava esasperando l’idealizzazione delle cose e rifiutando ogni riferimento alla natura, il naturalismo di Caravaggio invece non riconosceva alcuna “idea” ma solo la verità materiale, nella sua interezza, dunque anche nell’imperfezione.
In un panorama artistico così divergente ed estremo, in cui l’ideale classico rischiava di sparire, l’unico pittore che, secondo il Bellori, poteva correre in soccorso dell’arte in quel particolare momento storico, era Annibale Carracci. L’eroe giustiziere
“dall’indole ornatissima (che) inalzò il suo felice genio, accoppiando due cose raramente concesse a gli uomini, natura ed arte in somma eccellenza”.
Il solo che potesse aspirare a restituire allo stile classico il suo trono. Ponendo questa come premessa: su quali basi si fonda, dunque, il biasimo di Giovan Pietro Bellori nei confronti di Caravaggio? Quali sono i “capi d’accusa” a suo carico?
Caravaggio, per il Bellori, si inserisce in questo contesto come “l’anti – eroe” per eccellenza. Colui che, disdegnando per principio ogni idea di bellezza pura, creava la sua arte dalla sola imitazione della natura, senza “selezionare” da essa le forme ottimali, senza impegnare l’ingegno nella ricerca di tali forme, ordinate e armoniche, ma limitandosi alla riproduzione pedissequa del modello naturale, difetti e brutture comprese. Cadendo così inevitabilmente nella totale assenza di decoro.
Nella sua biografia del Maestro lombardo, Bellori riferisce l’episodio in cui Caravaggio, interrogato sul perché si rifiutasse di guardare all’arte classica
“non diede altra risposta se non che distese la mano verso una moltitudine di uomini, accennando che la natura l’aveva a sufficienza proveduto di maestri”,
e lo riporta come prova della sua assoluta disobbedienza e disprezzo per quell’ideale di perfezione che invece, secondo lo storico, doveva essere il fine ultimo dell’arte. E quando, seguendo quell’impulso, Caravaggio
“chiamò una zingana che passava a caso per istrada, e condottala all’albergo la ritrasse in atto di predire l’avventure, come sogliono queste donne di razza egizziana,
secondo il Bellori commise l’errore – tra l’altro – di non produrre alcuno sforzo creativo per “inventare” lui una posa “ideale” per il suo soggetto, ma di cercarla invece già “pronta” nella natura. Nel caso specifico nella espressione e nell’atteggiamento tipico delle zingare.
Un ragazzo insolente e pure svogliato, insomma Michelangelo da Caravaggio…
“non erano in lui né invenzione né decoro né disegno né scienza alcuna della pittura mentre, tolto da gli occhi suoi il modello, restavano vacui la mano e l’ ’ngegno.”
Se a questa spocchiosa, mediocre negligenza si uniscono il “torbido ingegno” e le sue “inquiete inclinazioni”, otteniamo l’immagine limpida del pittore “maledetto”. Parte tutta da qui la sterminata letteratura che si è tramandata fino ai giorni nostri e che si fatica ad estirpare.
A questo si aggiunge per Caravaggio la grave “colpa” di aver sdoganato quella insana passione per “l’indecoroso” del naturale presso i suoi colleghi pittori che, attratti dalla novità e stimolati dal miraggio della fama, presero a imitare il suo stile dando vita ad una vera e propria corrente artistica.
“Così sottoposta dal Caravaggio la maestà dell’arte, ciascuno si prese licenza, e ne seguì il dispregio delle cose belle, tolta ogni autorità all’antico ed a Rafaelle […] allora cominciò l’imitazione delle cose vili ricercandosi le sozzure e le deformità”
Come un virus deturpante, la “rivoluzione” caravaggesca si era propagata fino a contagiare decine di artisti dediti, secondo lo storico, alla riproduzione delle cose più orride e turpi. Così Bellori liquida, sprezzante, la schiera di seguaci del Merisi:
“quelli, che si gloriano del nome di naturalisti, non si propongono nella mente idea alcuna ; copiano i difetti de’corpi, e si assuefanno alla bruttezza ed a gli errori, giurando anch’essi nel modello come loro precettore […]”
Dunque, tutto ciò che per i mecenati, i committenti, i colleghi e gli estimatori dell’arte del Caravaggio costituiva motivo di meraviglia ed entusiasmo, per Bellori era nient’altro che vile negligenza, mediocrità formale, supponenza artistica. Piedi scalzi, volti avvizziti, frutti bacati, abiti logori, modelli popolani… oltraggi “consapevoli” alla suprema “maestà” del decoro. Il contrario dell’arte.
Quello di cui – forse volutamente e forse no – non tenne conto Bellori, è che il naturalismo “integralista” del Caravaggio si innestava nel contesto rigido ed austero della controriforma, con i suoi canoni e precetti imprescindibili, dei quali il pauperismo era elemento fondante che non poteva essere ignorato. L’interpretazione in chiave naturalistica che ne diede il Caravaggio, per quanto personale e a volte estrema, rimase comunque sempre assolutamente nel solco delle specifiche prescrizioni tridentine. L’unica volta che fece troppo “di testa sua” gli fu rifiutata l’opera (la “Morte della Vergine”).
Eppure questo “pittoraccio” senza arte né parte poteva vantare, come nessun altro, uno stuolo di sostenitori convinti ed entusiasti della magnificenza della sua creatività, del suo stile così nuovo, emozionante, carico di pathos.
Bellori non può fare a meno, tra le tante negatività attribuite al Caravaggio, di annotare anche l’assoluta venerazione di cui l’artista fu oggetto da parte di esimi cultori della pittura, suscitando perfino versi di alta poesia. Tra i più invaghiti dello stile del Merisi, Bellori annovera Giovan Battista Marino, poeta napoletano che fu a Roma nel 1600 che dal Merisi ebbe eseguito un ritratto di così mirabile bellezza che volle ripagarlo dedicando al pittore magnifici versi:
Vidi, Michel, la nobil tela, in cui/ da la tua man veracemente espresso/ vidi un altro me stesso, anzi me stesso,/ quasi Giano novel, diviso in dui./ Io, che ‘n virtù d’Amor vivo in altrui,/ spero or mi fia (la tua mercé) concesso,/ in me non vivo, or ravivarmi in esso,/ in me già morto, immortalarmi in lui./ Piacemi assai che meraviglie puoi/ formar sì nòve, Angel, non già, ma Dio :/ animar l’ombre, anzi di me far noi./ Che s’or scarso a lodarti è lo stil mio,/ con due penne e due lingue i pregi tuoi/ Scriverem, canteremo, ed egli, ed io.
Praticamente una dichiarazione d’amore incondizionato.
E non poté ignorare tanta entusiastica espressione di stima, il Bellori, nemmeno dagli innegabili trionfi ottenuti dal Merisi, commissione dopo commissione, nonostante le intemperanze, il carcere, i rifiuti e le critiche. Dovette al fine, il nostro “critico”, riconoscere un merito ineludibile al Caravaggio, l’unico punto di convergenza tra la sua visione dell’arte e quella del maestro lombardo, ovvero la comune opposizione all’avanzata del manierismo estremo, in cui l’imitazione della natura non era minimamente contemplata. Nemmeno nella ricerca della forma migliore, ma solo nella sua idealizzazione estrema. Scrive infatti il Bellori:
“Giovò senza dubbio il Caravaggio alla pittura, venuto in tempo che, non essendo molto in uso il naturale, si fingevano le figure di pratica e di maniera, e sodisfacevasi più al senso della vaghezza che della verità. Laonde costui, togliendo ogni belletto e vanità al colore, rinvigorì le tinte e restituì ad esse il sangue e l’incarnazione, ricordando a’pittori l’imitazione.”
Inosmma, alla fine non fu poi così inutile questo “pittoraccio”…
Francesca SARACENO Catania 2024