Bernarda Visentini e la sostenibile leggerezza delle pietre; un’arte scultorea oltre le definizioni

di Sergio ROSSI

Nell’introduzione ad un mio recente volume[1] sottolineavo come tutti noi (artisti, storici dell’arte o semplici fruitori) nel creare nuove opere o nel ricevere le opere del passato e trasmetterle, modificandole, alle generazioni future, lasciamo anche una traccia tangibile di noi stessi: e quanto più questa “presenza” è individuabile e sofferta, cioè quanto più l’artista sa permeare i suoi lavori dei propri conflitti interiori, fino ad identificarsi completamente con gli oggetti creati, tanto più la sua produzione ci appare significativa.

Al giorno d’oggi, comunque, scolpire una figura umana o dipingere una natura morta o un paesaggio è attuale tanto quanto esporre una installazione concettuale. Così come un dipinto o una statua completamente astratti possono esprimere una profonda ribellione contro la società contemporanea almeno quanto se non più di un’opera di forma e contenuto realistici. L’arte vive del resto del suo indissolubile rapporto tra mente e mano, tra lavoro e intelletto. Per tanto la vera distinzione non può più porsi tra artisti figurativi e artisti astratti o concettuali, ma tra coloro che sanno usare insieme la mente e la mano, qualsiasi tipo di arte facciano e coloro che non sanno farlo. Così come non vi è alcuna incompatibilità o dualismo tra razionalità e fantasia ed entrambi questi elementi sono necessari per la perfetta riuscita di un’opera d’arte.

Quando ho scritto queste riflessioni non conoscevo ancora Bernarda Visentini, che oggi considero una delle scultrici italiane più serie e meritevoli, eppure quando ho visto le sue opere mi è subito apparso chiaro che le mie parole calzavano a pennello con la sua produzione scultorea. E va subito sottolineato come le sue statue non sono fatte per essere contemplate singolarmente, ma vanno ammirate nel loro complesso, come il dipanarsi di un discorso, o se si vuole di un racconto, insieme autobiografico e universale, italiano nella sua prima essenza, che ci rimanda addirittura a Nicola Pisano ed Arnolfo di Cambio, e nel contempo pieno di riferimenti che spaziano dalla Dordogna-Perigord alle zone sperdute della Norvegia, dalle Orcadi all’Africa sub-sahariana o addirittura all’isola di Pasqua. Esse sono “belle” non nell’accezione edonistica e tradizionale del termine, perché il diritto alla semplicità assoluta e primigenia è stata una delle principali conquiste estetiche contemporanee, ma perché piene di un fascino astratto e primordiale che ne costituisce la più autentica peculiarità.

Del resto nemmeno i Prigioni michelangioleschi o la stessa Pietà Rondanini sono “belli” nel senso classico del termine, anzi forse sono la prima compiuta espressione del “brutismo” nell’arte occidentale. E il riferimento a Michelangelo non è certo casuale perché nessuno scultore venuto dopo il Buonarroti, ne sia cosciente o meno, ha potuto o voluto prescindere da quel contrasto tra forma e materia, ordine e caos, ragione e sentimento, di cui la statuaria michelangiolesca è intrisa. Contrasto appena accennato nello Schiavo del Louvre, levigatissimo e quasi interamente finito, ed esasperato invece nel supposto Atlante, povero lacerto di tronco umano oppresso da un peso quasi insopportabile eppure anch’esso assolutamente compiuto nella sua incompiutezza, pronto a sfidarci e venirci incontro non meno del suo così più perfetto “collega”.

Tornando al tema del “bello” mi viene sempre in mente una memorabile lezione del mio Maestro Giulio Carlo Argan dedicata al celeberrimo concorso per le formelle del Battistero di Firenze del 1401 ed al confronto tra Brunelleschi e Ghiberti

«E’ più bello l’Isacco di Ghiberti o di Brunelleschi? Certo, quello di Ghiberti. Quale è plasticamente più forte? Certo quello di Brunelleschi. Per Brunelleschi il valore artistico non coincide con il bello di natura, per Ghiberti i due valori sono una cosa strettamente unita».

D’altronde noi europei dovremmo spogliarci del nostro eurocentrismo e ammettere che il “bello” non sia di nostro esclusivo dominio. Di recente, per esempio, ho fatto un viaggio nello Sri Lanka dove mi sono imbattuto in alcune delle statue più belle che abbia mai visto, naturalmente raffiguranti tutte Budda: alcune gigantesche, altre meno, con la divinità eretta, seduta, sdraiata, scavata interamente nella roccia o a tutto tondo, e parlo di luoghi a me fino ad allora sconosciuti, come Aukana, Polonnaruwa, Dambulla e di epoche oscillanti dal I° secolo avanti all’XI dopo Cristo. Ma naturalmente la loro bellezza e sacralità non è né inferiore né superiore a quella dei nostri capolavori, è semplicemente incommensurabile con essi.

Ed ecco uno di quelli che io considero tra i maggiori meriti di Bernarda Visentini, cioè il fatto di essere aperta e ricettiva verso epoche, culture e mondi assai lontani ma che l’artista sa sempre ricondurre entro confini e temi che sono assolutamente i nostri.

«Con la maturità e le esperienze di viaggio che ho sempre amato, ho approfondito la ricerca artistica, soprattutto scultorea, cui sono giunta per naturale evoluzione. Grazie a diversi siti archeologici da me esplorati e ad un contatto sempre più profondo con la Natura, ne ho colto gli affascinati messaggi allusivi alla spiritualità dell’uomo preistorico che, immerso nell’osservazione dell’universo, vedeva nella natura stessa la Dea Madre creatrice e rinnovatrice di vita».

«La mia ricerca- prosegue l’artista- è diventata, sia sul piano archeologico che scultoreo, impegno e passione autentici cui mi sono dedicata a tempo pieno dal 1980. Allora sono riuscita ad armonizzare, per un processo naturale di maturazione artistica, l’idea, la pittura, il segno con la forma plastica. Per quanto concerne l’idea, cioè il discorso concettuale insito nelle mie opere, attraverso una continua introspezione ho voluto recuperare l’energia primordiale che è in ciascuno di noi. Ho percepito le pulsioni dell’umanità quali forze vitali: il desiderio di farle emergere dal passato e dall’oblio assieme all’intenzione di recuperare le radici dell’uomo per farle rimanere nel presente e di esse permeare il futuro, è quello che ha animato fin dal primo momento la realizzazione dei miei lavori. E mi ha sempre affascinato la purezza e la profondità del rapporto privilegiato dell’uomo preistorico con il mondo animale e vegetale ed il suo bisogno di trascendenza che si coglie nelle offerte votive, nella scelta dei luoghi dove celebrare i riti spesso rivolti a rafforzare la coesione dei gruppi, nella solidarietà di gruppo e nel rispetto delle tradizioni. L’uomo di allora era conscio sia di dipendere dalla natura sia della presenza di un essere intangibile, capace di governare l’universo a cui consegnarsi; si rivolgeva al sovrumano celebrando la figura della Dea Madre dispensatrice di vita, ma anche portatrice di morte, venerata per tutto il ciclo della vita stessa»[2].

L’arte primitiva ci riconduce inoltre ad un’altra riflessione fondamentale. Ho appena visitato i Petroglifi di Qorastan, in Azerbaigian, tra i più interessanti e meglio conservati del mondo, incisi nella roccia migliaia di anni fa ma che ancora ci parlano del primordiale bisogno dell’uomo di comunicare attraverso i segni, prima ancora che attraverso le parole, circa il suo rapporto con la natura, con la “madre terra” appunto, e di propiziarsi il suo aiuto in vista dei suoi bisogni primari: la caccia, la procreazione, il regolare svolgersi dei cicli atmosferici. Sono figure di animali, soprattutto tori resi con assoluta perizia, scene di caccia e di danza, figure appena abbozzate di donne sempre incinte.

Venendo finalmente allo specifico della produzione della Visentini, non ha senso chiedersi se la sua scultura sia astratta o figurativa, perché la nostra artista parte sempre dalle figure umane o comunque da elementi naturalistici, per poi spesso scarnificarli o rimodularli, ritrovarne l’essenza, l’archetipo. E non si tratta mai di elementi completamenti astratti, cioè lontani o esenti dalla realtà, anche quando ci appaiono nella più geometrica e stilizzata delle forme, perché vengono ricondotti poi al dualismo primigenio di maschile e femminile, perennemente in conflitto e perennemente in cerca di una alchimistica coniunctio, quella unione, appunto, in cui tutto si ricompone e da cui tutto proviene.

1- Domovoj, cm 60x25x24, graffiti su cemento e terre
2- Glifo, cm 60x25x12, graffiti su cemento e terre

Mi riferisco ad esempio a Domovoi (fig.1), dove una sorta di totem incastrato in una nicchia contiene al suo interno due sinuosi serpenti, che ritroviamo anche in Sigillo ad evocare il diabolico tentatore o piuttosto, secondo me, l’alchemico ouroboros che si morde la coda e allude alla ciclicità imperitura delle fasi naturali. O a Glifo (fig.2), dove due fessure squarciano la materia come fossero gocce di pioggia giganti, mentre altrove l’equilibrio compositivo è raggiunto attraverso una felice combinazione di rette e di curve, e attraverso il segno che incide il cemento come geroglifici impressi su di un antico papiro, segni che ritroviamo in Stele o Estrema sintesi dove torna l’altro elemento fondamentale del rapporto binario maschile/femminile e che rimanda al contempo al complesso simbolismo della cultura aborigena australiana.

3- Sul corpo della Dea, cm 62x25x5, graffiti su cemento
4- Girotondo, tre elem. da cm 60x30x20, cemento

In Sul corpo della dea (fig.3), invece, i concetti di pieno e di vuoto si rovesciano e la statua diventa il contenitore, mentre il vuoto o piuttosto quello che esso lascia intravvedere, sia un paesaggio o sia la sala di un museo, diventa il contenuto. Nel bellissimo Girotondo preistorico (fig.4), poi, abbiamo un trittico insieme ascetico e sensuale in cui torna ancora il tema fondamentale della maternità come fonte primaria di ogni energia vitale e che è poi in definitiva l’humus che riconduce l’arte “laica” della Visentini entro i confini di una religiosità ampia e onnicomprensiva che ritroviamo nella Dea Uccello (fig.5)

5- Dea uccello, cm 29x25x7, graffiti su cemento e terre
6- Dea bianca fra onde, 2 el. da cm 60x24x18 e uno da cm 58x21x10, graffiti su cemento
e terre

dove linee rette e linee curve si incrociano in un andamento spiraliforme e attraverso una superfice incisa per diagonali concentriche che ci riporta proprio al tema dell’eterno ciclo vitale della natura. Mentre Dea bianca fra le onde è una sorta di rivisitazione archetipica della Venere botticelliana, dove una sinuosa silhouette femminile appare candida tra due blocchi appena graffiti e che quasi si genuflettono in sua presenza (fig. 6).

7- Spirali, cm 75x25x3, graffiti su cemento e terre
8- Dee occhio, 3 el. da cm 180x25x20, graffiti su cemento e terre

Dicevo prima che non ha senso chiedersi se l’arte della nostra scultrice sia figurativa o astratta e potrei ora aggiungere che non avrebbe neppure senso chiedersi se le sue siano pitture scolpite o statue dipinte. E così in Spirali (fig.7) o in Dee occhio (fig. 8), il segno graffiante si fa pittura mentre le steli di Ideogrammi in sequenza (fig.9) si snodano come un enormi pagine che ci raccontano del grande mistero della natura,

9- Ideogrammi in sequenza, cm 240x120x6, bassorilievo su cemento e terre

che ritroviamo in Omaggio alla grande madre (fig.10),

10- Omaggio alla Grande Madre, cm 155x36x30 e 33 vaghi da cm 10×6,5×9 a cm 24x17x18, cemento e terre

dove abbiamo al centro una candida figura femminile di un fascino primordiale, senza testa e senza braccia, proprio come nei petroglifi di Qobustan, e intorno, a renderle omaggio, una serie di pietre colorate che sembrano intonare una danza propiziatoria.

Recentemente la scultrice ha definito alcune delle sue opere come ‘Aecheosculture’, ossia oggetti che “abitano” lo spazio circostante e in qualche misura si integrano alla perfezione con esso, come Bastoni sciamanici, o quella sorta di Dolmen rivisitato che è Dromos.

11- Dea aviforme, cm 58x27x24, cemento
12- Figlia di Eva cm 62x25x12, cemento

Oppure torna a rimeditare su esperienze quali Sigillo o Dea aviforme (fig.11), sensuale e rotonda pur nella sua primordialità, conferendo loro una grazia e delicatezza di linee e di volumi veramente sorprendenti, come in Figlia di Eva 1 e 2 (fig.12), che riescono a conferire ad un materiale ostico come il cemento la duttilità e trasparenza del marmo.

 A questo proposito va detto che il materiale preferito dalla nostra scultrice è il cemento leggero, ossia il calcestruzzo cellulare espanso autoclavato:

«Siccome il presente mi ha sempre dato l’idea di instabilità, di precarietà, talvolta di mancanza di grandi tensioni e valori, ecco allora che il cemento, così poroso, effimero, che si polverizza a differenza della forte pietra nella preistoria, diventa metafora del “fragile” presente! Eseguo il mio lavoro artistico rigorosamente a mano con strumenti anche realizzati all’uopo quali segoni, scalpelli, sgorbie… ed intervengo, alla fine, mediante carteggiature con carta abrasiva di diversa grana».

Con questo materiale così effimeramente postmoderno, come una sciamana che intona riti propiziatori, la Visentini crea magici caroselli di forme primigenie e insieme perfettamente compiute, che evocano quelle che lei chiama “le antiche voci della natura” e svelano l’intima essenza degli elementi primari, acqua, aria, terra, fuoco e del dualismo maschile/ femminile, elementi che danno origine a quel Caos iniziale che Paul Klee in una delle sue prime lezioni al Bauhaus, definiva:

«una condizione di disordine nelle cose, un arruffio: cosmogonicamente, uno stato primitivo, mitico del mondo, dal quale poi prende forma, a mano a mano oppure repentinamente, di per sé o grazie all’intervento di un creatore, il cosmo ordinato»;

ed il Pernety, nel suo Dizionario mito-alchemico, dal canto suo scriveva:

«Caos vuol dire confusione, mescolanza; secondo gli Antichi esso era la materia dell’Universo, prima di ricevere una forma determinata».

Praticamente la stessa identica cosa. Ed è proprio da questo ‘arruffio’ primitivo che la Visentini fa nascere come per magia, ora gradualmente ora repentinamente, quelle forme esteticamente pregnanti che costituiscono la sua produzione scultorea.

Sergio ROSSI   Roma 9 maggio 2021

NOTE

[1] Scultori e pittori dell’in-finito. Da Michelangelo ai giorni nostri, Roma 2013.
[2]  Bernarda Visentini scultrice, Palermo, s.d. pp.3-4