di Nicola GRAZIANI
Quando le donne costruivano la Chiesa*
Ha un bel dire, Papa Francesco, che “servono più donne ai vertici della Chiesa”, perché immediatamente dopo ammette lui per primo il grave ritardo. Non che non esistano figure di rilievo: tra le cento (e cento son davvero) ne ricordiamo una sola, cioè la parte per il tutto. Si vada a vedere chi è e cosa ha fatto e scritto, per dire, Suor Alessandra Smerilli, salesiana economista, e si capirà non che Bergoglio ha ragione, ma che Bergoglio prende semplicemente atto dell’innegabile realtà delle cose. Il dato di fatto, diceva Kelsen, ha forza di diritto, e i diritti vanno rispettati.
La Chiesa, insomma, è donna e non solo perché un giorno venne al mondo Maria figlia di Anna e Gioacchino.
Fu ad un gruppo di donne che toccò il primato della rivelazione della Notizia. Egli era risorto. Pietro, il cui primato era già stato stabilito, quel giorno giunse al Sepolcro solo dopo, e certi dettagli non capitano a caso. Poi c’è chi esagera: nel 2018 uscì un film (peraltro ben girato) su Maria di Magdala che ne volle fare l’antesignana della Papessa Giovanna, ma certe cose le sostengono gli gnostici. La Chiesa di Francesco è su tutt’altra linea. Ma ugualmente una cosa la sa, e cioè che senza le donne sarebbe monca, priva d’anima. Non più comunità o assemblea, ma rigida e sterile confraternita: come un’associazione studentesca prussiana, dove alla fine per la disperazione ci si prendeva a spadate in faccia per dimostrare di essere virili.
Non si neghi poi l’altra evidenza, e cioè che la stessa Loggia da cui sette anni fa Francesco si affacciò, per non dire del davanzale da cui lo ha fatto ancora ieri, anche da donne fu materialmente edificata: mattone su mattone e pietra su pietra. San Pietro l’hanno fatta anche le donne. La storia è da sempre dimenticata, ma vale la pena di essere riferita.
Per secoli il silenzio ha dominato sulla storia delle operaie che fecero la Basilica, tanto che ora a trovarne i nomi non si fa più a tempo. Sepolti nella polvere degli archivi o mai registrati, come se non fossero degni di essere mentovati: sempre di donne, in fondo, si trattava. A riscoprire le tracce della loro presenza, senza la quale la San Pietro di oggi non starebbe in piedi a dispetto di Michelangelo e Bernini, sono stati tempo fa due studiosi al femminile, Simona Turriziani e Assunta Di Sante, entrambi impegnate professionalmente nell’archivio storico della Fabbrica della prima basilica della cristianità.
Per anni le due studiose hanno scartabellato i dati dell’archivio, riuscendo a ricostruire molte cose molto interessanti. Basti accennarne una: il fatto che i soldi delle indulgenze che tanto scandalizzavano Lutero in realtà se li tenevano i principi tedeschi, pronti di lì a poco a cavalcare la Riforma. Ma quella delle donne operaie della Fabbrica di San Pietro è cosa, se si vuole, più vicina all’animo umano, e più toccante. Perché di loro, per l’appunto, poco si sa, a parte la loro condizione di popolane lavoratrici.
Vedove, erano, oppure orfane, oppure sostituivano il marito in un lavoro ingrato ma pur sempre un lavoro: di fatica, ma permetteva di portare a casa la sopravvivenza. Erano comunque in molte, più di quanto non ci si immagini; decine e decine, tanto da far pensare che il loro contributo, a suo modo da specializzate, fu non piccolo. Se il Signore non costruisce la città invano lavorano gli operai, ma se gli operai non sono aiutati dalle operaie, per fare la chiesa ci vuole un miracolo del Signore.
Dietro quei dati e quelle note burocratiche si intravede ad ogni modo un insieme di storie che farebbe la gioia di uno storico francese delle Annales, perché in filigrana è un mondo intero che emerge e vite umane che tornano a muoversi in un contesto di rapporti personali e contrattuali che aprono un’intera epoca come una mela, e ce la restituiscono com’essa fu in realtà. Magari anche col baco.
Si diceva: vedove. Il lavoro dei sanpietrini, come per secoli si sono chiamati gli addetti alla realizzazione e alla manutenzione della Basilica, era rischioso. Ancora le cronache dello scorso secolo ci riferiscono che le luminarie della Cupola imponevano non di rado il loro conto in vite umane. Mezzo millennio fa – e la cosa era molto avanzata per quell’epoca – quando uno di loro cadeva da un’impalcatura, e restituiva anzitempo l’anima a Dio, si aveva cura di assumere un altro elemento della famiglia. Nelle rare anagrafi dell’epoca i familiari non erano indicati secondo il sesso maschile o femminile, ma con il sostantivo “bocche”. Questo dice tutto.
Morto il capofamiglia, insomma, una bocca lo doveva sostituire per aiutare le rimanenti. Se non c’era un uomo, o era troppo giovane, si prendeva la donna, a fare esattamente lo stesso mestiere. In questo modo quelle donne o quelle ragazze tiravano le funi facendo attenzione che non bruciassero, portavano il travertino semilavorato sul carretto, davano di scalpello se necessario e di calce e cazzuola ancor più spesso. La Fabbrica prosperava e la Basilica veniva, sempre più su, verso quel cielo dal quale un padre o un fratello guardava intonando il Gloria con le anime salvate.
Per fortuna non erano solo lavori di fatica. I documenti parlano di “vetrare, ferrare, capatrici, fornaciare, cristallare e indoratrici di smalti per i mosaici”. Alto artigianato, insomma, e manodopera specializzata. Fino a sfiorare l’arte vera e propria. Anzi, l’arte assoluta.
Si racconta, ed è vero, che Gianlorenzo Bernini nel lavorare a San Pietro perse l’amore, ma poi lo ritrovò. Lo perse verso la bella Costanza Bonarelli, moglie di uno dei suoi scalpellini. Divennero amanti e lo restarono finché lui non si accorse che analoga passione nutriva il suo stesso fratello Luigi, anch’egli corrisposto. Cercò di ucciderlo personalmente, il Caino, e fece sfigurare lei con una rasoiata. Ad impedirgli di fare di peggio fu la madre Angelica, l’unica donna cui desse davvero retta.
Spedito in esilio dal Papa Barberini, tornò a patto che si sposasse con la modesta ma virtuosa Caterina Tezio. L’amore sarebbe durato tutta la vita. Reintegrato al suo posto nella Fabbrica, comunque, si dovette misurare con un’altra donna che seppe tenergli altrettanto testa. Una delle donne chiamate a lavorare ad maiorem gloriam Dei. Si chiamava Francesca Bresciani. Francesca Bresciani, donna fortunata, non era né vedova né orfana. Aveva marito e figli, ed un lavoro. Intarsiatrice. Venne assunta dal Bernini, che aveva occhio, con una gara d’appalto in virtù della sua maestria nel lavorare le pietre dure. C’era da realizzare il tabernacolo della Cappella del Santissimo Sacramento, in fondo a destra guardando l’abside. Quattro metri di struttura architettonica disegnata personalmente dal Capo dei Lavori, che si era ispirato al Bramante e alla tradizionale rappresentazione della Gerusalemme Celeste. Infatti andava ricoperta di lapislazzuli.
Francesca tagliava e univa, rivestiva e lucidava quel blu trapunto di oro comprato a Napoli e proveniente dalle miniere del Sudamerica. Poi, però, voleva anche essere pagata, e qui iniziarono i dolori. Bernini doveva essere o un discreto tirchio o un discreto maschilista, o entrambe le cose. Fatto sta che, unilateralmente e senza preventiva autorizzazione, le dette molto meno del pattuito e lei si infuriò. Cosa inutile, in una Roma che aveva visto da poco la triste vicenda di Artemisia Gentileschi. Ma la Bresciani, abituata a dover gestire uomini figli e artisti, d’animo non si perse e scrisse a Sua Santità.
Scrisse, la donna, del torto subito, come anche della scarsa perizia del Bernini nel riconoscere il lapislazzulo prima di pagarlo, come pure del tempo da lei impiegato nell’opera a discapito delle cure della famiglia. Chissà quale di queste argomentazioni fece breccia nella mente e nel cuore del Pontefice; comunque lei ebbe ragione, e il Bernini aprì suo malgrado i cordoni della borsa.
Storia a lieto fine dal punto di vista morale e sindacale, che anticipa il ragionamento della Rerum Novarum riguardo la giusta mercede. Se ne evincono diverse cose: che al mondo ci può essere giustizia; che il Papa può ascoltare; che però per ottenere il giusto riconoscimento bisogna alzare la voce.
Le donne che intendono contare nella Chiesa sappiano che da solo Francesco può fare fino a un certo punto. Sono loro che devono farsi sentire.
©Nicola GRAZIANI Roma ottobre 2020